Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 4 gennaio 2018, n. 82. Demansionamento se il dipendente viene spostata in settori che non richiedono la professionalità acquisita in passato

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che con il primo motivo la ricorrente ha denunciato, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli articoli 2103 e 2697 c.c., nonche’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la Corte d’Appello aveva affermato la sussistenza di una situazione di demansionamento senza procedere all’esame delle mansioni svolte in concreto dalla (OMISSIS) (nel corso del giudizio di merito non era stata svolta alcuna attivita’ istruttoria rispetto al contenuto delle mansioni disimpegnate dall’attrice prima e dopo il mede di agosto dell’anno 2000. La sentenza di secondo grado si fondava su motivazioni apodittiche o addirittura inequivocabilmente smentite dalle risultanze processuali, senza che la Corte d’Appello avesse evidenziato i motivi per cui aveva ritenuto di discostarsi dalle medesime, parimenti quanto alle mansioni svolte dal settembre 2000. Per contro, (OMISSIS) si era offerta di dimostrare circostanze in base alle quali emergeva inequivocabilmente che l’attivita’ svola dalla lavoratrice non consistesse certamente nell’inserire dati su fogli elettronici… cfr. in particolo pagg. 20 – 27 del ricorso);
che con il secondo motivo – formulato ex articolo 360 c.p.c., n. 3 – e’ stata dedotta la violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c., lamentandosi vizio di ultrapetizione, laddove la Corte territoriale aveva affermato la sussistenza di un disagio esistenziale lavorativo, riconoscendo il risarcimento del danno da pregiudizio esistenziale, pero’ non ricompreso nelle domande avversarie;
che con il terzo motivo, concernente la operata liquidazione equitativa, e’ stata denunciata la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, degli articoli 1226, 2059, 2103 e 2697 c.c., nonche’ articoli 115 e 116 c.p.c. – ex articolo 360 c.p.c., comma 10, n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (la Corte di Appello, infatti, aveva accolto le pretese risarcitorie avversarie, ancorche’ l’attrice non avesse fornito la prova ne’ dell’esistenza delle voci di danno, ne’ della loro quantificazione, in violazione soprattutto del principio affermato da Cass. S.U. n. 6572/2006 circa l’impossibilita’ di ravvisare il danno per effetto del solo demansionamento);
che le anzidette censure vanno disattese per le seguenti ragioni, laddove in primo luogo va rilevata la inammissibilita’ della doglianza formulata con il secondo motivo ex articolo 360 c.p.c., n. 3, configurando la stessa per contro un error in procedendo circa il preteso vizio di ultrapetizione, che andava quindi ritualmente denunciato ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, univocamente in termini di nullita’, cio’ che invece difetta nel caso di specie (cfr. Cass. sez. un. n. 17931 del 24/07/2013, nonche’ in senso analogo tra le altre, pure con riferimento all’articolo 112 c.p.c., Cass. 1, civ. 24553 del 31/10/2013), peraltro riproducendo compiutamente gli atti processuali all’uopo rilevanti, essendo l’accesso diretto agli atti da parte di questa Corte anche nel caso di error in procedendo subordinato comunque al rigoroso rispetto di quanto in materia previsto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, (nn. 3 e 6);
che gli altri due motivi (1 e 3) appaiono inconferenti alla luce delle suesposte ampie e puntuali argomentazioni in base alle quali la Corte di merito ha ritenuto provato, come del resto sul punto anche opinato dal giudice di primo grado, l’allegato demansionamento, nonche’ riconosciuto il dedotto connesso danno, quindi equitativamente liquidato, tenuto pure conto dei principi affermati dalla succitata nota pronuncia delle Sezioni unite n. 6572 del 24/03/2006 (secondo cui in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non puo’ prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; di conseguenza, tra l’altro il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalita’ nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico.
Cfr. pure Cass. lav. n. 777 del 19/01/2015, secondo cui il c.d. danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del piu’ generale danno non patrimoniale, risarcibile ex articolo 2059 c.c., puo’ essere desunto in forza dell’articolo 115 c.p.c., comma 2, da massime di comune esperienza, incidenti sulla normale vita di relazione del diretto interessato.
5. ancora Cass. 3 civ. n. 13546 del 12/06/2006, secondo cui la prova del c.d. danno esistenziale puo’ essere data anche con presunzioni semplici (od “hominis”), strumento di accertamento dei fatti di causa che puo’ presentare anche qualche margine di opinabilita’ nell’operata riconduzione – in base a regole (elastiche) di esperienza- del fatto ignoto da quello noto, con il solo limite del principio di probabilita’, in base al quale non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarieta’ assoluta ed esclusiva, ma e’ sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilita’ con riferimento alla connessione degli accadimenti, la cui normale sequenza e ricorrenza puo’ verificarsi secondo regole di esperienza, basate sulrid quod plerumque accidit”, valutabile ex articolo 116 c.p.c., dal giudice, che con prudente apprezzamento puo’ pertanto ravvisare la non necessita’ di ulteriore prova al riguardo.

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