Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 21 settembre 2017, n. 43476. La posizione dello psichiatra in caso di suicidio del paziente

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3. La Corte territoriale disattendeva i motivi di gravame, incentrati sulla assenza di condotte rimproverabili al (OMISSIS). I motivi possono cosi’ sintetizzarsi: la donna, all’atto della presentazione all’ospedale, non presentava segni clinici di intossicazione da farmaco; inoltre, la tipologia di farmaco ingerita non implicava l’induzione in propositi suicidari; l’istruttoria aveva negato che la (OMISSIS) avesse tentato il suicidio o che avesse istinti di tal fatta ne’ detta intenzione fu rappresentata al (OMISSIS) la mattina del tragico evento; non vi erano dunque segnali o elementi che imponessero al medico di procedere al ricovero presso il Servizio psichiatrico e neppure indicazioni per un ricovero al pronto soccorso per l’ingestione del farmaco. Nella pronuncia impugnata, la Corte territoriale ricostruiva la storia clinica della donna, che soffriva di schizofrenia paranoide sin dal 2008 (epoca della nascita del primo figlio) e che era stata ricoverata, appena un mese e mezzo prima del suicidio, per una riacutizzazione della patologia seguita alla nascita della seconda figlia (nel (OMISSIS)); richiamava le dichiarazioni del convivente (OMISSIS), relative al mese precedente, in cui la donna, seguita dal dott. (OMISSIS), aveva manifestato segni di peggioramento e di depressione, curati dal medico attraverso modifiche di dosaggio della terapia, e relative alla mattina dell’episodio suicidario, secondo cui il (OMISSIS), vista la (OMISSIS), non aveva creduto che la stessa avesse ingerito il farmaco e non le aveva rivolto nessuna domanda, limitandosi a constatare che la paziente si manteneva vigile, senza dunque procedere ad alcun ricovero e consigliando il ritorno a casa. Argomentava poi che, benche’ le conclusioni del consulente del Pm, avessero escluso il nesso tra uso di farmaci a base di aloperidolo e aumento del rischio suicidario nonche’ la presenza, la mattina dell’episodio, di segni clinici di intossicazione da farmaco anche perche’ l’assorbimento avviene nell’arco delle sei ore e gli effetti si producono dopo due ore, doveva considerarsi che la (OMISSIS) era affetta da manifestazioni psico patologiche tali da richiedere una particolare attenzione e che l’assunzione massiccia di un farmaco in un paziente con una storia amnestica psichiatrica cosi’ come quella documentata, con 13 cartelle cliniche di ricovero presso il Centro ospedaliero psichiatrico, avrebbe dovuto indurre a maggiore prudenza e, in special modo, indurre a intraprendere una “sorveglianza sanitaria”. Cio’ considerato anche che i pazienti affetti da schizofrenia paranoide incorrono in morte per suicidio nel 15-20% dei casi e che un numero molto maggiore di pazienti ricorre a comportamenti senza un vero rischio letale. Tanto premesso la Corte, affermata la posizione di garanzia rivestita dal (OMISSIS), medico curante della (OMISSIS) che aveva esaminato la donna presso l’Ospedale la stessa mattina del tragico evento, riteneva che l’imputato avesse violato i propri doveri di diligenza e perizia, non avendo valutato con attenzione, e addirittura minimizzato, l’anomalia comportamentale della (OMISSIS), consistente nella riferita ingestione massiccia del farmaco, che avrebbe dovuto far presagire la sussistenza di una situazione di allarme in corso. E, anche se la (OMISSIS) non manifestava segni clinici ricollegabili alla ingestione del Serenase, l’evidente stato di preoccupazione mostrata dal marito della donna, accorso in ospedale alle prime ore del mattino, tenendo in braccio il figlio di poco piu’ di un anno e con gli effetti personali della donna, pronto a ricoverarla, avrebbe dovuto indurre l’imputato ad una risposta piu’ vigile e ad rilevare il livello di rischio che la situazione presentava. La Corte affermava quindi che l’intento suicidiario era perfettamente prevedibile e che la colpa del (OMISSIS) consisteva nel non aver creduto alla versione dei fatti riferita dal marito (cioe’ all’ingestione di un intero flacone di Serenase), ignorando tra l’altro che gli effetti del farmaco si producono almeno dopo due ore; e non aver neppure prospettato, quale condotta doverosa, alcuna possibilita’ di ricovero ne’ aver almeno tenuto la paziente sotto osservazione per un tempo ragionevole, procedendo ad una valutazione affrettata e infondendo al marito un tranquillita’ che ne faceva venir meno lo stato di allerta, non impedendo cosi’ il suicidio avvenuto poco meno di un’ora dopo.
3. Propone ricorso per Cassazione (OMISSIS) a mezzo del proprio difensore di fiducia. Con unico motivo lamenta vizio di violazione di legge, in relazione agli articoli 40 e 589 c.p., e vizio di illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione, oltre che travisamento della prova. La Corte territoriale aveva omesso l’indagine causale secondo le note regole tracciate dalla giurisprudenza di legittimita’. In particolare, la pronuncia impugnata non aveva descritto in maniera rigorosa la condotta omessa ne’ se l’azione che avrebbe dovuto compiersi avrebbe, con probabilita’ vicina alla certezza, impedito il rischio di suicidio. Inoltre, la sentenza aveva travisato elementi probatori acquisiti al processo. Le conclusioni del consulente del PM erano state infatti riportate in modo parziale, poiche’ il predetto consulente aveva si’ considerato che il medico avrebbe dovuto adoperarsi per una sorveglianza sanitaria, ma solo nel caso in cui il medico avesse creduto, dalle manifestazioni cliniche del paziente, che la paziente avesse assunto una certa quantita’ di farmaco: e, nella specie, era stato accertato che la (OMISSIS) non manifestava alcun segno clinico da massiccia assunzione di farmaco. Il consulente, poi, aveva ammesso che non vi era alcun segno clinico per un ricovero in regine di TSO; che non sarebbe stato possibile, sempre in assenza di segni clinici, un ricovero nel reparto psichiatrico; che, al piu’, il (OMISSIS) avrebbe potuto indirizzare la donna presso una struttura di pronto soccorso per un supplemento di indagine in ordine alla riferita ingestione del farmaco. Mancava, allora, ogni certezza circa il fatto che un ricovero al pronto soccorso avrebbe evitato un suicidio da defenestrazione. Inoltre, nella pronuncia impugnata si asseriva (alle pagg. 24 e 25) che il dott. (OMISSIS) avrebbe dovuto sapere interpretare i segnali di allarme lanciati dalla donna, richiamando la deposizione del marito (secondo cui quella mattina la donna gli aveva detto “di non farcela piu'”): detto passaggio argomentativo era basato su un dato che non esisteva nel processo, posto che mai il marito della donna aveva riferito al (OMISSIS) tale conversazione, rimasta quindi del tutto ignota al medico. Sul punto, la Corte aveva del tutto omesso il riferimento a elementi decisivi della testimonianza del (OMISSIS), secondo cui egli stesso, la mattina del tragico evento, non aveva visto la donna ingerire il farmaco e non aveva notato sintomi di sonnolenza. Soprattutto, la Corte aveva del tutto omesso di considerare (anzi, lo aveva sconfessato) il passaggio della deposizione del (OMISSIS) in cui quest’ultimo aveva dichiarato di non aver mai detto al (OMISSIS) ne’ ad altri che la (OMISSIS) voleva suicidarsi, anche perche’ mai gli aveva manifestato, prima di quel giorno, manie suicide. Cio’ rendeva del tutto imprevedibile ed evitabile, ex ante e in concreto, dal parte del (OMISSIS), l’evento verificatosi. Infine, dal momento che la donna non era stata ricoverata e aveva anzi espresso la volonta’ di tornare a casa, poiche’ la figlia di pochi mesi era rimasta incustodita, erroneamente la Corte aveva ritenuto sussistente la posizione di garanzia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ infondato.

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