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E tuttavia, anche nel caso opposto, la regressione del processo si sarebbe comunque verificata e la cognizione dei reati ascritti agli imputati, all’esito di una serie di passaggi piu’ complessi, sarebbe stata finalmente sottoposta a quegli stessi giudici, la Corte di assise, in primo grado, e la Corte di assise di appello di Palermo, in secondo grado, che li hanno effettivamente giudicati.
1.3. Secondo i ricorrenti era stato violato l’articolo 23 c.p.p., come inciso dalla decisione della Corte Costituzionale n.76 del 15/3/1993, perche’ gli atti avrebbero dovuto essere trasmessi non gia’ al giudice competente ma al Pubblico ministero presso di esso.
Nel caso la rimessione non e’ avvenuta al giudice competente ossia alla Corte di assise di Palermo ma al Giudice per le indagini preliminari in considerazione dell’eccezione proposta dagli imputati circa la nullita’ della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare per omesso rispetto del termine a comparire, con il medesimo risultato che si sarebbe prodotto nel caso in cui tale provvedimento di annullamento fosse stato emesso all’esito di un diverso iter procedimentale, come vorrebbero i ricorrenti, dal giudice competente, a cui comunque sono stati successivamente trasmessi gli atti per il giudizio di primo grado e d’appello.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione di legge e vizio della motivazione, in relazione agli articoli 125, 192, 533 e 546 c.p.p. e articoli 110 e 600 c.p., e articolo 6 CEDU.
2.1. In primo luogo i ricorrenti sostengono che la condanna per il reato di riduzione in schiavitu’, disposta dalla Corte di assise di appello, ribaltando la decisione assolutoria di primo grado, non era corretta quanto alla ritenuta sussistenza del presupposto ineludibile per la configurazione del reato, costituito dalla significativa compromissione della capacita’ di autodeterminazione del soggetto passivo.
A questo proposito, la sentenza impugnata aveva ritenuto sufficiente alcuni elementi, come la posizione di debolezza delle persone offese dovuta alla loro condizione illegale, la lontananza da casa, la non conoscenza della lingua e l’insussistenza di relazioni personali, l’esercizio abituale della prostituzione, l’imposizione di alloggio e vitto, il prelievo degli importi del meretricio.
Tali elementi potevano integrare i reati di induzione e sfruttamento della prostituzione ma erano insufficienti, di per se’, a delineare il piu’ grave delitto di riduzione in schiavitu’.
2.2. La sentenza impugnata ha dedicato ampio spazio (cfr pag.15-18, § 1) ad una accurata e completa ricostruzione della fattispecie normativa dell’articolo 600 c.p., esattamente configurato in termini di reato a fattispecie plurima (da ultimo Sez. 5, n. 10426 del 09/01/2015, O, Rv. 262632).
L’articolo 600 c.p., cosi’ sostituito dalla L. 11 agosto 2003, n. 228, articolo 1, rubricato “Riduzione o mantenimento in schiavitu’ o in servitu'” dispone che “Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprieta’ ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attivita’ illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi, e’ punito con la reclusione da otto a venti anni”.
Tale reato si pone in rapporto di continuita’ normativa con quello originariamente configurato dall’articolo 600 c.p., avendo la nuova disciplina soltanto definito la nozione di schiavitu’, che in precedenza doveva trarsi dalle Convenzioni internazionali di Ginevra sulla abolizione della schiavitu’, rispettivamente del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con il Regio Decreto 26 aprile 1928, n. 1723, e del 7 settembre 1956, ratificata ed resa esecutiva in Italia con la L. 20 dicembre 1957, n. 1304. (Sez. 3, n. 50561 del 08/10/2015, G., Rv. 265648).
La fattispecie criminosa puo’ quindi essere integrata, alternativamente, dall’esercizio su di una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprieta’ (cosiddetta “reificazione”), ovvero dalla riduzione o dal mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attivita’ illecite che ne comportino lo sfruttamento.
Lo stesso articolo 600 c.p., comma 2 precisa che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta e’ attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorita’ o approfittamento di una situazione di vulnerabilita’, di inferiorita’ fisica o psichica o di una situazione di necessita’, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorita’ sulla persona.
La prospettazione accusatoria accolta dalla Corte territoriale attiene alla realizzazione della seconda ipotesi alternativa della fattispecie plurima, ossia la riduzione o dal mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attivita’ illecite che ne comportino lo sfruttamento, esercitata fra i vari strumenti tipici costituenti modalita’ della condotta, elencati nel comma secondo dell’articolo 600 c.p., mediante minaccia e approfittamento dello stato di necessita’, intesa come situazione di debolezza e mancanza materiale o morale atta a condizionare la volonta’ della vittima.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, puntualmente richiamata dal provvedimento impugnato, ai fini della configurabilita’ dello stato di soggezione, rilevante per l’integrazione del reato di riduzione in schiavitu’, e’ necessaria una significativa compromissione della capacita’ di autodeterminazione della persona offesa, anche indipendentemente da una totale privazione della liberta’ personale (Sez. 5, n. 49594 del 14/10/2014, Enache, Rv. 261345; Sez. 5, n. 25408 del 05/11/2013 – dep. 2014, Mazzotti, Rv. 260230).
Inoltre la previsione di cui alla seconda parte dell’articolo 600 c.p., comma 1 configura un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione continuativa in cui la vittima e’ costretta a svolgere date prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente alternativamente, tra l’altro, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorita’ ovvero approfittamento di una situazione di inferiorita’ fisica o psichica o di una situazione di necessita’. Ne deriva che, perche’ sussista la costrizione a prestazioni – in presenza dello stato di necessita’ che e’ un presupposto della condotta approfittatrice dell’agente e che deve essere inteso come situazione di debolezza o mancanza materiale o morale atta a condizionare la volonta’ della persona – e’ sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore; mentre la costrizione alla prestazione deve essere esercitata con violenza o minaccia, inganno o abuso di autorita’ nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorita’ fisica o psichica o di necessita’ (Sez. 5, n. 4012 del 15/12/2005 – dep.2006, Lazri ed altri, Rv. 233600).
Infine, secondo questa Corte, come esattamente rammentato dalla Corte territoriale, la situazione di necessita’ della vittima deve essere intesa come situazione di debolezza idonea a condizionarne la volonta’ personale, analoga a quella considerata dall’articolo 644 c.p., comma 5, n. 3, o allo stato di bisogno rilevante ai fini della rescissione del contratto (articolo 1418 c.c.) e sostanzialmente coincidente con il concetto normativo di “posizione di vulnerabilita’”, indicata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19/7/2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, attuata dalla L. 11 agosto 2003, n. 228 (Sez. 3, n. 2841 del 26/10/2006 – dep. 2007, Djordjevic e altri, Rv. 236022) e non va quindi confusa con la scriminante dello “stato di necessita’” di cui all’articolo 54 c.p. (Sez. 3, n. 21630 del 06/05/2010, E. e altro, Rv. 247641).
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