Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione tributaria

sentenza 27 maggio 2015, n. 10920

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI BLASI Antonino – Presidente

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere

Dott. MELONI Marina – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18199/2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 78/2008 della COMM.TRIB.REG. di ANCONA, depositata il 03/06/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/04/2015 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La commissione tributaria regionale delle Marche ha respinto l’appello proposto dall’agenzia delle entrate nei confronti della sentenza con la quale la commissione tributaria provinciale di Ancona aveva accolto un ricorso di (OMISSIS) avverso un avviso di accertamento emesso per l’anno 1999 in applicazione dei parametri presuntivi di reddito (Legge n. 549 del 1995, articolo 3, comma 181 e segg.). Ha motivato la decisione affermando che l’applicazione dei parametri non poteva assumere la valenza giuridica di incontrovertibile quantificazione dei ricavi della contribuente, essendo onere dell’amministrazione precisare tecniche e metodologie utilizzate nell’accertamento del reddito e, soprattutto, produrre ulteriori prove a sostegno del calcolo parametrico; la verifica era difatti da ritenere semmai basata su una presunzione semplice, da rapportare alle reali condizioni del soggetto indagato. La commissione tributaria ha quindi ulteriormente osservato che, mentre l’ufficio non aveva motivato l’asserita inidoneita’ dei dati forniti dalla parte, di contro questa “aveva evidenziato con chiarezza tutte le molteplici condizioni e circostanze che avevano determinato un risultato negativo (perdita di esercizio anno 1999) della sua attivita’”.

L’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello, deducendo tre motivi. L’intimata non ha svolto difese. La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale, e’ stata rimessa in pubblica udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo, deducendo violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 42, Legge n. 549 del 1995, articolo 3, comma 181, articoli 2728 e 2697 c.c., la ricorrente reputa censurabile la statuizione della commissione tributaria regionale in quanto, essendosi trattato di accertamento effettuato col metodo parametrico a contraddittorio correttamente instaurato, doveva ritenersi operante una presunzione legale a favore dell’erario, sufficiente a sostenere l’accertamento medesimo in difetto di prova contraria.

Col secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione del Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 2, in quanto il giudice tributario non avrebbe potuto limitarsi ad annullare l’atto di accertamento, essendo il processo tributario annoverabile tra quelli c.d. di impugnazione – merito, ma avrebbe dovuto procedere alla autonoma determinazione dell’imposta effettivamente dovuta.

Infine col terzo motivo di ricorso deduce l’insufficienza della motivazione in ordine a un fatto controverso decisivo, posto che sarebbe mancata ogni valutazione degli elementi di fatto addotti dall’ufficio a sostegno della pretesa fiscale.

2. – Il ricorso – ferme talune improprieta’ dell’impugnata sentenza a proposito del modo di operare dell’accertamento parametrico, in questa sede suscettibili di essere corrette ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c., – e’ inammissibile per una duplice ragione.

3. – L’impugnata sentenza contiene una doppia ratio decidendi. Essa infatti non soltanto ha ritenuto necessaria la conferma della determinazione parametrica a mezzo di ulteriori elementi di prova, sostenendo che codesti nella specie non erano stati offerti dall’amministrazione sulla quale gravava – a suo dire – il relativo onere. Nella parte finale della motivazione, la sentenza e’ andata oltre la suddetta affermazione avendo reputato che l’inferenza parametrica era stata comunque superata da adeguati elementi di prova di segno contrario. In particolare la sentenza ha affermato che la contribuente “aveva evidenziato con chiarezza tutte le molteplici condizioni e circostanze che avevano determinato un risultato negativo (perdita di esercizio anno 1999) della sua attivita’”.

In sostanza, secondo la commissione tributaria la contribuente aveva assolto all’onere del avversare l’accertamento parametrico a mezzo di deduzioni puntuali (“con chiarezza”), dimostrative della perdita di esercizio.

Simile ratio appare di per se’ idonea a sorreggere il rigetto della pretesa fiscale; ed essa non risulta censurata.

Finanche invero nel terzo motivo di ricorso, col quale l’amministrazione ha denunziato la motivazione della sentenza come insufficiente, la censura ha avuto a oggetto il solo profilo insito nella affermazione previa, vale a dire il profilo della valutazione “degli elementi di fatto addotti dall’ufficio” sul rilievo che non consterebbe “(o’o’) la ragione logico-giuridica in forza della quale essa la motivazione abbia ritenuto privi di rilievo gli elementi pur addotti dall’ufficio a sostegno della pretesa fiscale, costituiti dalla evidenziazione del carattere non piccolo dell’attivita’ svolta, della rilevanza dei costi sostenuti per il miglioramento della professione svolta”. Per converso, giova ripetere, nessuna specifica censura e’ stata mossa avverso la concorrente affermazione della commissione tributaria, secondo la quale la contribuente aveva comunque dimostrato – essa – l’effettivita’ della dichiarata perdita di esercizio e la connessa ragione dello scostamento dalla normale redditivita’.

Va rammentato che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralita’ di ragioni, tra loro distinte e autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, e’ inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (v. da ultimo Sez. un. n. 7931-13).

4. – Ulteriore motivo di inammissibilita’ del ricorso deriva dal difetto di autosufficienza sul punto essenziale della causa, pur nell’ottica delle prospettate censure dell’agenzia delle entrate.

E’ ormai stabilizzato, nella giurisprudenza di questa corte, il principio per cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici (non legali, come invece affermato dall’amministrazione nel primo motivo del suo ricorso).

La gravita’, precisione e concordanza di tale sistema di presunzioni non e’ ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in se’ considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditivita’ – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullita’ dell’accertamento.

In tale sede quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realta’ dell’attivita’ economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non puo’ esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilita’ in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilita’ dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilita’ degli standards al caso concreto, da dimostrare dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non e’ vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della piu’ ampia facolta’, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, pero’, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’ufficio puo’ motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilita’ di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, e il giudice puo’ valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito medesimo (cfr. Sez. un. n. 26635-09 e, poi, secondo un indirizzo divenuto costante, Sez. 5A n. 12558-10; n. 13594-10; n. 23015-11; n. 29185-11; n. 5399-12; n. 22599-12).

5. – Ebbene, nel caso di specie l’amministrazione assume, nel primo motivo di ricorso (e nel quesito di diritto), che l’accertamento era stato notificato “a seguito dell’instaurazione del contraddittorio”. Invero afferma che tale corretta instaurazione era circostanza non contestata.

Di contro osserva il collegio che dalla sentenza nulla risulta in proposito; e il fatto della corretta attivazione del contraddittorio era essenziale in quanto e’ la detta attivazione, nell’ottica dei richiamati principi, che consente di apprezzare il regolare formarsi della presunzione semplice.

Dunque la ricorrente aveva innanzi tutto l’onere di rendere il ricorso autosufficiente sullo specifico profilo sotto pena di inammissibilita’, mediante trascrizione per lo meno della parte dell’avviso di accertamento che aveva (secondo il suo asserto) fatto riferimento all’avvenuta infruttuosa attivazione del contraddittorio con la contribuente.

Cio’ difettando, non ha pregio discorrere di non contestazione.

La corte puo’ limitarsi a osservare che non si apprezza, dai dati di causa, il corrispondente fatto storico essenziale al fine del formarsi della presunzione semplice richiamata dall’ufficio.

6. – Quanto fin qui esposto travolge, assorbendole, tutte le doglianze: la seconda, peraltro errata in se’ per se’ e in quanto l’annullamento dell’atto fiscale era la logica conseguenza della negazione della presunzione di maggior reddito; e la terza, gia’ in parte esaminata e oltre tutto neppure conclusa dalla necessaria sintesi contenente il c.d. quesito di fatto (articolo 366 bis c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilita’ del ricorso.

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