Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 22 febbraio 2016, n. 3422
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 545-2011 proposto da:
(OMISSIS) SPA C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2909/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/12/2009 R.G.N. 9579/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/2015 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega orale Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 22 dicembre 2009, in riforma della pronuncia del primo giudice, ha accertato la sussistenza di una dequalificazione professionale operata da (OMISSIS) Spa in danno di (OMISSIS), in quanto adibito a decorrere dal 1 aprile 1999 a “ripartire lettere e stampe; caricare e scaricare sacchi contenenti corrispondenza; trasportare manualmente carrelli e cassette di corrispondenza; svuotare sacchi contenenti corrispondenza”; ha ritenuto la violazione dell’articolo 2103 codice civile rispetto alle mansioni in precedenza svolte dal (OMISSIS) presso il Gruppo (OMISSIS) di (OMISSIS), di “qualificata natura tecnica”; ha condannato la societa’ al risarcimento del danno determinato equitativamente nella misura del 40% della retribuzione mensile, moltiplicata per i 24 mesi di praticata dequalificazione.
2.- Per la cassazione di tale sentenza (OMISSIS) Spa ha proposto ricorso per cassazione con 5 motivi. Ha resistito con controricorso l’intimato, che ha comunicato memoria ex articolo 378 codice procedura civile.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3.- I motivi di ricorso possono essere cosi’ sintetizzati:
omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in quanto la Corte di Appello non avrebbe proceduto al raffronto tra le mansioni svolte e le declaratorie contrattuali di riferimento, erroneamente ritenendo di poter ricondurre le mansioni svolte dal Sig. (OMISSIS) all’Area di Base e non all’Area Operativa (primo motivo);
violazione e falsa applicazione degli articoli 2103 e 1363 codice civile, “anche con riferimento agli articoli 37, 41, 43, 46, 47 e 53 del CCNL 26.11.1994 ed all’accordo integrativo del 23.5.1995 al CCNL (OMISSIS)”, dalle cui disposizioni emergerebbe come la volonta’ delle parti contrattuali era stata quella di superare le precedenti classificazioni attuando un accorpamento delle precedenti categoria in aree, ed attuando, all’interno di esse, piena fungibilita’, rinviando per il concreto definitivo inquadramento al successivo accordo integrativo, in base al quale il personale addetto a mansioni tecniche poteva essere chiamato a svolgere mansioni di gestione (secondo motivo);
omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio rappresentato dalla ristrutturazione della organizzazione aziendale attuata da (OMISSIS) Spa, nell’ambito della quale le mansioni cui era assegnato il (OMISSIS) erano state soppresse (terzo motivo);
violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 codice civile in quanto, in totale carenza di allegazioni in merito ai concreti danni subiti dal lavoratore ed in assenza di prova in merito alla effettiva sussistenza dei danni denunciati, la domanda risarcitoria avrebbe dovuto essere rigettata, posto che il diritto del lavoratore al risarcimento del danno da dequalificazione professionale non puo’ conseguire in re ipsa al demansionamento ma deve essere rigorosamente provato (quarto motivo);
omessa motivazione su di un fatto controverso e decisivo rappresentato dalla carenza di prova in ordine al danno lamentato (quinto motivo).
4.- Il ricorso non puo’ trovare accoglimento.
4.1.- Il primo motivo e’ privo di pregio in quanto non e’ affatto vero che la Corte territoriale non ha proceduto al raffronto tra le mansioni svolte dal (OMISSIS) e le declaratorie contrattuali di riferimento, atteso che la sentenza impugnata, evidenziato che alla superiore Area Operativa appartengono “i dipendenti che svolgono attivita’ esecutive e tecniche presupponenti adeguata preparazione professionale con capacita’ di utilizzazione di strumenti semplici e complessi e richiedenti preparazione tecnico-professionale di parziale o media specializzazione e capacita’ di autonomia operativa nei limiti dei regolamenti di esecuzione”, mentre l’Area di Base e’ riservata ai dipendenti “che svolgono mansioni, manuali e non, che presuppongono conoscenze tecniche non specifiche o, se di natura amministrativa, tecnica o contabile, di mero supporto manuale o di contenuto puramente esecutivo”, ha ritenuto che “i compiti meramente manuali e ripetitivi, che non richiedono alcuna particolare qualificazione professionale”, assegnati al (OMISSIS) fossero riconducibili all’inferiore Area di Base.
Piuttosto la societa’ si duole di tale riconduzione, ma, come ribadito da questa Corte in controversia analoga alla presente (v. Cass. n. 20718 del 2013), trattasi di accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimita’ ove, come nella specie, le censura si limiti ad una generica doglianza circa il convincimento espresso dal giudice del merito, senza dimostrare il vizio di motivazione rilevante ai sensi dell’articolo 360 codice procedura civile, comma 1, n. 5.
4.2.- Parimenti infondato il secondo mezzo di gravame con cui si invoca la fungibilita’ delle mansioni all’interno della medesima Area, per espressa previsione contrattuale collettiva in seguito a riclassificazione del personale.
Sufficiente rilevare che la censura e’ inconferente rispetto al decisum, perche’, come innanzi ricordato, nel caso di specie la dequalificazione ritenuta dalla Corte territoriale non e’ avvenuta nell’ambito della stessa Area ma ha determinato l’attribuzione di mansioni proprie di un’Area inferiore (per analogo rilievo v. Cass. n. 16447/2013).
Inoltre da tempo ormai la giurisprudenza di questa Corte, sviluppatasi in controversie simili e qui condivisa, proprio partendo dalla decisione delle Sezioni Unite del 24 novembre 2006 n. 25033, ha ribadito che, pur in ipotesi di reinquadramento previsto dal contratto collettivo in un’unica qualifica di lavoratori precedentemente inquadrati in qualifiche distinte, permane il divieto di un’indiscriminata fungibilita’ di mansioni che esprimano in maniera radicale una diversa professionalita’ e che non consentano una sia pure residuale utilizzazione dell’acquisita professionalita’, qualora le ultime mansioni espletate non abbiano, con quelle spiegate in precedenza, affinita’ o analogia di sorta. Con la citata sentenza delle Sezioni Unite si e’ infatti affermato che – sebbene la contrattazione collettiva sia “autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilita’ orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilita’ funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalita’ potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullita’ del comma 2 della medesima disposizione (l’articolo 2103 codice civile, comma 1)” – ove non ricorrano tali peculiari esigenze, la garanzia prevista dal predetto articolo 2103 codice civile opera anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, dovendosi ribadire il principio di diritto che quest’ultima “deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dall’articolo 2103 codice civile, comma 1, che fa divieto di un’indiscriminata fungibilita’ di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalita’, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale”, cio’ in quanto “il baricentro della disposizione in esame (articolo 2103 codice civile), nella formulazione introdotta dallo Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970, cit.), e’ la protezione della professionalita’ acquisita dal prestatore di lavoro”.
Da cio’ deriva che anche in tema di riclassificazione del personale la societa’ (OMISSIS) non puo’ limitarsi ad affermare semplicemente la sussistenza di una equivalenza “convenzionale” tra le mansioni svolte in precedenza e quelle assegnate a seguito dell’entrata in vigore della nuova classificazione, dovendo per contro procedersi ad una ponderata valutazione della professionalita’ del lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale acquisito, e di una effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacita’ professionali del dipendente (Cass. n. 13714 del 2015; Cass. n. 13499 del 2014; R.G. n.: 545/2011 Cass. n. 4989 del 2014; Cass. n. 15010 del 2013; Cass. n. 20718 del 2013; in precedenza, parzialmente difformi, v. Cass. n. 6971 e n. 23763 del 2009).
Da ultimo, poi, sulla scorta di quella giurisprudenza secondo cui “e’ legittima l’attribuzione della nuova qualifica, risultante dal riclassamento, al lavoratore le cui mansioni siano rimaste immutate, mentre sarebbe illegittima l’assegnazione di nuove mansioni non coerenti con la professionalita’ di quest’ultimo, anche se equivalenti ad altre rientranti nella nuova qualifica attribuita a seguito del rilassamento” (Cass. n. 12821 del 2002; conformi: Cass. n. 1494 del 2003; Cass. n. 6614 del 2003; Cass. n. 7606 del 2003; Cass. n. 12251 del 2003; Cass. n. 18719 del 2004; Cass. n. 20983 del 2004), si e’ evidenziato come, in caso di nuovo assetto organizzativo disposto dall’imprenditore, comprensivo di una diversa classificazione del personale convenuta con le organizzazioni sindacali con la previsione di nuove categorie o aree professionali, destinate d accorpare mansioni comuni a piu’ profili professionali, una questione di violazione dell’articolo 2103 codice civile si pone se, in seguito al “riclassamento”, il lavoratore viene adibito a nuove mansioni, compatibili con le declaratorie della nuova classificazione ma incompatibili con la sua storia professionale (Cass. n. 19037 del 2015).
Pertanto – posto che per tutta la giurisprudenza richiamata l’equivalenza delle mansioni ex articolo 2103 codice civile costituisce oggetto di un giudizio di fatto operato dal giudice di merito, incensurabile in cassazione se sorretto da adeguata motivazione, sia sotto il profilo oggettivo, cioe’ in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sotto il profilo soggettivo, cioe’ in relazione alla affinita’ professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono quanto meno armonizzarsi con le capacita’ professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto di lavoro, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi – le conclusioni della Corte territoriale che ha accertato come il (OMISSIS) sia passato da mansioni di “qualificata natura tecnica… a ripartire lettere e stampe; caricare e scaricare sacchi contenenti corrispondenza; trasportare manualmente carrelli e cassette di corrispondenza; svuotare sacchi contenenti corrispondenza”, ritenendo una concreta dequalificazione del lavoratore, vanno certamente esenti dalle critiche che sono mosse sul punto.
4.3.- Con il terzo motivo si deduce che la Corte romana avrebbe trascurato il fatto controverso e decisivo per il giudizio rappresentato dalla ristrutturazione della organizzazione aziendale attuata da (OMISSIS) Spa, nell’ambito della quale le mansioni cui era assegnato il (OMISSIS) erano state soppresse; si invoca la giurisprudenza di legittimita’ per la quale l’adibizione a mansioni, anche inferiori, sarebbe legittima ove “essa rappresenti l’unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Parte ricorrente indebitamente sovrappone la questione della soppressione delle mansioni con l’impossibilita’ di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti: non sussiste un principio generale in base al quale, in caso di soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del lavoratore, si determini un “affievolimento” del diritto garantito dall’articolo 2103 codice civile.
In proposito occorre ribadire, come gia’ affermato da questa Corte (Cass. n. 1575 del 2010), che certamente la soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza puo’ giustificare l’esercizio dello ius variandi; tuttavia, “quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (tanto nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, che nel caso in cui le stesse siano esaurite), lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve attenersi alla regola della equivalenza”; tutt’altro problema “e’ costituito dalla eventuale mancanza di soluzioni in tal senso e quindi della necessita’ di estinguere il rapporto di lavoro o, in via alternativa, adibire il lavoratore a mansioni inferiori”.
La ricorrente, dopo aver riportato una serie di principi di legittimita’ pacifici, omette di indicare se e dove abbia allegato, prima ancora di provare, la circostanza che non vi fosse la possibilita’ di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e che, dunque, il demansionamento si’ presentava come l’unica alternativa alla perdita del posto di lavoro (cfr., in analoga controversia, Cass. n. 16447 del 2013)
4.4.- Gli ultimi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto attengono alla sussistenza del danno ed alla liquidazione operata dalla Corte territoriale; si sostiene che i giudici d’appello avrebbero considerato il danno da dequalificazione in re ipsa, in violazione di ben noti postulati giurisprudenziali.
Le censure non possono trovare accoglimento.
L’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralita’ di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale.
In particolare dal riconoscimento costituzionale della personalita’ morale e della dignita’ del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono; la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalita’ delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la societa’ in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. n. 12253 del 2015).
Quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialita’ – per non avere il bene persona un prezzo – del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non puo’ mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potra’ costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice (Cass. SS.UU. n. 26972 del 2008).
Certo, dall’astratta potenzialita’ lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro non deriva automaticamente l’esistenza di un danno, il quale non e’ immancabilmente ravvisabile solo in ragione di essa (Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006). Fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione – in ipotesi anche equitativa – sindacabile, in sede di legittimita’, soltanto per vizio di motivazione (in tal senso, v. Cass. n. 14199 del 2001; altresi’ : Cass. n. 9138 del 2011, Cass. n. 2352 del 2010, Cass. n. 10864 del 2009, Cass. n. 5333 del 2003; Cass. n. 10268 del 2002; Cass. n. 18599 del 2001, Cass. n. 104 del 1999).
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione e’ rimessa alla prudente discrezionalita’ del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (v. Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit; Cass. n. 7740 del 2007; Cass. n. 13546 del 2006).
Essendo tuttavia la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito possa di per se’ essere soggetto a controllo in sede di legittimita’, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorieta’ delle argomentazioni (cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n. 1529 del 2010; conforme, piu’ di recente, Cass. n. 18778 del 2014).
In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, puo’ desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entita’ in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualita’ e quantita’ della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalita’ colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. SS.UU.. n. 6572/2006 cit).
Nella specie la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi di fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalita’, avuto riguardo all’attribuzione di compiti esecutivi privi di particolare qualificazione, idonea non solo ad impedire il naturale sviluppo professionale, curato per anni anche con la partecipazione a corsi di formazione e addestramento, ma anche a compromettere irrimediabilmente il bagaglio di conoscenze tecniche gia’ acquisite dal (OMISSIS); si e’ altresi’ valorizzata la durata non esigua della dequalificazione e la lesione dell’immagine professionale per l’assegnazione di compiti riservati a dipendenti con qualificazione inferiore.
La Corte di Appello ha poi liquidato il danno medesimo stimando equo commisurarlo al 40% meta’ delle retribuzioni dovute per il periodo del demansionamento.
Gia’ questa Corte ha giudicato non privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno da violazione dell’articolo 2103 codice civile, posto che, indubbiamente, non puo’ negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione e’ il contenuto professionale delle mansioni sicche’ essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualita’ e quantita’, ai sensi dell’articolo 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione; l’entita’ della retribuzione ben puo’, dunque, essere assunta, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall’annientamento delle prestazioni proprie della qualifica (da ultimo: Cass. n. 12253 del 2015; in precedenza: Cass. n. 9228 del 2001; cfr. pure Cass. n. 7967 del 2002 e Cass. n. 835 del 2001).
In definitiva si tratta di un percorso motivazionale che, senza discostarsi da dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorieta’ delle argomentazioni, sorregge a sufficienza l’esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, idoneo a precludere la cassazione della sentenza impugnata sulla base delle censure che parte ricorrente agita.
5.- Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%, con attribuzione.
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