www.studiodisa.itLa massima

La situazione di l’abbandono “materiale e morale” ex art. 578 c.p. costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, atteso che la concreta situazione di abbandono, pur rappresentando un dato concreto e indiscutibile che deve effettivamente sussistere, trattandosi di un elemento del fatto tipico, non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e il parto.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 19 giugno 2013, n. 26663

Ritenuto in fatto

 

1. Il 20 novembre 2009 il Gup del Tribunale di Lucera, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava B.C. e M.F. colpevoli dei delitti di concorso nell’omicidio volontario aggravato in danno della figlia appena nata della prima (art. 575 c.p, art. 577 c.p., n. 1) e nell’occultamento del suo cadavere (artt. 412, 61 n. 2 c.p.), in (omissis) , e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche dichiarate prevalenti sulla contestata aggravante, riconosciuto il vizio parziale di mente per la B. , condannava quest’ultima alla pena di anni sei e mesi undici di reclusione e la M. , genitrice della B. , alla pena di anni dieci di reclusione.

2. Il sei marzo 2012 la Corte d’assise d’appello di Bari, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava estinto il reato di cui all’art. 412 c.p. per prescrizione e per l’effetto rideterminava le pene in anni sei e mesi quattro per B.C. ed in anni nove e mesi quattro per la madre, confermando nel resto la decisione di primo grado.

3. Dalle sentenze di merito emerge la seguente, comune ricostruzione dei fatti. Nella tarda mattinata del 1 febbraio 2001 le imputate si presentavano presso gli ospedali di Foggia perché in preda B.C. ad una vasta emorragia nella regione vaginale; i sanitari riscontravano immediatamente i segni evidenti di un recentissimo parto, rispetto al quale sia la paziente che la madre si mostravano del tutto reticenti; l’accesso in tal modo giustificato dei CC. presso l’abitazione delle imputate, posta in Troia, consentiva di rinvenire occultato sotto il letto, all’interno di una busta di plastica, il corpicino senza vita di una bambina appena partorita; il medico legale accertava, nell’immediatezza, che la bambina era nata il mattino di quel giorno, che era nata viva e vitale e che la morte era stata cagionata da asfissia subito dopo il parto; le indagini accertavano altresì che la bimba era il frutto di una relazione intrattenuta dalla madre con persona anziana già sposata, che la gravidanza, tenuta nascosta a parenti e vicini, era stata vissuta con gravi sensi di colpa, che il padre della piccola si era del tutto disinteressato della vicenda. B.C. in particolare, interrogata dal P.M., affermava di aver partorito da sola, che il feto era stato spontaneamente espulso -circostanza contraddetta dall’accertamento medico-legale che la membrana aveva subito una rottura meccanica – che la madre l’aveva aiutata soltanto dopo l’espulsione del feto, circostanza anche questa smentita dal medico legale, il quale ha affermato la necessità di una persona accanto alla partoriente per consentire la rottura meccanica della membrana.

4. Il fatto veniva qualificato dai giudici di merito come omicidio volontario e non come infanticidio in condizioni di abbandono materiale o morale (secondo quanto prospettato dalla difesa), atteso che, nonostante l’accertata seminfermità di mente della partoriente al momento dei fatti, non poteva -a loro avviso- riconoscersi nella fattispecie, anche in forza dell’insegnamento giurisprudenziale, le condizioni di abbandono materiale o morale caratterizzanti l’ipotesi criminosa di cui all’art. 578 c.p.. I giudicanti hanno sostenuto siffatta conclusione rilevando che sul territorio esistevano strutture socio-sanitarie alle quali la madre avrebbe potuto rivolgersi; che il comportamento dell’imputata, la quale aveva cercato in precedenza di abortire non riuscendovi per la mancanza di aiuto della genitrice e dell’amante, lasciava trasparire la sua decisione, da tempo assunta, di sopprimere il prodotto del concepimento; che l’imputata si era già rivolta alle strutture sanitarie presenti sul territorio; che anche dopo il parto, in preda ad una copiosa emorragia, la stessa non aveva esitato a rivolgersi a quelle strutture presso le quali avrebbe potuto scegliere di partorire se non animata dal proposito omicida. Dette premesse escluderebbero in radice, sempre secondo avviso dei giudici di merito, una correlazione tra lo stato di abbandono e l’evento delittuoso del quale deve rispondere anche la M. , necessariamente al corrente dello stato di gravidanza della figlia con la quale viveva e dormiva ed alla quale dovette necessariamente fornire aiuto al momento del parto, come dimostrato dalla rottura meccanica della membrana, possibile soltanto se presente altra persona con la partoriente.

5. Avverso la citata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite il comune difensore di fiducia, entrambe le imputate.

5.1.1 Col primo motivo di impugnazione, nell’interesse di B.C. , denuncia la difesa ricorrente violazione di legge e difetto di motivazione, in particolare deducendo: l’esclusione dell’ipotesi prevista dall’art. 578 c.p. risulta fondata su un’erronea lettura degli elementi probatori acquisiti in merito alle condizioni di abbandono morale e materiale in cui versava l’imputata, tenuto conto del contesto di isolamento, ipocrisia, degrado socio-economico in cui è maturato il gesto della donna, dello scarso livello culturale della madre, unica convivente, ancorata ad una visione arcaica della vita e dei rapporti interpersonali, nonché dell’accertato stato di seminfermità, sicché lo sviluppo dell’iter argomentativo del provvedimento impugnato è caratterizzato da palesi insufficienze, soprattutto là dove da rilievo decisivo, minimizzando e di fatto escludendo i fattori precedenti, alla presenza sul territorio di insediamenti sanitari idonei a raccogliere la partoriente, all’utilizzo di tali strutture subito dopo il parto, alla volontà in precedenza espressa dal l’imputata di liberarsi del frutto della gravidanza.

5.1.2 Deduce, in secondo luogo, la difesa ricorrente difetto di motivazione nel mancato accoglimento delle doglianze difensive in ordine all’omesso riconoscimento del vizio totale di mente.

5.2.1 Col primo motivo sviluppato nell’interesse di M.F. denuncia invece la difesa ricorrente illogicità della motivazione là dove la sentenza impugnata accredita un concorso pieno dell’imputata nei fatti di causa in assenza di una prova certa del suo coinvolgimento, materiale ovvero anche soltanto morale, nella soppressione della creatura appena nata.

5.2.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia infine la difesa della M. violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla qualificazione della condotta contestata ed al mancato riconoscimento, in concreto, della ipotesi delittuosa di cui all’art. 578 c.p., svolgendo sul punto argomentazioni e deduzioni del tutto sovrapponibili a quelle innanzi sintetizzate col primo motivo sviluppato difensivamente in favore della coimputata B.C. .

 

Considerato in diritto

 

1. Il primo motivo di ricorso di B.C. e l’analogo secondo motivi di impugnazione della M. appaiono fondati. La sentenza d’appello ha escluso l’ipotesi dell’infanticidio in base alla considerazione che la situazione di abbandono materiale e morale è ravvisabile in concreto solo quando la madre viene a trovarsi in una situazione di isolamento tale da non consentire l’aiuto di presidi sanitari o di altre persone, situazione inesistente nel caso in esame caratterizzata dalla volontà della madre di celare il suo stato di gravidanza di per sé cagione, provocata dalla stessa interessata, della mancanza di ogni possibile forma di aiuto. La pronuncia impugnata valorizza altresì le circostanze che l’imputata tentò l’aborto nel corso della gravidanza e che subito dopo il parto cercò aiuto in ospedale per contrastare l’emorragia in atto, da ciò deducendo il proposito omicida della prevenuta al di là di ogni situazione di inesistente abbandono.

2. L’interpretazione dell’art. 578 c.p. contenuta nella sentenza impugnata non appare corretta.

Come osservato da questa sezione della Corte con sentenza 7.10.2010, n. 40993, alla quale la presente motivazione fa ampio ed adesivo riferimento, l’attuale formulazione del reato di infanticidio è il risultato di un lungo e travagliato iter parlamentare conclusosi nel 1981.

Il codice del 1930, innovando la previsione contenuta nel codice Zanardelli, che lo inseriva tra le attenuanti dell’omicidio, provvedeva ad un inquadramento giuridico autonomo della fattispecie, costruita su un referente tutto sociologico: la ragione di un attenuato rigore sanzionatorio veniva individuata nella causa d’onore, ossia nella necessità, in adesione alle concezioni sociali del momento, di salvare il proprio onore sessuale. La validità di una simile scelta legislativa è stata successivamente messa in forse dai rapidi mutamenti occorsi nel costume e nella sensibilità sociale in materia di rapporti familiari, tali da indurre ad una riformulazione della fattispecie con la L. 5 agosto 1981, n. 442. La ragione giustificativa della fattispecie novellata e del differente regime sanzionatorio rispetto al delitto di omicidio volontario deve essere colta non sotto il profilo oggettivo, trattandosi comunque di un’offesa arrecata al bene giuridico della vita umana, bensì sul piano soggettivo, dato che il fatto è ritenuto dal legislatore meno ‘colpevole’ in considerazione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo connesse al parto e al contesto di particolare difficoltà in cui esso viene a collocarsi.

Espressione di questa ratio della norma sono la sua configurazione come reato proprio (soggetto attivo del reato è, infatti, la madre e non ‘chiunque’) e il differente regime sanzionatorio previsto nei confronti dei correi a seconda che abbiano o meno agito ‘al solo scopo di favorire la madre’.

Gli elementi specializzanti la fattispecie oggettiva sono due: a) il dato cronologico, atteso che il fatto deve essere commesso durante o ‘immediatamente dopo’ il parto; b) le condizioni di ‘abbandono materiale e morale’ della madre al momento del parto, tali da determinarne la decisione.

3. È indubbio e incontestato che le condizioni di ‘abbandono materiale e morale’ debbono sussistere oggettivamente e congiuntamente e devono essere connesse al parto, nel senso che, in conseguenza della loro obiettiva esistenza, la madre non ritiene di potere assicurare la sopravvivenza del figlio subito dopo il parto (Sez. 1, 26 maggio 1993, Paniconi, 194870; Sez. 1, 16 aprile 1985, Vicario, 170384).

Ciò posto, nella giurisprudenza di questa Corte si registrano orientamenti interpretativi difformi sull’interpretazione della nozione di ‘abbandono materiale e morale’, contraddistinta, come altresì dottrinariamente rilevato, da una portata semantica assai lata ed incerta.

Alla stregua di un primo indirizzo, la situazione di abbandono richiesta dalla norma si configura soltanto quando, da un punto di vista oggettivo, la donna, al momento del parto, si trova in una situazione ‘di assoluta derelizione ovvero di isolamento tale che non consente l’intervento o l’aiuto di terzi né un qualsiasi soccorso fisico o morale’ (Sez. 1, 26 maggio 1993, n. 7756; Sez. 1, 3 ottobre 1986, n. 1007; Sez. 1, 15 aprile 1999, n. 9694; Sez. 1, 9 marzo 2000, n. 2906; Sez. 1, 17 aprile 2007, n. 24903). In tale contesto esegetico si collocano alcune decisioni che riducono ulteriormente l’ambito applicativo della norma, argomentando che lo stato di abbandono della madre non deve essere determinato da una situazione contingente correlata al momento culminante della gravidanza, ma deve esistere da tempo e costituire una condizione di vita che si sostanzia nell’isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale, produttivo di un profondo turbamento spirituale che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza, in molte partorienti immuni da processi morbosi mentali e, tuttavia, coinvolte psichicamente al punto da smarrire almeno in parte il lume della ragione (Sez. 1, 25 novembre 1999, n. 1387; Sez. 1, 7 ottobre 2009, n. 41889).

Questa interpretazione restrittiva della nozione di ‘abbandono materiale e morale’ mal si concilia con una lettura logico-sistematica e con la ratio della norma, il cui ambito applicativo viene relegato ad alcune ipotesi del tutto eccezionali e di scuola in cui, come osserva un’autorevole dottrina, la donna si trova a partorire ‘in una landa molto isolata, oggettivamente priva di qualunque assistenza’.

Un diverso indirizzo interpreta, invece, il requisito dell’abbandono materiale e morale in senso ‘individualizzante’ e ritiene applicabile la fattispecie prevista dall’art. 578 c.p., anche quando sia possibile, nel contesto territoriale ove avviene il parto, il ricorso da parte della madre all’aiuto di presidi sanitari (Sez. 1, 13 giugno 1991, n. 8489) o di altre strutture, ma la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna le impedisce di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione. In tale prospettiva, ai fini della configurazione del reato, è stata ritenuta irrilevante la disponibilità, da parte dell’imputata, di idonei mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare totalmente indifferente al dramma umano della donna (Sez. 1, 16 aprile 1985, n. 7997; Sez. 1, 15 aprile 1999, n. 9694). Nella medesima ottica è stato attribuito rilievo anche alla totale incomunicabilità e all’assoluta incapacità dell’ambiente familiare di cogliere l’evidenza dello stato della donna e di avvertire ogni esigenza di aiuto e di sostegno necessari alla stessa (Sez. 1, 18 novembre 1991, n. 311). 4. Tanto premesso, ritiene il Collegio che l’abbandono ‘materiale e morale’ costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere ‘in chiave soggettiva’: in altri termini, la concreta situazione di abbandono, pur rappresentando un dato concreto e indiscutibile che deve effettivamente sussistere, trattandosi di un elemento del fatto tipico, non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto (in particolare cfr. Cass. 40993/2010 cit).

Una conclusione del genere pare maggiormente coerente con la lettura logico-sistematica e con la ratio della norma, sostenuta dalla constatazione che diversi fattori, tanto biologici quanto sociali e relazionali, possono svolgere un ruolo attivo nel determinismo dell’evento delittuoso: da un lato la condizione di severo stress psicofisico che accompagna il parto e, dall’altro, il contesto di particolare sfavore e solitudine nel quale si collocano dapprima la gestazione e poi il parto (gravidanza nascosta oppure osteggiata, solitudine materiale e affettiva, povertà estrema, contesto sociale, maturità culturale inesistente). L’esegesi della nozione lata contenuta nell’art. 578 c.p., non può, inoltre, prescindere dalle più moderne acquisizioni scientifiche, alla stregua delle quali è improprio ricondurre la maternità ad un ambito esclusivamente medico-sanitario, il cui percorso è scandito da analisi di laboratorio e da protocolli diagnostici vincolanti ai fini del parto, così come pure limitare la condizione della donna in gravidanza ad una dimensione squisitamente fisiologica. I problemi della gestante non si limitano alle eventuali difficoltà di un corpo che partorisce e la maternità non si esaurisce nel parto (sentenza 40993/2010).

Gli studi basati sull’osservazione e sulla clinica, in opposizione ad un approccio esclusivamente medicale alla gravidanza che, invece, isola sia il corpo materno che l’embrione-feto, parlano di ‘vissuto interiore’ della maternità ed evidenziano che diventare ‘madre’ è un processo complesso, che ha inizio ben prima della nascita del figlio e che richiede alla donna di sottoporsi ad un’articolata esperienza psicologica individuale, ad un difficile percorso di riadattamento della propria organizzazione psichica, ad una profonda trasformazione identitaria, implicante la rivisitazione dei rapporti familiari (in particolare quello con la genitrice) al fine di elaborare una propria identità di madre. In proposito, un’autorevole dottrina sottolinea che, nel corso della gravidanza, la donna deve transitare dal periodo di identificazione ed accettazione del feto quale parte di sé, alla formulazione di un nuovo io che comprenda anche il feto, in una sorta di ‘unità duale’, e da questa giungere all’elaborazione del concetto del feto quale ‘altro da sé’, posizione propedeutica alla sua separazione (Cass., 40993/2010 cit.).

5. Alla luce dei principi sin qui esposti, la sentenza impugnata è viziata sotto vari profili.

Innanzitutto appare il frutto di un’erronea interpretazione dell’art. 578 c.p., in quanto muove da una restrittiva e non condivisibile esegesi in chiave rigidamente oggettiva del concetto di ‘abbandono materiale e morale’, inteso come lontananza da presidi sanitari ed escluso in costanza di un volontario isolamento della partoriente. In secondo luogo contiene un’insanabile frattura logico-argomentativa: mentre pare, infatti, riconoscere la sussistenza di una situazione fattuale oggettivamente ostile alla donna, ritiene nel contempo ininfluente il suo stato di seminfermità, viceversa ineludibile fattore di massima enfatizzazione di tale concreta situazione. Inoltre, contraddicendo la premessa maggiore in ordine alla lettura della nozione di abbandono intesa come vera e propria condizione di vita che prescinde dal ristretto periodo della gravidanza e del parto, i giudici di merito hanno ritenuto che la presenza a 20 km. di un ospedale fosse di per sé idonea a comprovare l’insussistenza di uno stato di effettiva derelizione della donna. Di conseguenza, in sede di rinvio, la Corte d’assise d’appello di Bari dovrà, sulla base dell’interpretazione del requisito dell’abbandono ‘materiale e morale’ quale requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, secondo quanto precisato al paragrafo precedente, procedere ad una nuova valutazione della concreta situazione di isolamento in cui versava B.C. , tenendo presente che tale condizione non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, essendo sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dall’imputata nel contesto di una difficile e complessa esperienza psicologica individuale legata allo stato di gravidanza e, quindi, al parto (cfr. par. 4), con incisiva delibazione contestuale dello stato di accertata seminfermità al momento dei fatti.

6. Anche la motivazione con la quale la corte di merito ha ritenuto la colpevolezza della M. in ordine al reato di omicidio volontario della nipotina appena nata si appalesa insufficiente e non pienamente logica.

Sul punto (pag. 24 della sentenza) il sillogismo decisionale in esame si è sviluppato deduttivamente dalla ritenuta acquisizione probatoria certa che la madre abbia collaborato con la figlia nel parto e che per il suo limitatissimo livello culturale, in uno con arcaiche concezioni dei rapporti sociali, abbia concorso moralmente, spingendola a ciò, nella determinazione della figlia di sopprimere il frutto dell’indesiderato concepimento. Non solo, l’aver attivamente aiutato la figlia nelle operazioni di parto, ad avviso dei giudicanti, da forma al concorso materiale della M. nella soppressione della nipotina immediatamente dopo la sua nascita.

L’iter argomentativo appena sintetizzato non appare logicamente coerente.

Affinché si abbia concorso morale nel reato, anziché mera connivenza non punibile, è necessario che sussistano degli elementi concreti idonei a dimostrare che l’opera del concorrente abbia volontariamente inciso in misura apprezzabile sulla psiche dell’autore materiale del fatto, anche solo rinsaldando il preesistente proposito criminoso (Cass., Sez. 4, 31/01/2008, n. 9500). Di qui la necessità logica di individuare, eppertanto di provare nel processo, una condotta, anche omissiva, idonea a determinare ovvero anche solo a rafforzare il proposito delittuoso.

Nel caso in esame i giudici di merito ritengono soddisfatto l’onere probatorio richiamando gli improperi rivolti dalla madre alla figlia nel corso della gravidanza e le condizioni di degrado culturale e sociale dell’imputata, senza null’altro aggiungere per dimostrare i modi attraverso i quali il comportamento della predetta abbia apprezzabilmente determinato ovvero rafforzato la volontà omicida della figlia e che quegli improperi fossero diretti proprio a tale scopo.

Del pari apodittica si appalesa la tesi decisionale in ordine al concorso materiale dell’imputata nella consumazione della condotta contestata, dappoiché l’aver collaborato al parto non dimostra affatto che la madre abbia poi concorso nella soppressione della nipotina, fatto diverso e distinto dal parto, consumatosi in tempi diversi neppure accertati con assoluta precisione (immediatamente dopo?, dopo uno, due, cinque minuti?).

Anche tale punto della condanna merita di essere rivalutato dal giudice territoriale nel complessivo quadro, giuridico e fattuale, delimitato dal presente annullamento e dalle ragioni illustrate a sostegno della decisione di legittimità.

7. Infondata è, viceversa, la doglianza difensiva sviluppata nell’interesse della B. col secondo motivo di ricorso, relativa al mancato riconoscimento, da parte dei giudici di merito, del vizio totale di mente dell’imputata in luogo dell’affermato vizio parziale. A parte la genericità della doglianza, giova comunque richiamare sul punto il costante insegnamento di questa Corte secondo cui lo stabilire se l’imputato, riconosciuto affetto da infermità mentale, fosse al momento del fatto totalmente privo di capacità d’intendere e di volere ovvero avesse tale capacità, ma grandemente scemata, costituisce una questione di fatto la cui valutazione, mercé l’ausilio delle risultanze della perizia psichiatrica, compete esclusivamente al giudice di merito, il giudizio del quale si sottrae al sindacato di legittimità quante volte, anche con il solo richiamo alle condivise valutazioni e conclusioni delle perizie, divenute tuttavia consustanziali alla motivazione, risulti essere esaurientemente motivato, immune da vizi logici di ragionamento, garantito da una continua osservazione del soggetto, e conforme a corretti criteri scientifici di esame clinico e di valutazione (in termini Sez. 1, Sentenza n. 2883 del 24/1/1989, Rv. 180615 e più di recente Sez. 1, Sentenza n. 42996 del 21/10/2008, Rv. 241828,e da ultimo n. 31843/2011), principio questo che non vi è ragione di disattendere nel caso in esame, ove si consideri che la Corte territoriale ha spiegato in modo esauriente le ragioni per cui le conclusioni formulate nell’espletata perizia tecnica dovevano ritenersi pienamente condivisibili, evidenziando la estrema accuratezza e completezza della acquisita relazione, pienamente aderente all’anamnesi del soggetto e frutto di una attenta ed adeguata disamina della personalità dell’imputata.

 

P.Q.M.

 

la Corte, annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.F. relativamente al reato per cui ha riportato condanna nonché nei confronti di B.C. , limitatamente alla qualificazione del fatto per cui ha riportato condanna, e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Bari. Rigetta nel resto il ricorso della B. .

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