cassazione 5

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 13 gennaio 2015, n. 1205

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano, in data 3 ottobre 2010, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città, con la quale era stato assolto, per insussistenza del fatto, G.L.C.M. , imputato del reato di cui agli artt. 48 – 479 cod. pen., perché, quale amministratore unico della società “IMMOBILIARE PIETRA s.r.l.”, aveva depositato all’ufficio del registro delle imprese di Milano, tenuto dai funzionari della relativa Camera di Commercio, che ne ricevevano il deposito, rispettivamente, il 30 maggio 2008 e il 29 maggio 2009, due bilanci di esercizio non formalmente approvati, con allegati i verbali assembleari delle relative approvazioni, a loro volta ideologicamente falsi.
2. Il giudice di primo grado – la cui pronuncia è stata confermata sulla base delle stesse ragioni dalla Corte di Appello – aveva ritenuto insussistente il reato assumendo che “il deposito del bilancio presso la camera di commercio non ha carattere costitutivo né può affermarsi che, con esso, si attesti la regolarità della procedura di approvazione”. Aveva aggiunto che il funzionario della camera di commercio, “nel ricevere il deposito del bilancio, si limita a dare atto dell’avvenuto deposito stesso e non della regolarità del suo contenuto”. Inoltre, in punto di fatto, la sentenza di primo grado aveva osservato che i testi ascoltati, soci dell’immobiliare che rappresentano il 70% del capitale, avevano riferito di essere stati sostanzialmente informati dello stato economico della società e dei profili salienti del bilancio, pur non avendo partecipato ad alcuna assemblea di approvazione.
La Corte d’appello ha dunque concluso – sulla scorta delle suddette risultanze – che il falso ideologico sussisterebbe ma sarebbe innocuo, in quanto la falsa attestazione contenuta nei verbali della società in merito all’avvenuta convocazione dei soci e del regolare svolgimento dell’assemblea rappresentava la volontà dei soci medesimi, sia pure raccolta informalmente, in merito all’approvazione del bilancio. Ha precisato, inoltre, che i bilanci delle annualità 2007 e 2008 sono stati regolarmente approvati con un’apposita rituale assemblea dinanzi ad un notaio, senza alcuna variazione e anche, per tale ragione, il falso sarebbe “innocuo”, non determinando alcun vulnus per la fede pubblica.
3. Ha proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano deducendo la violazione di legge.
Sostiene che nel caso in esame possa configurarsi il meno grave delitto di cui all’articolo 483 del codice penale, così da riqualificarsi il fatto contestato nell’imputazione.
Secondo il ricorrente, non ha alcun rilievo che il deposito dei verbali non abbia efficacia costitutiva, ma solo di pubblicità-notizia; né ha rilievo che i soci che rappresentavano la maggioranza del capitale sociale avessero sempre espresso piena fiducia nell’attività dell’imputato.
Ha dedotto il P.G. che il deposito presso il registro delle imprese dei verbali di assemblea, in uno con i bilanci approvati, è obbligatorio per legge ed è ritenuto rilevante nell’interesse generale, tanto che la sua omissione è sanzionata in via amministrativa, così come previsto dall’articolo 2630 codice civile.
Il registro delle imprese è pubblico e il deposito dei bilanci è funzionale all’ostensione – nei confronti dei terzi e dell’autorità preposta al controllo – della vita della situazione patrimoniale della società. La predisposizione, la tenuta, la conservazione e la gestione, secondo tecniche informatiche, del registro delle imprese ed il funzionamento dell’ufficio sono realizzati in modo da assicurare completezza ed organicità di pubblicità delle imprese soggette all’iscrizione, garantendo la tempestività dell’informazione su tutto il territorio nazionale. È dunque evidente – secondo il ricorrente – che tutte le informazioni fornite al registro delle imprese – effetto di un obbligo giuridico, previsto dalle norme del codice civile – debbano essere vere, proprio perché di pubblica rilevanza.
E tale dovere di verità sussiste nei confronti di tutti i soci ma anche nei confronti dei terzi, tra i quali i creditori sociali.
Le delibere assembleari di una società di capitali possono essere impugnate per illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’articolo 2379 codice civile, quando siano contrarie a norme dirette a tutela dell’interesse generale, che trascende quello dei singoli soci e che siano dirette ad impedire una deviazione dallo scopo essenziale economico pratico del contratto e del rapporto di società. Pertanto, qualora, in relazione alla deliberazione del bilancio sociale, siano dedotte violazioni del principio di chiarezza e precisione del bilancio, la nullità della deliberazione può concretamente configurarsi se i fatti sì rivelino idonei ad ingenerare incertezze ovvero erronee convinzioni circa la situazione economico patrimoniale, essendo posta la verità e la chiarezza di questo a tutela non soltanto dei singoli soci, bensì di tutti terzi e dei creditori in particolare.
Ricorre allora – secondo il procuratore generale – il presupposto tipico della fattispecie di cui all’articolo 483 codice penale, che – a salvaguardia del bene primario rappresentato dalla pubblica fede – consiste nell’esigenza di un dovere giuridico di esporre veridicamente i fatti che costituiscono l’oggetto della dichiarazione al pubblico ufficiale.
Deduce, infine, il ricorrente il vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale, per confermare la pronuncia assolutoria di primo grado, rileva che i bilanci sono stati poi approvati con successiva assemblea dinanzi ad un notaio. La Corte omette di rilevare che tale assemblea si è svolta dopo che erano già stati ipotizzati i reati per cui è processo, sicché è illogico trarre dalla postuma convocazione di regolare assemblea di approvazione del bilancio un elemento a sostegno dell’assunta inoffensività della condotta nei riguardi del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.
Come si è evidenziato, nel caso in esame il fatto contestato è quello di avere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese, tenuto dai funzionari della Camera di Commercio, due bilanci di esercizio di una società non formalmente approvati, con allegati i verbali di assemblee che in effetti non si erano svolte.
Correttamente i giudici di merito hanno ritenuto l’insussistenza del reato di cui agli artt. 48 – 479 cod. pen. (falso ideologico in atto pubblico per induzione), come contestato nel capo di imputazione, assumendo che il deposito del bilancio presso la camera di commercio non ha carattere costitutivo, né con esso si attesta la regolarità della procedura di approvazione.
Hanno poi ritenuto che il funzionario della camera di commercio, nel ricevere il bilancio e i verbali di assemblea, si limita a dare atto dell’avvenuto deposito di tali atti e non della regolarità del loro contenuto.
Tali argomentazioni sono condivisibili.
È, invero, pacifico che il funzionario della camera di commercio (ente avente personalità giuridica di diritto pubblico), rivesta, ai sensi dell’art. 357 cod. pen., la qualità di pubblico ufficiale e non di incaricato di un pubblico servizio; tuttavia, nella tenuta del registro delle imprese e in relazione agli atti in esso annotati, il suddetto funzionario certifica solo l’attività di deposito, mentre non è oggetto di attestazione il contenuto degli atti depositati.
Non ha fondamento giuridico, invece, quanto sostenuto dal ricorrente, ovvero che il fatto contestato sia riconducibile nella fattispecie di cui all’art. 483 cod. pen..
La norma penale prevista in tale disposizione richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extrapenale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità; in tal senso si è costantemente espressa la giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite (Sez. Un. 6 del 17/02/1999, Lucarotti, Rv. 212782; nonché Sez. 5, n. 19361 del 13/02/2006, Caccuri, Rv. 234538; Sez. 5, n. 5365/08 del 4/12/2007, Bonventre, Rv. 239110).
Nel caso di specie non possono individuarsi quali norme integratrici del precetto penale le disposizioni – indicate dal ricorrente – in materia di bilanci e assemblee di approvazione previste dal codice civile.
È pur vero che il deposito del bilancio di una società sia obbligatorio per legge ed è ritenuto rilevante nell’interesse generale. La sua omissione, tuttavia, è sanzionata amministrativamente, così come previsto dall’articolo 2630 codice civile.
Il suddetto obbligo di deposito nel registro delle imprese nulla ha a che fare con la veridicità del suo contenuto, in relazione alla quale – come è noto – sussistono norme sanzionatorie specifiche.
Il bilancio ha indubbiamente la funzione di oggettiva informazione, funzione espressa con il richiamo alla chiarezza e a una “rappresentazione veritiera e corretta” (art. 2423, comma 2, cod. civ.). Tale obiettiva informazione risponde all’interesse dei soci, dei terzi e della stessa società, nonché della collettività nel suo insieme, che riconnette importanza al regolare funzionamento delle imprese nell’ambito dell’economia nazionale.
Ma la fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. individua già autonomamente le condotte penalmente rilevanti sia nell’esposizione dei fatti materiali che non rispondono ad una concreta o veritiera realtà sia nell’omissione di dati o di informazioni la cui comunicazione è prevista da disposizioni normative e tende a tutelare la veridicità, la chiarezza e la completezza delle informazioni relative all’esercizio dell’attività, in linea con la funzione attribuita al bilancio dai principi ispiratori della sua disciplina.
Conclusivamente può dunque affermarsi che non è configurabile la fattispecie di cui all’art. 483 cod. pen. nel caso in cui siano depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, tenuto dai funzionari della Camera di Commercio, bilanci di esercizio di una società non formalmente approvati, non essendovi alcuna norma che conferisca attitudine probatoria all’attività dei suddetti funzionari in ordine al contenuto degli atti di cui ricevono il deposito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso del Procuratore Generale.

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