SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
SENTENZA 22 febbraio 2016, n. 6916
Ritenuto in fatto
Con l’ordinanza impugnata il Tribunale del Riesame di Vicenza aveva respinto il ricorso presentato dall’istituto di credito sopra indicato, confermando il provvedimento di sequestro preventivo adottato dal Gip di Vicenza in data 24.7.2015 in relazione al reato di false comunicazioni sociali.
1.1 Avverso la detta ordinanza ricorre la BANCA POPOLARE DELL’ALTO ADIGE, affidando la sua impugnativa a due motivi di doglianza.
1.2 Il ricorso proposto nell’interesse dell’istituto di credito deduce violazione ed erronea applicazione degli artt. 2621 c.c., 2 cp e 3 D.lgs. n. 231/01 con conseguente violazione dell’art. 321 per assenza di astratta configurabilità di un reato punibile nel caso di specie. Deduce la parte ricorrente, più nel dettaglio, che, in seguito alla novella legislativa disposta con la l. 69/2015, si sono introdotte rilevanti modifiche nel tessuto normativo relativo all’art. 2621 c.c., prevedendosi, per quanto qui interessa, il requisito della rilevanza dei fatti materiali e l’omessa considerazioni delle valutazioni. Rileva il ricorrente che, secondo l’interpretazione prevalente invalsa sia in dottrina che nella recentissima giurisprudenza di questa Corte, i ‘fatti materiali’ contemplati nella nuova norma, così novellata, devono essere interpretati in senso necessariamente restrittivo, escludendo pertanto che nel predetto paradigma possano rientrare anche le valutazioni. Deduce pertanto la parte ricorrente che, sulla base della nuova normativa, devono essere considerati depenalizzati i falsi estimativi. Rileva inoltre che erroneamente il giudice impugnato, pur nella consapevolezza della portata delle innovazioni legislative sopra illustrate, aveva ritenuto che nel caso in esame non rilevassero falsi estimativi, non trattandosi, secondo il Tribunale del Riesame, di una errata stima delle partecipazioni, ma di una situazione fattuale in cui non si erano tenuti in considerazione elementi fattuali noti dai quali si evinceva che l’iscrizione in bilancio del valore delle quote acquistate dalla Carife non corrispondeva al valore reale della partecipazione. Osserva invece la parte ricorrente che pacificamente nel caso di specie si trattava di una valutazione quella operata dalla Banca ora incorporata, riguardando l’operazione di iscrizione del valore delle quote di partecipazione acquisite, valore che era stato peraltro correttamente fissato nel prezzo di acquisto delle quote, e cioè al valore di 38 milioni di Euro. Rileva inoltre la Banca ricorrente che altrettanto correttamente nel successivo bilancio del 2011 aveva ridotto il valore delle predette quote ad Euro 20,5 milioni di Euro, iscrivendo coerentemente il valore di 18 milioni di Euro quale credito nascente nei confronti della cessionaria delle quote Carife in seguito ad una svalutazione espressamente prevista in una clausola del contratto di cessione delle quote. Osserva inoltre la parte ricorrente che proprio la circostanza che sia stato iscritta in bilancio la cifra di 17,8 milioni di Euro come credito e non già, come rappresentato in tesi dall’accusa, come mera attività potenziale conferma la natura valutativa delle predetta iscrizione in bilancio e dunque l’insussistenza di una ipotesi criminosa contestabile secondo la nuova veste assunta dall’art. 2621 c.c.. Osserva inoltre la parte ricorrente che le medesime considerazioni possono essere ripetute per la successiva iscrizione nel bilancio 2012 del valore ulteriormente ridotto di Euro 7,72 milioni di Euro relativo alle predette quote sulla base dell’indicazione fornita dall’arbitratore KPMG, per il quale ugualmente l’ipotesi accusatoria evidenzia la mancata iscrizione come mera attività potenziale.
1.3 Con il secondo motivo di impugnativa si denunzia la violazione degli artt. 19 e 53 del D.lgs. 231/2001 in relazione al profilo della determinazione del profitto confiscabile. Evidenzia la parte ricorrente l’erroneità della decisione impugnata là dove aveva confuso il concetto di vantaggio con quello di profitto eventualmente confiscabile. Deduce la parte ricorrente che – affinché vi sia un profitto confiscabile – occorre l’esistenza di un incremento patrimoniale in favore dell’ente che peraltro si ponga in rapporto di derivazione causale con il fatto di reato contestato, e cioè nel caso di specie con il reato di false comunicazioni sociali. Osserva pertanto che l’individuazione dell’oggetto della confisca nell’utile non distribuito e destinato a riserva per gli anni 2010 e 2011 non rappresentava propriamente un incremento patrimoniale discendente dalla commissione del reato, ma al più un mero vantaggio economico.
1.4 Con successiva memoria ex art. 121 cpp datata 2.12.2015 il Pm procedente ha altresì evidenziato e ribadito, allegando un’annotazione della GdF della Compagnia di Vicenza, l’esistenza di un profitto confiscabile.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
2.1 In ordine al contenuto della prima doglianza, ritiene questo Collegio giudicante che occorra fornire continuità applicativa al principio già fissato da questa Corte con il noto precedente rappresentato dalla sentenza n. 33774 del 16/06/2015 (dep. 30/07/2015, Crespi e altri, Rv. 264868). Ed invero, è stato convincentemente affermato, nel ricordato arresto giurisprudenziale, il principio interpretativo secondo il quale in tema di bancarotta fraudolenta impropria ‘da reato societario’, di cui all’art. 223, secondo comma, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato eliminando l’inciso ‘ancorché oggetto di valutazioni’, ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai ‘fatti materiali non rispondenti al vero’ – una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente (in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto escluse dall’effetto parzialmente abrogativo l’esposizione di crediti inesistenti perché originati da contratti fittizi, l’esposizione di crediti concernenti i ricavi di competenza dell’esercizio successivo, l’esposizione di crediti relativi ad una fattura emessa per operazioni inesistenti).
2.2 In termini ricostruttivi e per quanto interessa l’odierna vicenda processuale, occorre qui ricordare che il nuovo assetto dei reati di false comunicazioni sociali – a seguito dell’entrata in vigore della l. 27 maggio 2015, n. 69 – è costituito da due fattispecie incriminatrici (artt. 2621 e 2622), caratterizzate entrambe come reati di pericolo e differenziate alla luce della tipologia societaria, e da due norme (artt. 2621 bis e 2621 ter) riferite solo all’art. 2621 e contenenti una cornice di pena più mite per i fatti di ‘lieve entità’ e una causa di non punibilità per la loro ‘particolare tenuità’.
Si deve dunque precisare che è stata confermata l’architettura a ‘piramide punitiva’ degl’i illeciti in materia di false comunicazioni sociali, ma la struttura dell’impianto è fondata da soli delitti, essendosi abbandonato il modello contravvenzionale che caratterizzava la previgente incriminazione contenuta nell’art. 2621 cod. civ. per le aziende non quotate in borsa, nonché l’illecito amministrativo introdotto nel 2005 all’interno delle figure in questione (l. n. 262 del 2005).
La condotta del ‘nuovo’ art. 2621 cod. civ. consiste nella esposizione ‘nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, (…) fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero’ o di omettere ‘fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore’.
In sintesi, può affermarsi che i “fatti materiali”, non ulteriormente qualificati, sono l’oggetto tipico della sola condotta di esposizione contemplata dall’art. 2622 cod. civ.; diversamente i “fatti materiali rilevanti” costituiscono l’oggetto tipico dell’omessa esposizione nel medesimo art. 2622 cod. civ. e rappresentano anche l’oggetto della condotta tipica – sia nella forma commissiva, sia nella forma omissiva – nell’art. 2621 cod. civ..
Sembra fondato ritenere che in posizione centrale delle condotte tipiche vi sia ancora il concetto di ‘fatti materiali’, ma, a differenza della previgente formulazione è venuto meno – come meglio si dirà nel prosieguo – l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”. I ‘fatti materiali’ – oggetto nei tre veicoli (bilanci, relazioni, comunicazioni sociali) della falsità nella forma commissiva od omissiva – devono essere connotati altresì sul piano oggettivo della tipicità dal requisito della ‘idoneità a indurre in errore’, e sul piano soggettivo della tipicità, dal requisito della ‘consapevolezza’ e dalla finalità di conseguire un ‘ingiusto profitto’.
2.3 Ebbene, il reato è tuttora previsto come realizzabile, come sopra accennato, con due modalità esecutive di condotta distinte ed alternative : l’una attiva, costituita dall’esposizione di fatti non rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene; l’altra prevalentemente di natura omissiva, integrata in quanto tale dalla mancata indicazione di fatti quali quelli sopra indicati, la cui comunicazione è imposta dalla legge.
2.4 Per quanto qui di interesse, occorre ricordare che la modifica di maggior spessore, introdotta dalla legge sopra menzionata con riguardo alla condotta del reato, è senza dubbio quella che ha investito la modalità oggettuale relativa ai fatti sui quali deve cadere la falsità penalmente rilevante. Ed invero, la precedente formulazione della norma individuava la condotta attiva nell’esposizione di ‘fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni’, e la condotta omissiva nella mancata indicazione di ‘informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge’. Ebbene, per effetto della riforma, la condotta rileva ora in quanto concernente, per la condotta attiva, ‘fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero’, e per quella omissiva ‘fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge’.
2.5 Ne discende che le diversità testuali fra le due versioni sono evidenti : la modalità omissiva della condotta è stata uniformata a quella attiva nell’essere indirizzata su ‘fatti materiali’, e non più su ‘informazioni’; per entrambe le modalità esecutive è stato introdotto il requisito della rilevanza dei fatti sui quali incide il falso; e, per la modalità attiva, si registra la completa espunzione della qualificazione dei fatti come ‘ancorché oggetto di valutazioni’.
2.6 In realtà, è proprio l’ultimo degli aspetti indicati, ossia la soppressione del riferimento alle valutazioni, che ha attirato l’attenzione dei primi commentatori della riforma.
Sul punto, giova ricordare che ancora prima della definitiva deliberazione della norma in esame, allorché la stessa aveva assunto la forma attuale nel corso dei lavori parlamentari, l’eliminazione dell’espressione indicata è stata letta nel senso della privazione di rilevanza penale delle falsità ricadenti su valutazioni estimative, con un effetto sostanzialmente abrogativo di una parte consistente della fattispecie incriminatrice. È stato, per contro, osservato da una parte della dottrina che alla resecazione dal testo normativo dell’espressione di cui qui si discute non sarebbe possibile attribuire un effetto abrogativo della portata di quello descritto, in quanto diretta su una parte di quel testo che già in precedenza era stata ritenuta sostanzialmente superflua. Si è affermato che il predetto inciso rappresentava un’inutile superfetazione, in realtà, finalizzata unicamente a rimarcare l’esito di un lungo dibattito, iniziato già sotto la vigenza della formulazione dell’art. 2621 c.c. precedente alla modifica del 2002, nel senso dell’inclusione dei fatti valutativi fra quelli la cui esposizione, in quanto connotata da difformità dal vero, integrava la fattispecie incriminatrice.
2.7 In tale contesto ricostruttivo, si colloca invero l’arresto giurisprudenziale sopra menzionato al quale convintamente anche questo Collegio intende fornire continuità interpretativa (Sez. V, 16 giugno 2015 n. 33774, cit.). In sintesi, può ricordarsi che la Corte ha affermato, in quella occasione, che ‘il dato testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e 2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l’art. 2638 cod. civ., sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi’.
2.7.1 A fondamento di tale affermazione, si è ritenuto correttamente che il legislatore del 2015 ha ripreso la formula utilizzata dal legislatore del 2002 ‘fatti materiali’, diversa da quella ‘fatti’ contenuta nell’originario art. 2621 cod. civ., per circoscrivere l’oggetto della condotta attiva, privandola tuttavia del riferimento alle valutazioni e provvedendo contestualmente a replicarla anche nella definizione di quello della condotta omissiva, in relazione alla quale il testo previgente faceva invece riferimento, come detto, alle ‘informazioni’.
2.7.2 È stato altresì argomentato che il disegno di legge n. 19 prevedeva di attribuire, in un primo momento, rilevanza alle ‘informazioni’ false, adottando così un’espressione lessicale idonea a ricomprendere le valutazioni, sicché proprio tale mutamento sarebbe espressivo della intenzione del legislatore di escludere la rilevanza penale del c.d. falso valutativo. Peraltro, l’espressione ‘fatti materiali’ era stata già utilizzata dalla legge n. 154 del 1991 per circoscrivere l’oggetto del reato di frode fiscale di cui all’art. 4 lett. f) della legge n. 516 del 1982, con il chiaro intento di escludere dall’incriminazione le valutazioni relative alle componenti attive e passive del reddito dichiarato. Inoltre, il citato art. 4, lett. f), puniva l’utilizzazione di ‘documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero’, nonché il compimento di ‘comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali’. È stato pertanto correttamente osservato che ‘Pacificamente una tale formulazione del dato normativo comportava l’irrilevanza penale di qualsiasi valutazione recepita nella dichiarazione dei redditi, in quanto ciò fu conseguenza di una scelta legislativa ben esplicitata nel disegno di legge e con la quale si vollero evitare conseguenze penali da valutazioni inadeguate o comunque in qualche modo discutibili alla luce della complessa normativa tributaria’.
2.7.3 Inoltre, è stato acutamente osservato che i testi riformati degli artt. 2621 e 2622 si inseriscono in un contesto normativo che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell’art. 2638 cod. civ. (Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza). Tale disposizione continua invero a punire i medesimi soggetti attivi (‘gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società….’) dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 che, nelle comunicazioni dirette alle autorità pubbliche di vigilanza, ‘espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni’. Secondo la esegesi fornita nell’arresto giurisprudenziale sopra menzionato ‘una lettura ancorata al canone interpretativo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit non può trascurare la circostanza dell’inserimento di modifiche normative in un sistema che riguarda la rilevanza penale delle attività societarie con una non giustificata differenziazione dell’estensione della condotta tipizzata in paralleli ambiti operativi, quali sono quelli degli articoli 2621 e 2622 cod. civ., da una parte, e art. 2638 cod. civ., dall’altra, norme che, sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono tutte finalizzate a sanzionare la frode nell’adempimento dei doveri informativi’ (Sez. V, 16 giugno 2015 n. 33774, cit.).
2.8 Sul punto, anche questo Collegio giudicante ritiene che due siano le argomentazioni sulle quali occorra concentrare l’attenzione degli interpreti per riaffermare il principio sopra ricordato in massima.
2.8.1 Il primo di essi attiene a quella che può essere definita come l’emersione di un dato testuale che, nella precedente formulazione della norma, era ritenuto in qualche modo depotenziato dall’inciso soppresso con la riforma. Si tratta dell’attributo ‘materiali’, che già con la modifica legislativa del 2002 era stato associato ai fatti la cui falsa esposizione o omissione integrava il falso punibile; e, segnatamente, al significato di esclusione delle valutazioni, riferibile a tale attributo.
Sul punto, occorre precisare che la stessa locuzione ‘fatti materiali non rispondenti al vero’ era stata utilizzata dal legislatore della riforma del 2002, il quale, pure ricorrendo in maniera equivoca alla congiunzione ‘ancorché’, aveva espressamente precisato che oggetto dei ‘fatti materiali’ potessero essere anche le valutazioni, sostanzialmente recependo la consolidata interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria del termine ‘fatti’ contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 2621 c.c..
Espresso riferimento alle ‘valutazioni estimative’, poi, si era fatto prevedendo le soglie di punibilità di cui al comma quarto dell’art. 2621 e al comma ottavo dell’art. 2622. Ne consegue che l’adozione dello stesso riferimento ai ‘fatti materiali non rispondenti al vero’, senza alcun richiamo alle valutazioni, e il dispiegamento della formula citata anche nell’ambito della descrizione della condotta omissiva, consente di ritenere ridotto l’ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti ‘falsi valutativi’. Ed invero, il significato di esclusione delle valutazioni era evidentemente eliso dall’espressa indicazione di rilevanza penale della valutazioni e una volta che quest’ultima è venuta a cadere, la previsione di necessaria materialità dei fatti riprende pertanto il proprio valore limitativo della punibilità ai fatti oggettivi, lasciando fuori dall’incriminazione le rappresentazioni valutative delle realtà economiche e finanziarie della società.
2.8.2 Il secondo ordine di considerazioni riguarda invece un profilo di natura sistematica. Si afferma nella sentenza più volte menzionata che ‘I testi riformati degli artt. 2621 e 2622 si inseriscono in un contesto normativo che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell’art. 2638 c.c. (Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza), peraltro proprio a precisazione contenutistica della stessa locuzione “fatti materiali non rispondenti al vero”. Tale disposizione continua infatti a punire i medesimi soggetti attivi (gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società) dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 che, nelle comunicazioni dirette alle autorità pubbliche di vigilanza, “espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni”. Una lettura ancorata al canone interpretativo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit non può trascurare la circostanza dell’inserimento di modifiche normative in un sistema che riguarda la rilevanza penale delle attività societarie con una non giustificata differenziazione dell’estensione della condotta tipizzata in paralleli ambiti operativi, quali sono quelli degli articoli 2621 e 2622 c.c., da una parte, e art. 2638 c.c., dall’altra, norme che, sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono tutte finalizzate a sanzionare la frode nell’adempimento dei doveri informativi’.
Deve ritenersi convincente l’affermazione secondo cui l’intervento legislativo, eliminando il più volte citato riferimento alle valutazioni dalla fattispecie dell’art. 2621 c.c., lo ha invece lasciato inalterato in quella di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, prevista dall’art. 2638, 1 co., c.c., che, contemplava una condotta in larga parte coincidente con quella dell’art. 2621 c.c. nella precedente versione, coincidenza, peraltro, attualmente ancor più marcata nel momento in cui la mancata previsione di soglie di punibilità, che già caratterizzava l’art. 2638 c.c., connota ora anche l’art. 2621 c.c. Ebbene, deve ritenersi che la circostanza secondo cui la stessa espressione sia stata cancellata dal testo di quest’ultima norma e invece mantenuta in quello dell’art. 2638 c.c. è chiaramente dimostrativo di un intento legislativo mirato ad escludere effetti sostanziali dell’espressione, in termini di definizione della fattispecie incriminatrice, con specifico ed esclusivo riguardo al reato di false comunicazioni sociali e dunque a sottrarre a tale incriminazione i fatti valutativi.
2.9 Ciò detto, osserva la Corte come la discussione relativa all’effettiva incidenza della recente riforma sulla punibilità dei falsi valutativi non possa prescindere dal dato certo e ineludibile dell’eliminazione dal testo normativo del preesistente riferimento alle valutazioni.
2.9.1 Invero, ritenere questo dato irrilevante presuppone necessariamente che quel riferimento possa essere considerato come sostanzialmente superfluo nel complessivo significato della previgente formulazione della norma.
Ciò impone tuttavia di verificare quale fosse l’esatto contenuto da attribuire a quel testo nel suo richiamo ai ‘fatti materiali ancorché oggetto di valutazioni’ e segnatamente, all’effetto combinato dei predicati “materiali” e “oggetto di valutazioni” sulla definizione dell’estensione denotativa di un termine, quello di ‘fatti’, che compariva isolatamente nella ancora precedente formulazione della norma incriminatrice, ed alla funzione svolta a questi fini dalla locuzione ‘ancorché’.
Sul punto, occorre chiarire che a queste problematiche non era stata attribuita, tutto sommato, particolare rilevanza nella individuazione delle condotte punibili in base alla normativa previgente. E ciò costituisce in realtà la migliore dimostrazione della generalizzata consapevolezza di una sostanziale elisione reciproca dei due predicati, per effetto della quale l’identificazione del riferimento oggettuale di tali condotte rimaneva conclusivamente affidato al più ampio significato del concetto di ‘fatti’, comprendente anche le valutazioni.
Ne discende che al predicato della materialità dei fatti occorre conferire valenza opposta all’inclusione delle valutazioni fra i fatti stessi, operazione ermeneutica quest’ultima, peraltro, non incoerente con la significazione letterale del termine ‘materiale’. Ed invero, quest’ultimo, in effetti, non è leggibile solo come contrario a quello di ‘immateriale’, ma contiene anche un’accezione riconducibile all’oggettività dei fatti, in quanto tale estranea ai risultati valutativi.
Peraltro, occorre anche ricordare che, nei primi commenti alla riforma del 2002, era stato evidenziato come la previsione di materialità avrebbe di per sé escluso le valutazioni dai fatti punibili, se il successivo e per certi aspetti contraddittorio accenno normativo alle valutazioni stesse non le avesse espressamente reintrodotte nell’ambito operativo della condotta. Orbene, la diversa opzione interpretativa del termine ‘materiale’ quale sinonimo di ‘rilevante’, tratta dalla realtà anglosassone, trova un ostacolo difficilmente superabile proprio nella riforma qui esaminata, e in particolare nella precisazione per la quale la condotta deve riguardare ‘fatti’, oltre che ‘materiali’, anche ‘rilevanti’. Ne consegue che la detta precisazione sarebbe superflua ove quest’ultimo fosse il senso da assegnare all’attributo della materialità.
Deve ritenersi pertanto che il senso complessivo del riferimento normativo all’esposizione di ‘fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni’ era dunque tutt’altro che contraddittorio. Detto altrimenti, quello che si voleva intendere era che il falso punibile potesse ricadere anche su dati contabili costituenti il risultato di valutazioni, purché le stesse fossero state svolte partendo da fatti materiali, riferiti a realtà economiche oggettivamente determinate.
Ne consegue che la tesi della superfluità dell’accenno normativo alle valutazioni non è pertanto più sostenibile. È stato acutamente osservato in dottrina – con osservazioni che qui si condividono e si riprendono – che la detta tesi presupporrebbe, in buona sostanza, una diversa ricostruzione del contesto applicativo della norma, nella quale i fatti materiali si pongono “a valle” delle valutazioni, quali risultati delle stesse. Ed invero, in questa prospettiva, in effetti, ben poco avrebbe aggiunto l’espresso richiamo alle valutazioni, laddove la condotta sarebbe stata comunque riferita ai fatti contabili, a prescindere dalla loro origine. Tuttavia, tanto si sarebbe potuto fondatamente sostenere, se la norma avesse indicato i fatti materiali come ‘risultato delle valutazioni’. Nel momento in cui, invece, il dato letterale collocava i fatti materiali “a monte” delle valutazioni, designandoli quali oggetto delle stesse, l’espressa previsione di rilevanza penale di queste ultime era viceversa determinante nell’estendere la portata della norma incriminatrice alle registrazioni contabili non direttamente afferenti a fatti materiali, ma riconducibili agli stessi per il tramite delle valutazioni che le giustificano.
Ne discende, ancora, come ulteriore corollario del ragionamento che la soppressione di quel riferimento normativo ha effettivamente ridotto l’estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi.
Peraltro, non può essere sottaciuto che coerente con questa finalità legislativa è proprio la circostanza che l’iniziale richiamo dell’art. 4 del disegno di legge 15.3.2013, n. 19, all’esposizione di ‘informazioni false’, espressione tale da ricomprendere semanticamente anche i risultati di valutazioni, sia stato sostituito nel corso dei lavori parlamentari con il ripristino della precedente formulazione in termini di ‘fatti materiali’.
Occorre, tuttavia, precisare, anche per quanto interessa la odierna vicenda processuale, che le voci direttamente riferibili a fatti materiali sono tutt’altro che esigue. Il citato e recente pronunciamento giurisprudenziale (Cass., Sez. V, 16 giugno 2015, Crespi, cit.) ne espone un catalogo generale ampio, che comprende i ricavi falsamente incrementati, i costi non appostati, le false attestazioni di esistenza di conti bancari, l’annotazione di fatture emesse per operazioni inesistenti, l’iscrizione di crediti non più esigibili per l’intervenuto fallimento dei debitori in mancanza di attivo, la mancata svalutazione di una partecipazione in una controllata della quale sia stato dichiarato il fallimento e l’omessa indicazione della vendita o dell’acquisto di beni o dell’esistenza di un debito per il quale sia in atto un contenzioso nel quale la società è soccombente; e, conformemente a queste indicazioni, individua come punibili, con specifico riguardo alla vicenda processuale trattata, l’iscrizione all’attivo di crediti derivanti da contratti fittizi, da fatture relative ad operazioni inesistenti o da fatture da emettere in violazione dei criteri sulla competenza.
Peraltro, occorre anche concordare con il paradigma definitorio riportato nella sentenza c0d. Crespi in ordine al falso valutativo, e ciò nei termini dell’associazione di un dato numerico ad una realtà economica esistente, con la ulteriore precisazione tuttavia che occorrerebbe distinguere le situazioni nelle quali l’associazione di un valore numerico ad una determinata realtà può essere considerata come il risultato di una valutazione, da quelle in cui attraverso un’operazione di questo genere si fornisce di fatto una rappresentazione difforme dal vero della stessa realtà materiale.
4.1 Determinante può essere in tal senso il riferimento all’oggettività giuridica del reato, ed alla preminenza assunta, nell’ambito dello stesso, dall’affidamento dei terzi sulla corretta informazione in ordine alle condizioni economiche della società. Qualora cioè il valore numerico sia esposto con modalità che ne escludano la percepibilità come esito di una valutazione, e siano pertanto idonee ad indurre in errore i terzi sulla stessa consistenza fisica del dato materiale, potrà ritenersi che il falso cada in realtà su quest’ultimo, venendo pertanto ad essere integrata, anche nella nuova formulazione, la fattispecie incriminatrice.
Ciò posto in termini generali ed applicando proprio i principi interpretativi da ultimo ricordati, ritiene la Corte che già il primo motivo di doglianza sollevato dalla difesa della parte ricorrente è infondato giuridicamente, riguardando la fattispecie concreta ipotizzata nel capo di imputazione provvisorio una condotta riconducibile, anche nella nuova formulazione all’art. 2621 c.c., così come sopra ricostruita.
5.1 Ed invero, risultano circostanze accertate e peraltro neanche contestate in fatto da parte della ricorrente quelle secondo cui nel bilancio 2010 della Banca oggi incorporata (Banca Popolare di Marostica) il valore delle quote di partecipazione acquisite nella Banca di Treviso era stato fissato nel prezzo di acquisto delle quote, e cioè nel valore di 38 milioni di Euro ; nel successivo bilancio del 2011 tale valore era stato ridotto ad Euro 20,5 milioni di Euro, iscrivendo contemporaneamente il valore di 18 milioni di Euro quale credito nascente nei confronti della cessionaria delle quote (la Carife) in seguito ad una svalutazione prevista in una clausola dello stesso contratto di cessione delle quote; nel bilancio 2012 il valore delle quote di partecipazione al capitale sociale della Banca di Treviso era stato ulteriormente ridotto ad Euro 7,72 milioni di Euro sulla base dell’indicazione fornita dall’arbitratore KPMG.
5.2 Occorre tuttavia evidenziare come ulteriori elementi in fatto da tenere in considerazione che, nonostante il valore di acquisto della detta partecipazione societaria in Euro 38 milioni corrispondente al valore indicato nel contratto di cessione ed al prezzo effettivamente pagato dalla Banca Popolare di Marostica, la Banca di Treviso (delle cui quote qui si tratta) era fortemente indebitata (come emerge dalla Relazione della G.d.F richiamata in atti); che la Banca Popolare di Marostica, al momento della redazione del bilancio 2010, aveva avuto contezza della predetta situazione di forte indebitamento, tanto ciò è vero che in data 28.1.2011 (e dunque, in un momento che deve ritenersi cronologicamente precedente al deposito del bilancio d’esercizio 2010) aveva inviato a Carife una lettera di contestazione nella quale indicava ‘un aggiustamento in diminuzione del prezzo’ ad Euro 18.118.745; che nella successiva data del 9.2.2011 la Carife aveva risposta alla detta missiva, non approvando le modalità formali di contestazione e proponendo un aggiustamento del prezzo pari ad Euro 400.000; che, dunque, si apriva un contenzioso tra la società cedente (Carife) e la cessionaria (Banca Popolare di Marostica) in ordine all’effettivo valore di vendita della partecipazione nella Banca di Treviso, contenzioso sfociato nella nomina di un arbitratore; che pertanto anche il valore di partecipazione iscritto nei bilanci 2011 e 2011 non poteva considerarsi come un credito certo, quanto piuttosto come una mera attività potenziale, come peraltro correttamente ritenuto dal Pm e come recepito anche nel provvedimento impugnato.
5.3 Ciò detto, ritiene la Corte come non possano residuare dubbi sul fatto che le condotte materiali descritte nel capo di imputazione siano riconducibili ai ‘fatti materiali non rispondenti al vero’ punibili come false comunicazioni sociali anche nella nuova veste normativa assunta dall’art. 2621 c.c..
In realtà, ritiene il Collegio che, proprio facendo corretta applicazione dei principi interpretativi fissati nella sentenza n. 33774, cit., e ai quali si aderisce qui con convinzione, la condotta oggi in contestazione non può in alcun modo essere ricondotta ad un falso valutativo, come detto non più incriminabile, atteso che nel caso di specie si è assistito, nei tre bilanci compresi tra il 2010 ed il 2012, ad appostazioni in bilancio di valori oggettivamente e palesemente non corrispondenti al dato contabile sottostante oggetto di rappresentazione.
5.4 Invero, se occorre applicare il canone ermeneutico secondo cui il falso valutativo viene integrato allorquando si ricorre all’associazione di un dato numerico ad una realtà economica comunque esistente, e dunque in situazioni nelle quali l’associazione di un valore numerico ad una determinata realtà può essere considerata effettivamente come il risultato di una valutazione, ritenendosi al contrario che si rientra nel fuoco normativo della nuova norma incriminatrice nelle ipotesi in cui, attraverso un’operazione di questo genere, si fornisce di fatto una rappresentazione difforme dal vero della stessa realtà materiale, allora non vi è chi non veda come, nel caso di specie, si rientri in questa seconda ipotesi applicativa, atteso che è stata consapevolmente rappresentata in bilancio l’indicazione di un valore iniziale (quello di 38 milioni di Euro) oggettivamente non esistente e difforme dal dato reale (che era rappresentato – per la stessa prospettiva difensiva della Banca Popolare di Marostica: cfr. lettera del 28.1.2011 – da un valore decisamente più contenuto), nonché valori di crediti (il primo, nel bilancio 2011, rappresentato dalla somma di Euro 18 milioni ; ed il secondo, nel bilancio 2012, pari ad Euro 7,72 milioni) descritti come crediti certi e non già come mere attività potenziali, e dunque oggettivamente difformi dalla realtà sottostante che invece evidenziava la natura di meri crediti potenziali in quanto oggetto di contenzioso. Peraltro, va anche detto come la parte oggi ricorrente non abbia neanche fornito elementi di valutazioni (vedi note integrative dei bilanci) dai quali evincere una diversa descrizione dei predetti crediti.
5.5 Ne discende, in termini conclusivi, che nel caso di specie non si è trattata della rappresentazione nei bilanci di valori potenzialmente oggetto di possibili valutazioni opinabili, quanto piuttosto della rappresentazione in bilancio di fatti oggettivamente non esistenti e dunque falsi.
Ma anche il secondo motivo di doglianza è infondato.
6.1 Sul punto, deve ritenersi condivisibile il ragionamento del tribunale impugnato in ordine alla esistenza di un profitto confiscabile nei termini indicati nel provvedimento genetico, e cioè nella misura dell’utile non distribuito e destinato a riserva per gli anni 2010 e 2011.
6.2 Risulta circostanza non dubitabile quella secondo cui la non corretta iscrizione in bilancio sopra descritta ha comportato la chiusura degli esercizi in contestazione in utile anziché in perdita, ciò comportando che la Banca Popolare di Marostica ha potuto disporre di risorse per lo svolgimento della sua attività che diversamente avrebbe dovuto utilizzare per ripianare le perdite accumulate e che pertanto il detto apporto non può che essere considerato come un apporto effettivo e non già meramente potenziale o contabile, e come tale in rapporto di causalità diretta con la commissione del reato. Ne consegue che, accertato il predetto nesso causale tra l’utile irregolarmente conseguito e la condotta di falsificazione del bilancio, l’oggetto del profitto confiscabile non può che essere individuato, come correttamente rilevato anche nel provvedimento ricorso, nell’utile non distribuito e destinato a riserva per gli esercizi sopra indicati.
Invero, se le iscrizioni in bilancio fossero state correttamente eseguite, i bilanci di esercizio qui in esame si sarebbero conclusi in perdita, ciò significando che la Banca Popolare di Marostica ha potuto contare su una disponibilità di risorse utili per la sua attività che diversamente non sarebbe stata presente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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