Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 26 maggio 2015, n. 10796

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Primo Presidente f.f.

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione

Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24469/2014 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 139/2014 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 09/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/03/2015 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 9 settembre 2014, nell’ambito di due procedimenti disciplinari riuniti, il Consiglio Superiore della Magistratura dichiarava la dr.ssa (OMISSIS), giudice del Tribunale di Crotone, responsabile dei capi di incolpazione di cui al Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articolo 1, e articolo 2, commi 1 e 2, lettera D), (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilita’, nonche’ modifica della disciplina in tema di incompatibilita’, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma della Legge 25 luglio 2005, n. 150, articolo 1, comma 1, lettera f)) per aver palesato in piu’ riprese un comportamento gravemente scorretto nei confronti di altri magistrati, togati e onorari, di avvocati e di personale amministrativo dell’ufficio, e di aver altresi’ tenuto un’udienza civile in violazione dei criteri tabellari di trattazione degli affari; nonche’, dell’illecito disciplinare di cui all’articolo 4, comma 1, lettera D) del medesimo decreto legislativo, in relazione all’articolo 595 c.p., per aver leso la reputazione di piu’ persone.

Per l’effetto, le irrogava la sanzione disciplinare della perdita di anzianita’ di mesi quattro e del trasferimento di ufficio presso la corte d’appello di Potenza con funzioni di magistrato giudicante distrettuale.

Motivava che erano provati i vari episodi, analiticamente elencati nei capi di incolpazione, di condotta scorretta nei confronti di taluni colleghi, anche mediante messaggi telematici denigratori, contenenti notazioni negative circa la loro moralita’ che integravano pure gli estremi della diffamazione e non potevano in alcun modo qualificarsi come esercizio legittimo di critica; cosi’ come era provata la gestione di un’udienza civile in violazione del provvedimento di sostituzione gia’ adottato dal presidente del tribunale, da lei infondatamente contestato come falso perche’ predisposto ex post; mentre, appariva infondata l’ulteriore accusa di molestie nei confronti di una collega, perche’ riferita ad un singolo episodio di pedinamento, mai piu’ ripetuto.

Avverso la sentenza la dr.ssa (OMISSIS) proponeva ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, previa eccezione pregiudiziale di incostituzionalita’ del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articolo 24, per contrasto con gli articoli 3, 27, 105 e 111 Cost..

Deduceva:

1) la violazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera B), e dell’articolo 6, comma 3, lettera D), della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonche’ la carenza di motivazione nella mancata ammissione dei testimoni a discarico da lei indotti, con violazione del contraddittorio e del diritto di difesa;

2) la violazione di legge ed il vizio di motivazione per omessa enunciazione delle ragioni di inattendibilita’ delle prove contrarie offerte dalla difesa;

3) la violazione di legge nella ritenuta responsabilita’ disciplinare per un illecito funzionale non ricompreso nelle fattispecie tipizzate: in particolare, in ordine a giudizi espressi in messaggi privati di posta elettronica all’indirizzo informatico dell’associazione nazionale magistrati e nel corso di colloqui riservati con una collega.

4) la violazione di legge nella dichiarazione di responsabilita’ disciplinare per il reato di diffamazione, non ravvisabile in confidenze private dell’incolpata: senza neppure consentirle Yexceptio veritatis, pur doverosa, data la qualita’ di pubblico ufficiale della persona offesa (articolo596 cod. pen.);

5) la violazione del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articolo 22, nell’applicazione della sanzione della perdita di anzianita’, non prevista per alcune delle contestazioni mosse nei capi di incorporazione.

All’udienza del 24 Marzo 2015 il P.G. ed il difensore precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’eccezione di incostituzionalita’ del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articolo 24, per contrasto con gli articoli 3, 27, 105 e 111 Cost., in ragione della penalizzante disparita’ di trattamento dei magistrati nei confronti degli altri pubblici dipendenti, per omessa previsione dell’appello in materia disciplinare, e’ manifestamente infondata.

Il principio del doppio grado di merito nella giurisdizione non ha copertura costituzionale (Cass., sez. unite, 24 ottobre 2014 n. 22610); ed il richiamo a principi affermati nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (articolo 2, comma 1, protocollo addizionale) non e’ conferente, dal momento che e’ ivi assicurata la possibilita’ di impugnare una sentenza penale di condanna, dinanzi ad una giurisdizione superiore: cio’ che, appunto, e’ garantito, in subiecta materia, mediante il ricorso per cassazione avverso la sentenza della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Oltre al rilievo che la particolare qualificazione ed il rango costituzionale dell’organo giurisdizionale di primo grado rendono improponibile il parallelo con i procedimenti disciplinari degli impiegati amministrativi, rimessi al giudice ordinario del lavoro.

Vengono ora all’esame i singoli motivi di ricorso, tutti a censura multipla e spesso eterogenea, ai limiti dell’inammissibilita’ (Cass., sez. 1, 20 settembre 2013 n.21611; Cass., sez. 1, 23 settembre 2011 n. 19443; Cass., sez. lavoro, 11 aprile 2008 n. 9470).

Con il primo motivo si deduce la violazione del diritto di difesa, per violazione del diritto alla prova, la carenza di motivazione sulla mancata ammissione di testi a discarico, nonche’ la violazione del principio di imparzialita’ del giudice.

Il motivo e’ infondato.

Premesso che la mancata ammissione di mezzi istruttori integra un error in procedendo solo ove essi si palesino decisivi, all’esito di un giudizio prognostico di elevata probabilita’ basato sulle ragioni addotte in motivazione a fondamento della pronuncia (frustra probatum quod probatum non relevat: Cass., sez. 3, 17 novembre 2009 n. 24221; Cass., sez.3, 17 maggio 2007 n. 11457; Cass. sez. 1, 31 gennaio 2007 n. 2201; Cass., sez.3), si osserva come la censura parta dal presupposto che la circostanza esimente della provocazione, prevista in tema di diffamazione (articolo 596 c.p., comma 3), costituisca causa di giustificazione anche nel procedimento disciplinare per il medesimo fatto. Ma l’illazione non e’ fondata, dal momento che l’offesa arrecata all’onore ed al decoro altrui e’ idonea ad incidere sulla credibilita’ e sull’immagine del magistrato che ne sia l’autore anche se, per qualsivoglia ragione, non raggiunga la soglia della perseguibilita’ penale: come nella specie, per difetto della condizione di procedibilita’ della querela (Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 4, lettera D), o per l’eventuale presenza di una causa speciale di non punibilita’ di esclusiva rilevanza penale. Il che trova la sua spiegazione sistematica nel piu’ alto livello di correttezza esigibile da un rappresentante dell’ordine giudiziario, rispetto al comune cittadino: concettualmente riconducibile, in sede assiologica, ad un valore di rango costituzionale (articolo 54 Cost., comma 2).

Cio’ premesso, i capitoli di prova riportati nel ricorso non si palesano punto decisivi, relativi come sono a circostanze estranee ai fatti contestati – e neppure coeve ad essi – genericamente volte a dimostrare, appunto, la provocazione: onde, non appare viziato da violazione di legge il provvedimento assunto in data 17 luglio 2014 con cui il presidente del collegio, visto il parere negativo del giudice relatore, ha rigettato la richiesta di autorizzazione alla citazione dei testi (articolo 468 c.p.p.): provvedimento, implicitamente confermato dal collegio all’esito della discussione.

Contenuto affatto eterogeneo ha l’ulteriore doglianza, promiscuamente esposta nel contesto del medesimo motivo, sulla violazione dell’articolo 34 c.p.p., per incompatibilita’ di quattro dei giudici del Collegio, che si sarebbero gia’ espressi sulla medesima res judicanda in sede cautelare, ed ancor prima, avrebbero conosciuto della pratica aperta nei confronti della dr.ssa (OMISSIS) per la dispensa dal servizio.

Premessa la manifesta infondatezza di quest’ultima ipotesi di incompatibilita’ in ordine ad un’attivita’ di tipo amministrativo priva di alcuna connessione con il presente giudizio, si osserva come appaia corretta la statuizione di tardivita’ (articolo 52 c.p.c., comma 2) di un’istanza presentata nel corso della stessa udienza, in carenza di allegazione dell’impossibilita’ di conoscere preventivamente la composizione soggettiva del collegio, impossibilita’, dovuta, in ipotesi, alla violazione del principio di precostituzione tabellare del giudice, o ad altra cicostanza imprevedibile.

Oltre a cio’, si deve comunque rilevare, nel merito, come nessuna incompatibilita’ sussista tra il giudice della cautela (civile) e quello della fase decisoria dibattimentale, stante il carattere monofasico del processo disciplinare e la necessita’, improntata ad un criterio di razionalita’, di non rompere l’unita’ del processo attribuendo ogni singola decisione, accessoria o incidentale (come la sospensione cautelare) nell’ambito di una stessa fase, ad un giudice diverso (Cass. civile, sez. unite, 12 giugno 1998 n. 5895; Cass. penale, 24 marzo 2009 n. 17401; Cass. penale, 22 settembre 2004 n.38657). Ed e’ appena il caso di aggiungere che non costituiscono fonte di diritto, la cui violazione sia censurabile in Cassazione, le tabelle della sezione disciplinare, riportate nel ricorso, che prescrivono, per pur plausibili motivi di opportunita’, la diversita’ di composizione del collegio della decisione disciplinare rispetto a quello dell’eventuale misura cautelare.

Sussiste, dunque, la fattispecie di illecito disciplinare conseguente a reato, idoneo a ledere l’immagine del magistrato (articolo 4 lettera D d.lgs. 23 febbraio 2006 n.109); restando altresi’ infondata la concorrente censura di violazione dei principi di “accessibilita’” delle norme e di “prevedibilita’” della sanzione, riferita al suddetto rispetto delle disposizioni tabellari emanate dalla sezione disciplinare del C.S.M..

Le ulteriori argomentazioni circa la mancata valutazione diretta delle prove appaiono generiche: non precisandosi neppure se vi sia stata un’istanza di rinnovazione dibattimentale delle deposizioni testimoniali, ed in relazione a quali addebiti (per i piu’ gravi dei quali la prova risulta essere principalmente documentale).

Anche il secondo motivo, con cui si denunzia l’omessa enunciazione delle ragioni di inattendibilita’ della tesi difensiva dell’incolpata sulle discriminazioni ingiuste subite, come causa della reazione verbale, e delle relative prove offerte, e’ infondato.

La sentenza impugnata, dopo aver escluso sulla base di una perizia psichiatrica la presenza di alcuna malattia invalidante all’origine del convincimento radicato dell’incolpata di essere destinataria di provvedimenti discriminatori adottati dal presidente del tribunale per favorire altra collega – tale, da renderla inimputabile in sede disciplinare – ha considerato raggiunta la prova delle condotte denigratorie sulla base di messaggi telematici contenenti apprezzamenti negativi, e talvolta volgari sulla moralita’ di colleghi, e di plurime deposizioni testimoniali, ritenute attendibili; oltre che, in parte, dalle stesse ammissioni della dr.ssa (OMISSIS).

Non vi sono violazioni di legge, ne’ lacune motive nell’iter argomentativo: al quale la difesa contrappone una diversa ricostruzione dei fatti, avente natura di merito e, come tale, inammissibile in questa sede.

Occorre anche aggiungere che l’exceptio veritatis, vertente su pretesi comportamenti discriminatori in danno dell’incolpata, neppure avrebbe efficacia esimente sotto il profilo disciplinare, non giustificando reazioni svoltesi fuori dei corretti canali istituzionali e consistenti in comportamenti oggettivamente lesivi dell’altrui dignita’, oltre che del prestigio dell’ufficio.

Anche il terzo ed il quarto motivo, da trattare congiuntamente per affinita’ di contenuto, sono infondati.

Ribadito il carattere oggettivamente lesivo dell’onore e del decoro dei messaggi telematici, si osserva come la circostanza che la comunicazione sia avvenuta nell’ambito di un dominio informatico riservato dell’Associazione nazionale magistrati non vale certo a renderlo zona franca per espressioni e giudizi offensivi, destinati con certezza ad essere percepiti da una pluralita’ vasta, se non indefinita, di utenti della rete. Del resto, e’ jus receptum, in tema di delitti contro l’onore, che la volonta’ che la frase denigratoria venga a conoscenza di piu’ persone si reputa accertata se l’autore la comunichi ad almeno due persone; e perfino ad una sola, se si abbia, in via preventiva, la certezza morale che la notizia sara’ poi divulgata ad altri (Cass. pen., 15 luglio 2010 n. 36602). E la circostanza che i destinatari della notizia diffamatoria siano un numero a priori indeterminabile di colleghi della vittima vale ad escludere che si possa parlare di corrispondenza strettamente privata, penalmente e disciplinarmente irrilevante.

Sulla concorrente doglianza circa l’illegittima acquisizione della prove si richiamano i rilevi gia’ esposti.

Anche l’ultimo motivo, con cui si censura l’applicazione della sanzione della perdita di anzianita’, non prevista per alcune delle contestazioni mosse nei capi di incolpazione, e’ infondato.

La sanzione irrogata appare conforme ai parametri di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 12, comma 1, lettera E), – con riferimento ai comportamenti previsti dall’articolo 2, comma 1, lettera D); senza che ne sia ammissibile il riesame di congruita’, in questa sede, sulla base delle difformi valutazione di merito esposte nel ricorso. Al riguardo si osserva che la sezione disciplinare del Consiglio superiore ha adeguatamente motivato la sanzione, tenendo conto, da un lato, dell’oggettiva gravita’ dei comportamenti lesivi della credibilita’ della funzione giurisdizionale e, dall’altro, in senso mitigativo, del contesto di disagio psicologico soggettivo nel quale essi si sono manifestati (pur se inidoneo a configurare una causa di inimputabilita’, come espressamente rilevato in apertura di motivazione).

In ordine alla doglianza relativa all’esclusione della prova liberatoria prevista dall’articolo 596 c.p., comma 3, n. 1, (“Quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verita’ del fatto medesimo e’ pero’ sempre ammessa nel procedimento penale se la persona offesa e’ un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni”), si osserva, infine, come ne difettino i presupposti: non solo perche’ le persone offese non erano tutti i magistrati, bensi’ anche avvocati, ma soprattutto perche’ i comportamenti, di varia natura e contenuto, pur se costantemente lesivi dell’altrui decoro, sulla base dell’accertamento di fatto operato in sentenza, non puntualmente smentito dalla ricorrente, non appaiono strettamente connessi ad un fatto relativo all’esercizio delle funzioni del pubblico ufficiale, quanto piuttosto ad antecedenti di fatto aventi origine da una contrapposizione di politica associativa.

Ne’ e’ seriamente contestabile la conoscibilita’ dell’antigiuridicita’ del comportamento denigratorio descritto in sentenza, da parte di un magistrato, professionalmente edotto dei parametri discretivi tra libera manifestazione del pensiero e lesione dell’altrui decoro; fuori dell’ipotesi motivatamente esclusa dal giudice disciplinare di un’incapacita’, anche solo transeunte, di intendere e di volere.

Sussiste, dunque, la fattispecie di illecito disciplinare conseguente a reato, idoneo a ledere l’immagine del magistrato (Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articolo 4, lettera D), restando altresi’ infondata la concorrente censura di violazione dei principi di “accessibilita’” delle norme e di “prevedibilita’” della sanzione.

Sussiste, dunque, la fattispecie di illecito disciplinare conseguente a reato, idoneo a ledere l’immagine del magistrato (Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articolo 4, lettera D), restando altresi’ infondata la concorrente censura di violazione dei principi di “accessibilita’” delle norme e di “prevedibilita’” della sanzione.

Il ricorso e’ dunque infondato e va respinto.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso.

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