Corte di Cassazione, sezione prima civile, sentenza 24 novembre 2017, n. 28152. Quand’è che si ha persecuzione, che legittima il riconoscimento dello status di rifugiato

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Il primo motivo e’ meritevole di accoglimento.
Ai sensi del Decreto Legislativo n. 251 del 2007, articolo 7, gli atti di persecuzione, che devono essere “sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali” (comma 1, lettera a), possono assumere la forma, tra l’altro, di “atti di violenza fisica o psichica” (comma 2, lettera a), o di “atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia” (comma 2, lettera f). Ai sensi dell’articolo 3, comma 4, Decreto Legislativo cit., “il fatto che il richiedente abbia gia’ subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi”. La pronuncia impugnata si pone in contrasto tanto con tali norme quanto con il quadro di riferimento internazionale e comunitario.
Invero, come gia’ statuito da questa Corte, in virtu’ degli articoli 3 e 60, della Convenzione di Istanbul dell’11/05/2011 (resa esecutiva in Italia con L. n. 77 del 2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (Cass. n. 12333 del 17/05/2017). Ai sensi dell’articolo 60, par. 1, della Convenzione “Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare sussidiaria”. In base all’articolo 3, lettera b), “l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Infine, a livello di soft law, le linee guida dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) del 07/05/2002 sulla persecuzione basata sul genere, al punto 25 specificano – come posto in luce dalla ricorrente – che si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.
Nel caso di specie la richiedente, professante la religione cristiana, si era rifiutata di rispettare le regole consuetudinarie del proprio villaggio, subendo per tal motivo la persecuzione da parte del cognato (il quale la “rivendicava” per averla come sposa), l’allontanamento dalla propria abitazione, la privazione di tutte le proprieta’ e della potesta’ genitoriale sui figli. Risulta pertanto illogico l’assunto della Corte territoriale secondo cui l’allontanamento della richiedente dal proprio villaggio sarebbe frutto di una scelta volontaria, giacche’ le autorita’ tribali cui si e’ rivolta le hanno consentito di sottrarsi al rispetto delle consuetudini locali piu’ brutali, ma a condizione di allontanarsi dai figli e perdere i propri beni. La richiedente infine ha continuato a subire le molestie e le minacce da parte del fratello del defunto marito.

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