Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 febbraio 2017, n. 3370

La regola dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Peraltro, il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale. La relativa valutazione del giudice di merito, tuttavia, è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da idonea motivazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 8 febbraio 2017, n. 3370

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Roma con sentenza n. 10070 in data 21 novembre 2013 / 12 febbraio 2014, in riforma dell’impugnata pronuncia, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato a B.V. e conseguentemente condannava la convenuta Poste Italiane S.p.A. a reintegrare l’attore nel posto di lavoro in precedenza occupato, nonché a corrispondergli le retribuzioni maturate dal recesso l’effettiva reintegra, oltre accessori di legge ed oltre al versamento dei contributi previdenziali assistenziali. Condannava, altresì, la società appellata al rimborso delle spese di lite.
In sintesi, nella specie la Corte capitolina accoglieva l’interposto gravame, sostenendo che era fondato il motivo relativo alle eccepito difetto di immediatezza della contestazione disciplinare, tenuto conto che nella specie il ricorrente con provvedimento del 1 giugno 2004 era stato sospeso in via cautelare dal servizio in relazione ad un procedimento penale, cui poi aveva fatto seguito la contestazione disciplinare in data 17 maggio 2010 in relazione al decreto di rinvio a giudizio per cui il B. era stato imputato del reato di cui agli articoli 81 e 648 del codice penale.
Secondo la Corte distrettuale, già nel fascicolo di prime cure dell’appellata società era presente decreto di citazione diretta a giudizio, datato 17 marzo 2008, nel quale Poste Italiane era stata indicata come persona offesa dal reato contestato al B. , sicché, indipendentemente da quanto affermato da parte datoriale, quest’ultima aveva dovuto aver conoscenza del rinvio a giudizio almeno due anni prima della contestazione disciplinare, non essendo di conseguenza credibili le giustificazioni fornite, circa il ritardo, con l’anzidetta lettera di contestazione dell’addebito in data 17 maggio 2010.
Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione Poste Italiane S.p.A., con atto di cui alla notifica in data 31 luglio 4 agosto 2014, affidato a tre motivi: violazione e falsa applicazione dell’articolo 437 c.p.c. e degli articoli 550 e 552 comma terzo c.p.p. in relazione all’articolo 360 numero tre c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che aveva formato oggetto di discussione tra le parti (articolo 360 n. 5 c.p.c.) – violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’articolo 1175 c.c. con riferimento all’articolo 360 n. 3 del codice di rito. All’anzidetta impugnazione ha resistito B.V. mediante controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Il ricorso va disatteso in forza delle seguenti considerazioni.
Risulta invero accertato in fatto che con provvedimento in data primo giugno 2004 il lavoratore venne sospeso in via cautelare dal servizio, ai sensi dell’art. 55 del c.c.n.l. 11-7-2003, perché convolto in un’indagine penale, che aveva altresì comportato perquisizioni eseguite pure la sede di Poste Italiane; che la contestazione disciplinare intervenne soltanto con missiva in data 17 maggio 2010, laddove genericamente si menzionava di aver recentemente avuto notizia del decreto di rinvio a giudizio in merito all’incriminazione del dipendente per il reato di ricettazione continuata circa beni proventi di furti ai danni della stessa datrice di lavoro, risalenti al periodo dicembre 2003 / giugno 2005; che il licenziamento venne intimato con missiva del due luglio 2010; che il decreto di citazione diretta a giudizio era datato 17 marzo 2008, indicando tra l’altro come persona offesa dal reato proprio la S.p.A. POSTE ITALIANE, alla quale andava perciò notificato a norma del codice di procedura penale; che almeno dal 15 febbraio 2010 la società risultava documentalmente edotta dell’anzidetto decreto di citazione a giudizio e dei relativi atti d’indagine preliminare, tanto più poi che la stessa datrice di lavoro aveva disposto fin dal giugno 2004 l’anzidetta sospensione cautelare ex art. 55, co. I, c.c.n.l. 11 luglio 2003 (La Società, laddove riscontri la necessità di espletare accertamenti sui fatti addebitabili al lavoratore a titolo di infrazione disciplinare, può disporre, solo in ipotesi di particolare gravità, l’assegnazione provvisoria del lavoratore ad altro ufficio o la sospensione cautelare temporanea dal servizio per un periodo di tempo strettamente necessario, con corresponsione della retribuzione. Il periodo di sospensione cautelare dal servizio è considerato a tutti gli effetti quale servizio prestato). La Società durante i sei anni della protratta sospensione non aveva svolto alcun autonomo accertamento, continuando peraltro ad erogare la retribuzione, anche per i mesi di luglio e agosto dell’anno 2010. Inoltre, come si evince dalla sentenza qui impugnata, risulta che nel corso del giudizio di secondo grado venne documentalmente provata la notifica del suddetto decreto di citazione a giudizio, eseguita nei confronti della persona offesa il tre aprile 2008, perciò due anni prima della contestazione disciplinare in data 17 maggio 2010, laddove inoltre, ancor prima a seguito di richiesta ex art. 116 c.p.p. in data 30-03-2007, il p.m. aveva comunicato la chiusura delle indagini e che in data 11 febbraio 2009 la medesima società aveva chiesto la copia di tutto il fascicolo processuale.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto da POSTE ITALIANE, parte datoriale aveva avuto conoscenza del giudizio penale ben prima del febbraio 2010. Di conseguenza, secondo la Corte di merito, la società appellata aveva dimostrato un’inerzia assolutamente colpevole, essendosi limitata all’anzidetta sospensione durata sei anni, ma senza svolgere alcuna attività istruttoria, nei sensi di cui al citato art. 55 del contratto collettivo e senza attivarsi tempestivamente, nonostante la conoscenza del procedimento penale, quanto meno dall’aprile 2008, persistendo nella propria ingiustificata inerzia.
Orbene, quanto al primo motivo, laddove si lamenta in particolare la violazione dell’art. 437 c.p.c., peraltro in relazione all’art. 360 n. 3 dello stesso codice di rito, anziché come error in iudicando, va ricordato che nel rito del lavoro, il potere istruttorio d’ufficio ex artt. 421 e 437 c.p.c., non è meramente discrezionale, ma costituisce un potere-dovere da esercitare contemperando il principio dispositivo con quello della ricerca della verità, sicché il giudice (anche di appello), qualora reputi insufficienti le prove già acquisite e le risultanze di causa offrano significativi dati d’indagine, non può arrestarsi al rilievo formale del difetto di prova ma deve provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati dal materiale probatorio idonei a superare l’incertezza sui fatti in contestazione, senza che, in tal caso, si verifichi alcun aggiramento di eventuali preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle parti, in quanto la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo (Cass. lav. n. 19305 del 29/09/2016, conforme n. 278 del 10/01/2005). Nel caso di specie, come già rilevato dal giudice di merito, il decreto di citazione a giudizio, datato 17-03-2008, risultava agli atti del fascicolo di prime cure della società appellata, sicché in base alle inderogabili prescrizioni contenute nel terzo comma dell’art. 552 c.p.p. (Il decreto di citazione è notificato all’imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno sessanta giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione. Nei casi di urgenza, di cui deve essere data motivazione, il termine è ridotto a quarantacinque giorni), del tutto legittimamente è stata ritenuta presumibile la notificazione, doverosa, del provvedimento in epoca prossima alla sua emissione, così come del resto poi verificato in secondo grado, laddove si è accertata l’avvenuta notifica alla p.o. (quindi nella specie all’attuale società ricorrente) in data tre aprile 2008. Ogni altra questione sulla nullità del decreto per omessa notifica alla persona offesa e sulla legittimazione ad eccepirla o a rilevarla di ufficio si appalesa del tutto inconferente, rilevando soltanto la correttezza del percorso argomentativo in base al quale il giudice di appello aveva maturato il convincimento della tempestiva notifica del decreto 17-03-2008, da parte del p.m., autorità giudiziaria procedente, nei riguardi delle parti private, tra cui la p.o., datrice di lavoro, al fine di appurare la tempestività o meno della contestazione disciplinare.
Parimenti inconferenti appaiono le doglianze di cui al II motivo del ricorso, circa la documentazione riferita alle richieste di POSTE ITALIANE sullo stato delle indagini, avuto riguardo al complesso delle argomentazioni in proposito svolte con la gravata pronuncia, in base alle quali risulta formatosi il convincimento, perciò insindacabile in sede di legittimità, circa il difetto d’immediatezza nella contestazione disciplinare de qua, tenuto conto delle anzidette risultanze documentali ed alla stregua altresì di quanto previsto dal succitato c.c.n.l. in tema di sospensione cautelare dal servizio (per quanto è dato leggere sul punto nell’impugnata sentenza, laddove diversamente non risulta debitamente prodotta, né compiutamente allegata da parte ricorrente, nei sensi rigorosamente prescritti dagli artt. 366 e 369 del codice di rito, la pertinente contrattazione collettiva).
A fronte degli accertamenti e delle valutazioni, del tutto coerenti e logiche, da parte del giudice di merito, appaiono dunque non pertinenti le surriferite diverse opinioni espresse dal ricorrente, che non possono trovare alcun accoglimento nell’ambito della c.d. critica vincolata consentita dalle tassative ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c. (Cass. n. 25332 del 28/11/2014: il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione, che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa; ne deriva che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti.
Cfr., inoltre, Cass. III civ. n. 10295 del 07/05/2007, secondo cui, mentre il vizio di falsa applicazione della legge si risolve in un giudizio sul fatto contemplato dalle norme di diritto positivo applicabili al caso specifico – con la correlata necessità che la sua denunzia debba avvenire mediante l’indicazione precisa dei punti della sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse, fornita dalla giurisprudenza di legittimità e/o dalla dottrina prevalente – invece, il vizio relativo all’incongruità della motivazione comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante e sussiste solo qualora il percorso argomentativo adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, ragion per cui tra le due relative censure deducibili in sede di legittimità non vi possono essere giustapposizioni. Da ciò consegue che il ricorrente non può denunciare contemporaneamente la violazione di norme di diritto e il difetto di motivazione, attribuendo alla decisione impugnata un’errata applicazione delle norme di diritto, senza indicare la diversa prospettazione attraverso la quale si sarebbe giunti ad un giudizio sul fatto diverso da quello contemplato dalla norma di diritto applicata al caso concreto, perché la deduzione di questa deficienza verrebbe, nella realtà, a mascherare una richiesta di diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in sede di legittimità).
D’altro canto, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ. (anche secondo il testo anteriore alle più rigide preclusioni imposte dal legislatore del 2012) si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito, rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. L’art. 360 n. 5 non conferisce, infatti, alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti. Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. III civ. n. 2222 del 14 febbraio 2003, conformi tra le altre, Cass. n. 350 del 2002, n. 584 del 16/01/2004, n. 20322 del 20/10/2005).
Va ancora rilevato che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. (però nei limiti dell’attuale vigente testo di detta norma, ratione temporis applicabile, con riferimento alla qui impugnata sentenza, risalente al novembre 2013, mediante successiva pubblicazione in data 12-02-2014) non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass. civ. sez. 6 – 5, n. 91 del 07/01/2014, in senso conforme Cass. n. 5024 del 28/03/2012. Analogamente Cass. n. 17477 del 09/08/2007, ha affermato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato – o insufficiente – esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione. Pressoché conforme Cass. sez. un. civ. n. 13045 del 27/12/1997.
Parimenti, v. altresì Cass. lav. n. 16531 del 19/07/2006 sulla impossibilità per il giudice di legittimità di procedere anche alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, competendo la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e delle coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Similmente cfr. pure Cass. lav. n. 9234 del 20/04/2006, secondo cui in particolare al giudice di merito spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice incontri alcun limite al riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata).
Pertanto, non si ravvisano nella specie gli estremi delle violazioni e delle omissioni ipotizzate dal ricorrente, soprattutto poi in relazione ad apprezzamenti del giudice di merito, che rimangono d’altro canto sindacabili in sede di legittimità, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla I. n. 134 del 2012, nei limiti della sua riduzione al c.d. “minimo costituzionale” circa il controllo di questa Corte sulla motivazione, ossia soltanto per la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, per la “motivazione apparente”, per il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e per la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. più di recente Cass. civ. Sez. 6 – 1, ordinanza n. 19677 – 01/10/2015, ed esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, come altresì precisato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014, nonché dalla Sez. 6 – 3 con la pronuncia n. 23828 del 20/11/2015. V. inoltre, in senso analogo, Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 21257 in data 8/10/2014, secondo cui, dopo la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dal n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).
Disattese nei sensi anzidetti le censure di cui al secondo motivo, parimenti è a dirsi per quanto concerne l’asserita violazione e falsa applicazione dell’art. 1175 c.c. (3 motivo d’impugnazione), nella parte in cui la Corte distrettuale, stigmatizzando la colpevole pluriennale inerzia di parte datoriale, giudicava irrilevante, ai sensi dell’art. 1175 cit. la condotta del dipendente, circa la mancata comunicazione da parte di costui degli sviluppi dell’indagine che lo vedevano coinvolto, non rivenendosi alcun preciso obbligo in proposito nella disciplina collettiva e neanche in quella codicistica, inerente alla reciproca collaborazione pur connotante il rapporto di lavoro subordinato, laddove secondo la Corte capitolina rilevava in senso contrario l’ingiustificato inerte comportamento tenuto da parte datoriale sin dall’aprirle 2008, allorché questa aveva avuto piena conoscenza dell’esito della vicenda penale (tramite il provvedimento che disponeva il giudizio, perciò in seguito alla chiusura delle indagini preliminari). A ciò potrebbe soltanto aggiungersi che nell’ambito del comportamento secondo correttezza ex art. 1175 c.c., che idealmente ed in astratto dovrebbe caratterizzare pure il rapporto di lavoro subordinato, non è possibile pretendere anche una condotta autolesionistica del dipendente o comunque contraria e pregiudizievole ai propri interessi, come la pretesa comunicazione dell’intervenuta incriminazione del medesimo mediante esercizio dell’azione penale, per di più in relazione a fatti strettamente connessi alla prestazione lavorativa (arg. ex Cass. lav. n. 9262 del 04/05/2005, secondo cui nell’ambito del procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore subordinato, opera la regola generale secondo la quale “nemo tenetur contra se edere”, il che esclude il dovere dell’incolpato di rendere dichiarazioni idonee a fornire la prova della sua responsabilità e quindi la esigibilità di dichiarazioni “autoindizianti”. Cfr. pure Cass. III civ. n. 11412 del 18/06/2004, secondo cui in tema di procedimento disciplinare a carico del notaio, in applicazione del principio fondamentale “nemo tenetur se detegere”, il notaio non può essere costretto a rendere dichiarazioni in seguito alle quali possa essere successivamente esposto a un procedimento sanzionatorio; ne consegue che, operando anche nell’ambito disciplinare il sistema delle cause di giustificazione, costituisce esercizio di un diritto il rifiuto di rendere dichiarazioni scritte o orali autoindizianti, ancorché richieste dal consiglio notarile nell’ambito delle sue funzioni di vigilanza e controllo. Conforme id. n. 12906 del 13/07/2004); senza peraltro considerare l’obbligo di notifica anche alla stessa p.o. qui interessata, ex cit. art. 552 co. III, donde l’inutile duplicazione di avviso, già imposto al p.m. dalla norma processuale.
Dunque, il ricorso va respinto, dovendosi altresì infine richiamare il principio, secondo cui la regola dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Peraltro, il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale. La relativa valutazione del giudice di merito, tuttavia, è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da idonea motivazione (così tra le altre Cass. lav. n. 14113 del 20/06/2006. V pure in senso analogo Cass. n. 12141 del 2003, nn. 4435 e 7724).
Con il rigetto del ricorso parte soccombente va di conseguenza condannata la rimborso delle relative spese, laddove per altro verso, la stessa è anche tenuta al versamento dell’ulteriore
contributo unificato come per legge.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con attribuzione agli avv.ti S. C. e A. P., procuratori anticipatari costituiti per il controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13

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