Cassazione 6

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 gennaio 2015, n. 950

Ritenuto in fatto

1. Il tribunale di Vigevano, con la sentenza in epigrafe, ha condannato O.G. alla pena di 1.500,00 Euro di ammenda per il reato (capo a) previsto dall’art. 727 cod. pen. perché, avendo imbracato quattro allodole e strattonando la fune che tratteneva gli animali in modo che si alzassero in volo e così agissero da richiami, per poi ricadere a terra per effetto della fune, deteneva le quattro allodole in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze nonché per il reato (capo b) previsto dall’art. 30 lett. h) legge 11 febbraio 1992, n. 157 perché abbatteva tre esemplari di pispola, esemplare di fauna selvatica di cui non è consentita la caccia, appartenente a specie particolarmente protetta. In (OMISSIS) .
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, ricorre per cassazione, a mezzo del difensore, O.G. affidando il gravame a due motivi con i quali deduce:
1) l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 727 e 51 cod. pen. nonché 21 lett. r) legge 11 febbraio 1992, n. 157, e l’illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) non avendo il Tribunale considerato che il comportamento venatorio di utilizzare come richiami “^ nell’esercizio della caccia degli uccelli imbracati e legati con una cordicella, alla
quale venga impresso uno strattone che li faccia sollevare in volo e poi ricadere, è una pratica venatoria consentita dalla legge n. 157 del 1992, che all’art. 21 lett. r) vieta in modo assoluto soltanto l’uso di richiami vivi accecati o mutilati ovvero legati per le ali.
Secondo il ricorrente, non può perciò integrare gli estremi del reato di maltrattamento di animali, anche se idoneo a cagionare sofferenza agli stessi, l’utilizzo di richiami legati per il corpo, quale quelli utilizzati dall’imputato, perché il fatto è scriminato dall’art. 51 cod. pen., costituendo l’esercizio di un diritto.
Ovviamente l’esimente non ricorre se la pratica venatoria sia connotata da concrete modalità di attuazione tali da comportare crudeltà, fatica eccessiva che danneggino lo stato di salute dell’animale o comunque un aggravamento delle sofferenze che non siano necessarie dalle esigenze della caccia;
2) l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 30 lett. h) legge 11 febbraio 1992, n. 157, e l’illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) sul rilievo che il comportamento dell’imputato doveva essere considerato lecito perché nella zona non vigeva il divieto assoluto di caccia, essendola caccia era consentita sia pure con maggiori limitazioni.
Sostiene il ricorrente come, sul punto, sia stato chiaro il testimone assunto a dibattimento che ha spiegato che soltanto nella ZPS la caccia alla pispola era vietata nonostante la regione Lombardia l’avesse consentita.
Nessun addebito può essere allora ravvisato nel comportamento dell’imputato che si trovava in un territorio ove la caccia era possibile e che riteneva di essere autorizzato all’abbattimento in forza di una legge regionale in vigore.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
2. Quanto al primo motivo, va segnalato come, sulla questione che è stata posta con il ricorso, si registrino indirizzi non univoci in seno alla giurisprudenza di questa Corte.
2.1. Secondo un primo orientamento, citato anche dal ricorrente a sostegno della propria tesi, allorquando il reato di maltrattamento di animali viene in evidenza con riferimento a comportamenti che costituiscono l’esercizio di pratiche venatorie, occorre tener conto, oltre che della norma di cui all’art. 727 cod. pen., come modificato dalla legge 22 novembre 1993, n.473, anche delle disposizioni che regolano l’esercizio della caccia, di cui alla legge 11 febbraio 1992 n. 157. E ciò non perché le norme della predetta legge si pongano in rapporto di specialità con le norme del codice penale, dato che è diversa la loro oggettività giuridica, ma perché un comportamento venatorio che è consentito dalla predetta legge n.157 del 1992, ed è quindi considerato lecito, non può integrare gli estremi del reato di maltrattamento di animali, anche se idoneo a cagionare sofferenze agli animali stessi. Infatti, per la scelta non manifestamente irragionevole operata dal legislatore, è stato ritenuto prevalente l’interesse a garantire l’esercizio della caccia, per cui una pratica venatoria che è consentita dalla legge 11 febbraio 1992 n.157 non può essere punita a norma dell’art. 727 cod. pen. perché il fatto è scriminato dall’art. 51 cod. pen., costituendo l’esercizio di un diritto. Ovviamente non ricorre una tale esimente nel caso in cui la pratica venatoria, pur essendo consentita a norma della citata legge n.157 del 1992, per le sue concrete modalità di attuazione sottoponga l’animale ad un aggravamento di sofferenze che non trovi giustificazione nelle esigenze della caccia (Sez. 3, n. 601 del 01/10/1996, dep. 29/01/1997, Dal Prà ed altro, Rv. 206820; Sez. 3, n. 11962 del 07/11/1995, Amadori ed altro, Rv. 203300).
Secondo tale indirizzo, siccome la legge n. 157 del 1992 all’art. 21 lett. r) vieta l’uso di uccelli come richiami nel caso in cui l’animale sia accecato o mutilato ovvero sia legato per le ali, costituirebbe legittimo esercizio della pratica venatoria legare l’uccello (nella specie, allodole) con una imbracatura attorno al corpo, consentita dalla predetta legge, sia perché non espressamente vietata e sia perché certamente meno dolorosa per l’animale rispetto a quella per la quale è stato fissato il divieto sicché, nell’ipotesi di uccelli che siano utilizzati come richiami nell’esercizio della caccia, ed a tal fine siano imbracati e legati con una cordicella alla quale venga impresso uno strattone, che li faccia sollevare in volo e poi ricadere, deve ritenersi che tale comportamento venatorio, consentito dalla legge 11 febbraio 1992 n. 157, non può integrare gli estremi del reato di maltrattamento di animali (Sez. 3, n. 2543 del 02/10/1998, P.M. in proc. Nava S., Rv. 212166).
2.2. Secondo un opposto orientamento, nei confronti degli animali è consentita ogni attività che non rientri in uno dei divieti specificamente dettati dalla legge 11 febbraio 1992, n.157 per la “Protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”; quest’ultima, però, da sola non esaurisce la tutela della fauna stessa, poiché, a seguito della successiva entrata in vigore della legge 22 novembre 1993, n.473, di modifica dell’art.727 cod.pen., la sfera di garanzia si è notevolmente ampliata attraverso l’introduzione dell’ulteriore divieto di tenere condotte che comunque possano determinare il maltrattamento dell’animale utilizzato come richiamo o della stessa preda catturata. Pertanto è configurabile il reato di cui all’art. 727 cod. pen. quando nell’esercizio della caccia siano utilizzate allodole imbracate e legate con una cordicella, alla quale venga impresso uno strattone, che le faccia sollevare in volo e, poi, ricadere bruscamente perché trattenute dal legaccio: tale comportamento integra una sevizia, poiché la sua ripetitività ossessiva viene ad incidere sull’istinto naturale dell’animale stesso, dapprima dandogli la sensazione di poter assolvere alla primaria funzione del volo ed immediatamente dopo costringendolo a ricadere dolorosamente (Sez. 3, n. 4703 del 19/11/1996, dep. 20/05/1997, Gemetto Rv. 208042; Sez. 3, n. 6204 del 11/01/1995, Cattelan, Rv. 202482; Sez. 3, n. 8890 del 24/05/1999, Albertini, Rv. 214193).
2.3. Il Collegio ritiene di seguire quest’ultimo orientamento perché maggiormente aderente all’evoluzione della disciplina normativa.
Va precisato che per l’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 51 cod. pen., non è sufficiente che l’ordinamento attribuisca all’agente un diritto (Sez. 3, n. 2860 del 22/01/1980, Petrolo, Rv. 144495) ma è necessario che ne consenta l’esercizio in funzione scriminante attraverso attività e modalità che permettano alla norma attributiva del diritto di prevalere sulla norma incriminatrice e ciò avviene quando non siano superati i limiti che, secondo la specifica disciplina ordinamentale di riferimento, sono o possono essere fissati ad ogni singolo diritto.
Di ciò pare consapevole anche l’indirizzo contrastato quando afferma che l’esimente non ricorre nel caso in cui la pratica venatoria, pur essendo consentita a norma della citata legge n.157 del 1992, per le sue concrete modalità di attuazione sottoponga l’animale ad un aggravamento di sofferenze che non trovi giustificazione nelle esigenze della caccia.
Ciò precisato, non vi è dubbio che la legge 11 febbraio 1992, n. 157 detti norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio, proibendo l’uso degli uccelli come richiami nel caso in cui l’animale risulti accecato o mutilato ovvero sia legato per le ali e implicitamente ammettendo che nella pratica venatoria possano essere utilizzati uccelli legati in parti diverse dalle ali, purché non mutilati o accecati.
Va tuttavia considerato che la legge 22 novembre 1993, n.473, di modifica dell’art.727 cod. pen., ha radicalmente mutato il presupposto giuridico di fondo sotteso alla tutela penale degli animali, i quali sono considerati non più fruitori di una tutela indiretta o riflessa, nella misura in cui il loro maltrattamento avesse offeso il comune sentimento di pietà, ma godono di una tutela diretta orientata a ritenerli come esseri viventi.
In quest’ottica, quindi, l’animale costituisce il bene giuridico protetto e non più l’oggetto materiale del reato, tanto che, per questa via, si è progressivamente realizzato il rafforzamento della tutela penale degli animali che appare più evidente laddove si tenga conto dei principi fissati dalla carte internazionali (la Costituzione Europea ha riconosciuto gli animali come esseri senzienti imponendo agli stati membri di tener conto delle esigenze in materia di benessere degli stessi) e dai successivi interventi normativi (legge 20 luglio 2004, n. 189, recante disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate e che ha, tra l’altro, introdotto nuove norme incriminatrici (gli articoli da 544 bis a 544 quinquies) cod. pen. e riformulato l’art. 727 cod. pen.; la legge 4 novembre 2010, n. 201 di ratifica ed esecuzione della Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, fatta a Strasburgo il 13 novembre 1987, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno; la legge 4 giugno 2010 n. 96 recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee, in attuazione del quale è stato emanato il d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121 che ha peraltro introdotto il reato previsto dall’art. 727 bis cod. pen.:uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette).
Essendo stata perciò notevolmente estesa, dopo la legge sulla caccia (n. 157 del 1992), la normativa protettiva sugli animali, ne deriva che va capovolto il ragionamento in precedenza seguito, secondo il quale nei confronti degli animali sarebbe consentita ogni attività, che non rientri in uno dei divieti specificamente dettati dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 per la “Protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”.
Quindi, in tema di caccia, è certamente consentito l’uso, a scopo venatorio, di richiami vivi ma deve ritenersi parallelamente vietato che a esseri viventi dotati di sensibilità psico – fisica, come gli uccelli, siano arrecate ingiustificate sofferenze con la conseguenza che la legge n. 157 del 1992 elenca, con carattere meramente esemplificativo, comportamenti da considerarsi vietati ma non legittima l’uso di richiami vivi con modalità altamente offensive e questo perché la legge sulla caccia non esaurisce da sola la tutela della fauna, in quanto, a seguito della successiva e penetrante evoluzione normativa (come in precedenza specificata), la sfera di garanzia si è notevolmente ampliata, attraverso l’introduzione dell’ulteriore divieto di tenere condotte dirette a provocare agli animali strazio o sevizie o comunque la detenzione con modalità incompatibili alla loro natura, con la conseguenza che la legittimità delle pratiche venatorie deve essere verificata anche alla luce delle norme dell’ordinamento che assicurano protezione agli animali, quali esseri viventi.
Ne deriva che l’uso di richiami vivi deve ritenersi vietato non solo nelle ipotesi espressamente previste dall’art. 21 lett. r) legge n. 157 del 1992 ma anche quando viene attuato con modalità incompatibili con la natura dell’animale sicché è configurabile il reato di cui all’art. 727 cod. pen., quando nell’esercizio della caccia siano utilizzate allodole imbracate e legate con una cordicella, alla quale venga impresso uno strattone, che le faccia sollevare in volo, e, poi, ricadere pesantemente a terra o su un albero.
In tali casi, si sottopone l’animale a fatiche insopportabili con la natura ecologica di esso, integrando tale comportamento una sevizia, poiché la sua martellante ripetizione influisce sull’istinto naturale dell’animale, dapprima dandogli la sensazione di potere assolvere alla primaria funzione del volo ed immediatamente dopo costringendolo a ricadere dolorosamente.
Perciò, nella pratica venatoria, l’utilizzo dell’uccello è lecito solo quando l’animale sia regolarmente imbracato e non si sottoponga la fune a violenti strattonamenti, ma ci si limiti a tirarla tanto quanto basta per fare alzare in volo l’animale e per assecondarne il rientro nel punto di partenza, senza infliggergli dolore.
Nel caso di specie, è stato accertato che la caccia avveniva con l’utilizzo di richiami vivi costituiti da quattro allodole imbragate.
Per farle sollevare in volo, la fune era soggetta a violenti strattonamenti e il teste ha descritto le condizioni di oggettiva sofferenza in cui si trovavano due delle allodole utilizzate, di cui una mutilata, che sono state poi soppresse dal veterinario al fine di evitare ulteriori sofferenze, mentre le altre due sono state liberate.
Il primo motivo è pertanto infondato.
3. È infondato anche il secondo motivo di gravame.
Il Tribunale, con adeguata motivazione priva di vizi logici, ha ritenuto, sulla base della testimonianza del vigile provinciale, che il ricorrente avesse abbattuto e catturato tre esemplari di pispola in zona soggetta a speciale protezione (ZPS) nella quale vigeva il divieto assoluto di caccia per essere destinata a corridoio naturalistico per la migrazione di uccelli protetti.
La pispola è inclusa nell’allegato II della convenzione di Berna del 19 settembre 1979 (resa esecutiva con legge n. 503 del 1981) e l’art.2, comma 1, lett. C) della legge 11 febbraio 1992, n. 157 sancisce il divieto di cacciare le specie indicate come “minacciate di estinzione” da convenzioni internazionali.
L’articolo 19 bis della legge sulla caccia consente tuttavia alle Regioni di derogare alla disciplina nazionale e comunitaria sempre che le deroghe siano conformi alle prescrizioni dettate dall’articolo 9 della direttiva 79/409 CEE e ai principi ed alle finalità degli artt. 1 e 2 della stessa direttiva e alle disposizioni della legge nazionale.
Nel caso di specie, non rileva che, in forza di tale facoltà, la Regione Lombardia, con legge del 16 settembre 2009 n. 21, abbia consentito la possibilità di catturare vari esemplari previsti dalla convenzione di Berna, tra cui la pispola che poteva essere cacciata dal primo ottobre al 31 dicembre 2009, con il prelievo massimo giornaliero per ciascun cacciatore di cinque unità, in quanto la zona, per come accertato nel corso del giudizio di merito, era segnalata con cartelli per essere una zona soggetta a speciale protezione (ZPS), destinata infatti a corridoio naturalistico per la migrazione di uccelli protetti, quali la pispola, sicché vigeva il divieto assoluto di caccia con la conseguenza che l’inosservanza configura il reato previsto dall’art. 30 lett. h) legge n. 157 del 1992.
Il ricorrente non contesta ciò ma assume, in maniera del tutto aspecifica, che nella zona, ove egli ha praticato la caccia, non vigeva il divieto assoluto ma erano soltanto imposte maggiori limitazioni al suo esercizio.
La deduzione, non rispettando il principio dell’autosufficienza del ricorso, è pertanto inammissibile.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *