CASSAZIONE

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 18 giugno 2015, n. 25756

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 9 novembre 2012 del Tribunale di Cremona, confermata dalla Corte d’appello di Brescia il 19 novembre 2013, M.G. era condannata alla pena di giustizia per il reato di atti persecutori, aggravato dalla finalità di discriminazione o di odio razziale, per avere reiteratamente molestato la vicina di casa Owusu Linda, in modo da costringerla ad alterare le proprie scelte o abitudini di vita, cagionandole un perdurante e grave stato d’ansia e ingenerando nella donna un fondato timore per l’incolumità dei propri figli minori, tanto da indurla a chiedere al Comune di essere trasferita in un’altra abitazione. Erano contestate, esemplificativamente, le condotte di spruzzare deodorante o insetticida quando la donna passava per le scale, sostenendo ad alta voce che puzzava; di colpirla con secchiate d’acqua; di rivolgersi a lei oppure ai figli con espressioni del tipo “scimmie andate nella giungla”, “scimmia sulla bici”, “via di qui che puzzi”, “brutto negro”; di mettere in giro la falsa voce che faceva la prostituta; di chiamare la polizia accusando falsamente i figli di fare rumori molesti alle sei del mattino; di sputarle in faccia; di colpirla con un manico di scopa all’altezza delle scapole; di parcheggiare la propria autovettura dietro quella della vittima, in modo da impedirle l’uso per recarsi al lavoro; di tagliarle gli pneumatici dell’automobile; di colpirla con un calcio; di aggredirla con un bastone.
L’affermazione di responsabilità è fondata sulle dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile; sulle testimonianze del comandante dei Carabinieri di Casalmaggiore e della responsabile dei servizi sociali del Comune; sulle dichiarazioni del fratello della vittima; sulle certificazioni mediche acquisite.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, per il tramite del difensore, avv. Mario De Caprio, affidandolo a tre motivi.
2.1 Con il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 606, lettera e), in relazione all’articolo 192 cod. proc. pen., con riferimento alla valutazione della credibilità e dell’attendibilità della persona offesa.
La Corte territoriale si sarebbe limitata a riportare in maniera acritica la versione della parte civile (le cui dichiarazioni – si ricorda – vanno valutate in maniera più penetrante e rigorosa di quelle di qualunque altro testimone), qualificando come riscontri alle sue parole una serie di elementi privi di concludenza e pertinenza rispetto agli addebiti indicati nel capo d’imputazione, quando addirittura del tutto inutilizzabili, come le dichiarazioni generiche e de relato del teste R., comandante dei Carabinieri di Casalmaggiore. A giudizio dei ricorrente, invece, sono stati ignorati tutti gli elementi oggettivi e decisivi che avrebbero dovuto indurre a dubitare della versione accusatoria, quali il referto medico dei 15 settembre 2009, attestante lesioni ben più gravi di quelle riportate dall’imputata e quello del 26 dicembre 2009.
2.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’articolo 606, lettere b) ed e), cod. proc. pen., in relazione all’articolo 612 bis cod. pen., poiché l’intero procedimento attiene in realtà solamente ad un rapporto conflittuale tra due condomini, caratterizzato da episodi di dispetti, offese, insulti e leggeri scontri fisici, sicchè non era possibile qualificare detti episodi in termini di atti persecutori.
La motivazione della decisione viene inoltre censurata con riferimento alla sussistenza di ciascuno dei tre eventi alternativi previsti dalla norma penale ed in special modo dei “perdurante e grave stato d’ansia”, fondato esclusivamente sulle parole della parte civile e della “alterazione delle abitudini di vita”, riferita erroneamente al fratello della persona offesa (il quale avrebbe abbandonato la scuola per stare con i nipoti) e non alla stessa vittima.
Infine, quanto all’elemento soggettivo, la fattispecie andava ricondotta alla contravvenzione di molestie.
2.3 Con il terzo motivo si deduce violazione dell’articolo 606, lettere b) ed e), cod. proc. pen., in relazione all’art. 3 della legge 205 dei 1993, per aver ritenuto sussistente l’aggravante della finalità di discriminazione o di odio razziale, trascurando le deduzioni difensive secondo le quali l’imputata ha diverse amicizie tra persone di colore ed essendo originaria della Sicilia mai potrebbe adottare comportamenti che esprimano razzismo, avendo subito in prima persona atteggiamenti negativi legati alla propria provenienza.
3. Con memoria del 13 febbraio 2015 il ricorrente insiste nel ricorso, evidenziando che la procura della Repubblica di Cremona ha emesso decreto di citazione a giudizio (datato 14 dicembre 2014) nei confronti dell’odierna parte civile, per rispondere dei delitti di ingiuria, diffamazione e minaccia commessi nei confronti dell’odierno imputato e della madre di quest’ultima.

Considerato in diritto

1. II ricorso va rigettato.
1.1 II primo motivo è inammissibile. In via generale va ricordato il principio consolidato secondo il quale non può formare oggetto di ricorso l’indagine sull’attendibilità dei testimoni, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione adottata dal giudice di merito, che, nella fattispecie, appare coerente e logica (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362); infatti il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema.
1.2 Nel caso di specie la Corte territoriale ha confermato la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della vittima, già formulata dal Tribunale, con congrua ed analitica motivazione (le sue dichiarazioni accusatorie, circostanziate, coerenti e precise, prive di contraddizioni o incongruenze, hanno trovato significativi riscontri documentali e testimoniali, anche in soggetti sicuramente terzi, quale la teste Atti, la responsabile dei servizi sociali del comune di Casalmaggiore e il comandante della stazione dei Carabinieri) e d’altra parte va ricordato che alla deposizione della persona offesa non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., potendo essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica rigorosa, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva dei dichiarante e dell’attendibilità intrinseca dei suo racconto (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214).
2. Quanto alla configurabilità del delitto di atti persecutori, oggetto del secondo motivo, la doglianza è infondata; la decisione impugnata fa corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte in ordine a tale fattispecie di reato, ricordando che il fatto che la Owusu possa aver reagito sporadicamente (come nel caso oggetto del decreto di citazione a giudizio allegato alla memoria del 13 febbraio 2015 rispetto all’episodio del 26 dicembre 2009) non esclude la sussistenza del reato, nè riduce la fattispecie ad un semplice caso di molestie o bisticci reciproci, a fronte dei numerosissimi episodi relativi a condotte ingiuriose, per di più di tenore razzista, minacciosa o molesta, che la sentenza impugnata emblematicamente definisce “un repertorio davvero imponente di comportamenti offensivi e vessatori” (pagina 9).
Con specifico riferimento all’evento del reato, basta ricordare il grave turbamento psicologico diagnosticato dal medico di fiducia come “forte stato di ansia e stress emotivo” e la modifica delle proprie abitudini di vita, con i cambiamenti dei turni di lavoro in ospedale per poter accompagnare i figli a casa, culminata nella richiesta di trasferimento in altra abitazione comunale agevolata.
3. II terzo motivo è manifestamente infondato, poiché le decisioni di merito chiariscono che l’odio razziale aveva informato tutte le condotte tenute dalla Miceli, senza che la persona offesa avesse potuto dar adito alla minima antipatia o provocato in alcun modo l’imputata, tanto che ella fin da quando la Owusu si era trasferita a vivere nel condominio, aveva manifestato un odio nei confronti della donna appellata come “negra” e pretendendo che fosse allontanata.
Sul punto va riaffermato il principio secondo il quale la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso è integrata quando – anche in base alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la legge n. 654 dei 1975 – l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità (Sez. 5, n. 11590 del 28/01/2010, Singh, Rv. 246892), non essendo comunque necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno – e quindi a suscitare – il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, anche perché ciò comporterebbe l’irragionevole conseguenza di escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si svolgesse in assenza di terze persone (Sez. 5, n. 25870 dei 15/05/2013, C., Rv. 255435).
4. In conclusione il ricorso va rigettato, con conseguente condanna dei ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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