cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 20 maggio 2015, n. 20887

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo – Presidente

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 1056/2014 TRIB. LIBERTA’ di NAPOLI, del 25/07/2014;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;

sentite le conclusioni del PG Dott. Gioacchino Izzo, che ha chiesto rigettarsi il proposto ricorso;

Udito il difensore Avv. (OMISSIS), che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 25.7.2014 il Tribunale di Napoli rigettava la richiesta di riesame proposta da (OMISSIS) e per l’effetto confermava il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente emesso dal GIP di Napoli il 9.4.2014 limitatamente alla somma oggetto del mancato versamento IVA per gli anni 2009 e 2010, sottratta dalla cifra gia’ corrisposta – a titolo di restituzione dell’imposta IVA non pagata – a fronte della rateizzazione della somma richiesta dall’Agenzia delle Entrate da determinarsi a cura del PM in sede di esecuzione.

Il decreto era stato, invece, emesso fino alla concorrenza di euro 868.719,00 di una somma “in contanti, giacente su conti correnti, depositata presso istituti di credito ovvero di beni del valore ad esso equivalente”.

L’incolpazione provvisoria nei confronti dell’odierno ricorrente vedeva contestato allo stesso la violazione di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, per l’omesso versamento dell’IVA dovuta per gli anni d’imposta 2009 e 2010 da parte della (OMISSIS) srl di cui l’ (OMISSIS) e’ l.r.p.t..

2. Ricorre (OMISSIS), a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. Violazione di legge in relazione agli articoli 322 ter c.p., Legge 24 dicembre 2007, n. 244, articolo 1, comma 143, articolo 125 c.p.p., comma 3, e articolo 321 bis c.p.p..

Il ricorrente si duole che il GIP non abbia compiuto alcuna valutazione in relazione alla sussistenza del periculum in mora, aderendo ad una “reiterata giurisprudenza” secondo la quale la confiscabilita’ dei beni per equivalente “coincide col periculum senza che sia necessario provare, come previsto per le ipotesi di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 2, che le cose oggetto del vincolo reale esprimano per se’, ovvero per la relazione con il reato o con la pericolosita’ del soggetto, un ulteriore rischio in caso di disponibilita’”.

Proposta istanza di riesame avverso il decreto, la difesa dell’indagato ricorda di avere dedotto in quella sede (cfr. pag. 2 e ss. della memoria) la necessita’ che il giudice della cautela rivisitasse il versante del periculum in mora, alla luce del fatto che nel procedimento de quo esso doveva ritenersi certamente inesistente, poiche’ era in atti la prova che l’indagato, all’atto della ricezione dell’avviso di accertamento della violazione tributaria, aveva chiesto (ottenendo l’ammissione al pagamento) la rateizzazione del debito ed aveva cominciato ad onorarlo, versando gia’ cospicui importi alle scadenze stabilite dall’Agenzia delle Entrate. Ma il Tribunale del Riesame avrebbe del tutto eluso l’argomento, limitandosi a riprendere acriticamente le argomentazioni fatte proprie dal GIP all’atto dell’emissione del provvedimento di sequestro.

Viene rilevata la sostanziale inapplicabilita’ della prospettiva interpretativa fatta propria prima dal Gip e poi – forse implicitamente – da Tribunale del riesame, al caso de quo.

Si ricorda la giurisprudenza di questa Corte in ordine al periculum in mora nel sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, ma si evidenzia anche come l’indagato abbia in atto un percorso solutorio delle proprie pendenze con l’Erario tipizzato dal legislatore Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, ex articolo 60, che sarebbe frustrato dal sequestro in atto. In particolare vengono richiamate le sentenze di questa sez. 3 n. 10120/2011, n. 46726/2012, nonche’ la recente sez. 3 n. 6635/2014 che ha previsto la riduzione dell’importo del sequestro per le somme della rateizzazione versate. Si ricorda il dictum di questa Corte di legittimita’ secondo cui: “La determinazione del profitto suscettibile di confisca coincide, quindi, con l’ammontare della imposta evasa. Pertanto, la sanatoria della posizione debitoria con l’amministrazione finanziaria fa venire meno lo scopo principale che si intende perseguire con la confisca. Ne consegue che la restituzione all’erario del profitto derivante dal reato elimina in radice lo stesso oggetto sul quale dovrebbe incidere la confisca. In caso contrario si avrebbe appunto una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non puo’ mai essere superiore al profitto derivante dal reato” (cosi’ questa sez. 3, 11 marzo 2011, n. 10120).

Viene ricordato che, tuttavia, dopo avere affermato che e’ “innegabile che il raggiungimento di un accordo per la rateizzazione del debito tributario con l’amministrazione finanziaria non puo’ ritenersi esplicare i suoi effetti nel limitato campo amministrativo estendendo infatti la sua portata anche nel campo penale e, segnatamente, incidere sul quantum della somma sequestrata per equivalente in relazione al profitto derivato dal mancato pagamento dell’ imposta evasa”, questa Corte di legittimita’ non ha previsto l’incompatibilita’ tra la procedura di rateizzo ed il sequestro per equivalente, limitandosi a ritenere doverosa la riduzione del sequestro in misura corrispondente all’importo versato dal contribuente “ravvedutosi” (cosi’ questa sez. 3, 8.1.2014, n. 66355).

Tale posizione, secondo la tesi proposta in ricorso, deve essere sottoposta a revisione, soprattutto alla luce della giurisprudenza della Corte Edu di cui alla sentenza della Corte Europea in materia tributaria, emessa in data 20 maggio 2014 (Nykanen c. Finlandia), che statuisce il divieto di bis in idem fra sanzioni penali e sanzioni amministrative riconducibili alla “materia penale”, nonostante la loro diversa qualificazione nell’ordinamento interno.

Il diritto di non essere perseguito o condannato due volte per lo stesso reato, sancito in ambito comunitario dall’articolo 4 del protocollo 7 della CEDU e dall’articolo 50, della Carta di Nizza, si fonda infatti sull’identita’ del fatto – reato, cioe’ sulla coincidenza di quel fatto in senso storico naturalistico. Non importa invece la diversa qualificazione del fatto sul piano giuridico: in primis la differenza tra la sua classificazione come illecito penale da un lato e come illecito amministrativo dall’altro.

Secondo la Corte, le sanzioni amministrative tributarie, quando abbiano una finalita’ non soltanto risarcitoria, ma deterrente e punitiva, comportano per la loro applicazione le garanzie del giusto processo e del divieto di bis in idem, in quanto sono riconducigli alla materia penale.

Cosi’ la Corte Edu ha ritenuto che l’avvenuta applicazione al contribuente di una sanzione amministrativa tributaria (es. una soprattassa) impedisce di avviare o proseguire un procedimento penale per la medesima violazione ancorche’ diversamente qualificata dal diritto interno.

Non vi puo’ essere dubbio – continua il ricorrente – in relazione al fatto che nella fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, ci si trovi in presenza di una norma penale che punisce un comportamento, l’omesso versamento dell’IVA, gia’ punito come illecito amministrativo al momento dell’introduzione della fattispecie penale, dove la sola differenza tra i due tipi di illecito risiede nel fatto che quello penale si consuma con l’omesso versamento dell’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale entro il termine ultimo del 27 dicembre dell’anno successivo al periodo d’imposta considerato, mentre l’illecito amministrativo si consuma ad ogni mancato versamento periodico previsto dalla legge tributaria (Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13).

Cosi’ come nessun dubbio puo’ nutrirsi – secondo quanto si evidenzia in ricorso- in relazione alla natura della sanzione, che vorrebbe congiuntamente applicarsi sia in sede penale che tributaria: patrimoniale sia nella confisca per equivalente che nel meccanismo sanzionatorio di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 60. E, dunque, in conclusione, nel caso di rateizzo in corso, quando sia data la prova dell’intervenuta applicazione della sanzione patrimoniale e del volontario assoggettamento ad essa da parte del contribuente, appare illogico che egli debba sopportare l’ulteriore sanzione della confisca per equivalente che, per vero, pare, anche, indebitamente duplicare l’indennizzo locupletato dati Erario.

Sul punto viene ricordato che il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 19, prevede che “quando uno stesso fatto e’ punito da una delle disposizioni del titolo H e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la sanzione speciale”. Tale precetto, che nella lettura sistematica appena proposta sembra poter trovare una sua propria collocazione, viceversa degraderebbe secondo il ricorrente ad inutile orpello o a norma desueta nel caso in cui si volesse accedere alla tesi della reciproca indifferenza di sanzione penale e sanzione tributaria.

Non vi sarebbe dubbio, secondo la tesi proposta in ricorso, che il contemporaneo assoggettamento del contribuente ravvedutosi alla doppia sanzione penale e tributaria e l’esposizione del medesimo al rischio del sequestro per equivalente, nonostante egli abbia dato concreta prova – prima del sequestro – di onorare – ancorche’ tardivamente – il debito tributario e le annesse sanzioni rappresenti un’anomalia di sistema ed una ingiustizia sostanziale, che deve trovare una composizione.

Si contesta, sollecitando una piu’ attenta lettura del combinato disposto della Legge n. 143 del 2007, articolo 1, comma 143, articolo 322 ter c.p.p., e articolo 321 c.p.p., comma 2, la costante giurisprudenza di questa Corte che esclude debba darsi conto in motivazione del periculum in mora nel caso di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.

b. Violazione di legge – omessa motivazione dell’ordinanza impugnata (SS.UU. 29.5.2008 n. 25932).

Si lamenta che la decisione impugnata sia priva di motivazione alcuna, con cio’ concretizzandosi la violazione di legge, per quanto concerne il periculum in mora.

In particolare, non vi sarebbe alcuna motivazione in relazione al collegamento tra il bene sottoposto a cautela e il profitto del reato.

Chiede pertanto che questa Corte annulli l’ordinanza impugnata, con tutte le conseguenze di legge.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I proposti motivo sono infondati e pertanto il ricorso va rigettato.

2. Analizzando i motivi proposti in ordine sistematico occorre ricordare, innanzitutto, che l’articolo 325 c.p.p., prevede che contro le ordinanza in materia di riesame di misure cautelari reali il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per violazione di legge.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha, tuttavia, piu’ volte ribadito come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione cosi’ radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (vedasi Sez. U, n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov, rv. 239692; conf. sez. 5, n. 43068 del 13.10.2009, Bosi, rv. 245093).

Ancora piu’ di recente e’ stato precisato che e’ ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perche’ sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'”iter” logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato, (cosi’ sez. 6, n. 6589 del 10.1.2013, Gabriele, rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli articoli 416, 323, 476, 483 e 353 c.p., con riguardo all’affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarita’ amministrative).

Di fronte all’assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell’atto.

3. Cio’ premesso, ritiene il Collegio che nel caso all’odierno esame, come si andra’ a specificare, non si sia in presenza di un deficit motivazionale tale da configurare l’errata applicazione di norme di diritto.

Coerentemente con tale ambito di sindacato, ritiene peraltro il Collegio che in questa sede, comportando necessariamente delle valutazioni di merito inibite a questa Corte, non possa trovare una sua sede di valutazione la questione proposta dal ricorrente circa una sostanziale identita’ di oggetto tra il procedimento fiscale amministrativo e quello penale pendente a suo carico, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 649 c.p.p., come delineato dalle decisioni della Corte EDU Grande Stevens c. Italia 4/03/2014 e Nikanen c. Finlandia 20/05/2014. Non sembrerebbe esservi dubbio, secondo il ricorrente, circa la natura sostanzialmente penalistica della sanzione amministrativa comminatagli, atteso che la sanzione prevista dal Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, e’ pari al 30% dell’importo evaso.

Si ritiene, dunque, di operare la presente pronuncia nel solco dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui non e’ deducibile dinanzi alla Corte di Cassazione la violazione del divieto del “ne bis in idem”, in quanto e’ precluso, in sede di legittimita’, l’accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione e’ rimessa esclusivamente al giudice di merito (cfr. sez. 2, n. 2662 del 15/10/2013 – dep. 21/01/2014, Gallano, Rv. 258593).

Il Collegio, in tal senso, e’ consapevole dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto (cfr., da ultimo, in senso difforme dall’orientamento qui seguito: sez. 5, n. 44854 del 23.9.2014, Gentile e altro, rv. 261311; sez. 2, n. 33720 dell’8/7/2014 Nerini, rv. 260346; sez. 6, n. 44632 del 31.10.2013, Pironti, Rv. 257809), il quale ritiene che la violazione del divieto del “bis in idem” si risolva in un “error in procedendo” che, in quanto tale, consente al giudice di legittimita’ l’accertamento di fatto dei relativi presupposti, ma ritiene il primo orientamento piu’ rispondente alla ratio del giudizio di legittimita’ e correlato ai limitati poteri cognitivi della Suprema Corte, che sia.

Va peraltro ricordato che il principio del ne bis in idem sostanziale di cui all’articolo 649 c.p.p. (che non va confuso con il principio del ne bis in idem processuale previsto dall’articolo 669 c.p.p.) non trova una copertura testuale nella Costituzione italiana, bensi’ nelle fonti internazionali di tutela dei diritti e delle liberta’ fondamentali dell’uomo (in particolare nell’articolo 4, p.1, 7 Protocollo, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e nell’articolo 14, p.7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici). Infatti, due sono le principali e piu’ dirette conseguenze della irrevocabilita’ della sentenza: 1) una negativa, ed e’ il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona e’ stata, in relazione ad esso, gia’ condannata o prosciolta; 2) l’altra, positiva, e’ la forza esecutiva della decisione. Il disposto di cui all’articolo 649 c.p.p., ha un’efficacia preclusiva, impedisce cioe’ la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia gia’ oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex articolo 129 c.p.p..

Secondo il Collegio e’ evidente, dunque, che al fine di poter dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio sia necessario il soddisfacimento di ambedue i requisiti sopra descritti. Ed e’ altrettanto evidente che, soprattutto al fine di accertare la esistenza del primo di essi (ossia che si tratti del “medesimo fatto”), e’ necessario lo svolgimento di apprezzamenti fattuali che esulano dalle possibilita’ di accertamento “fattuale” consentite alla Suprema Corte di Cassazione nei casi indicati dall’articolo 606 c.p.p., lettera c).

Il principio, sostenuto dall’orientamento disatteso da questo Collegio, per cui il divieto del ne bis in idem puo’ essere rilevato anche in sede di legittimita’, infatti, deve essere raccordato alla norma che limita la cognizione della Corte di cassazione, oltre i confini del devolutum, alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto (articolo 609 c.p.p., comma 2.

Nel giudizio di legittimita’, infatti, e’ consentito, ex articolo 609 c.p.p., comma 2, superare i limiti del devolutum e della ordinaria progressione dell’impugnazione, oltre che di quelli di ammissibilita’ dei motivi nuovi da proporre nel ristretto ambito dei capi e dei punti oggetto del gravame, soltanto per violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello e per questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili in ogni stato e grado del giudizio.

Ne consegue, dunque, a differenza della possibilita’ di apprezzamento “fattuale” richiesta per il sindacato del ne bis in idem processuale di cui all’articolo 669 c.p.p., non possono diversamente essere proposte, nel giudizio di legittimita’, questioni attinenti al sindacato della violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale dettato dall’articolo 649 c.p.p., la cui valutazione richiede accertamenti di merito (ossia l’apprezzamento che si tratti del medesimo “fatto”, inteso in senso non processuale, ma sostanziale, ossia come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, facendo riferimento tale espressione all'”identita’ storico-naturalistica del reato, in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell’evento e nel rapporto di causalita’, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona”: Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 – dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799) che, come tali, devono essere necessariamente svolti nel giudizio di merito, salva la possibilita’ di sindacare i relativi provvedimenti, mediante un successivo ricorso per cassazione, nei limiti segnati dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e).

4. Vengono richiamati in ricorso i noti casi in cui la Corte EDU ha pronunciato condanne per la violazione del ne bis in idem in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto in materia tributaria.

Si tratta di un orientamento della Corte EDU piu’ volte affermato (cosi’ il citato caso Nika’nen e. Finlandia, ma vedasi anche Lucky Dev c. Svezia, Hakka c. Finlandia, Glantz c. Finlandia, Pirttimaki c. Finlandia). E cio’ non tanto in relazione alla nozione di matiere penale, i cui criteri di identificazione sono i medesimi da quasi quarantanni, ma in riferimento al concetto di medesimo fatto.

A partire dal revirement giurisprudenziale del 2009, con la sentenza Zolo-tukhin c. Russia, la Corte, per valutare se le due sanzioni di natura penale avessero ad oggetto il medesimo fatto, ha abbandonato ogni riferimento alla fattispecie incriminatrice, nel senso che non e’ il tipo legale a guidare il giudizio sul principio del ne bis in idem di cui all’articolo 4 prot. n. 7 della Convenzione, bensi’ l’identicita’ materiale e naturalistica del fatto. Poco importa, dunque, che le fattispecie (penal-amministrativa e penale) si differenzino sul piano della tipicita’. Cio’ che conta, per ritenere violato il divieto, e’ che l’effetto si risolva nella doppia punizione del medesimo fatto concreto.

Nella sentenza della quarta sezione della Corte EDU del 20 maggio 2014, nel ricorso n. 11828/2011, Nykanen c. Finlandia avente ad oggetto la violazione sostanziale dell’articolo 4 Protocollo n. 7 CEDU in materia di ne bis in idem il ricorrente Nykanen, accusato di avere ricevuto senza poi dichiararli, una somma di poco piu’ di 30.000 euro, era stato condannato a pagare una sanzione amministrativa (sovrattassa) di 1.700 euro. Per le medesime condotte si era altresi’ celebrato un processo penale per frode fiscale, all’esito del quale il ricorrente era stato condannato a dieci mesi di reclusione, oltre che al pagamento di una multa. Il Nykanen aveva lamentato la violazione dell’articolo 4 prot. n. 7 CEDU che statuisce il divieto di essere giudicati o puniti due volte in ambito penale, assumendo quindi che la condanna al pagamento di 1.700 euro, ancorche’ qualificata come amministrativa dal diritto nazionale, costituirebbe una sanzione di natura penalistica.

La Corte EDU ha analizzato, quindi, la possibilita’ di qualificare in tal senso la sovrattassa sulla base dei criteri di Engel – dal nome del ricorrente nel primo procedimento in cui essi furono riconosciuti – ossia: a) la qualificazione giuridica della violazione nell’ordinamento nazionale; b) la natura effettiva della violazione; c) il grado di severita’ della sanzione.

I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la sovrattassa dovesse qualificarsi come sanzione penale alla luce in particolare del secondo criterio, valutando determinante il fatto che la sanzione avesse una finalita’ repressiva e fosse diretta a tutti i consociati. Hanno affermato conseguentemente, che la condanna in sede penale avesse violato la disposizione ex articolo 4 prot. n. 7 CEDU, riconoscendo al ricorrente il danno morale e rinviando alle autorita’ finlandesi per la determinazione e liquidazione del danno conseguente alla detenzione connessa all’affermazione di responsabilita’ nel processo penale.

5. La situazione non e’ comparabile, evidentemente, con quella all’odierno esame, in cui al momento e’ noto solo che vi e’ una rateizzazione in corso per il pagamento dell’imposta evasa.

In altri termini, anche se ritenuta possibile in questa fase, non vi sarebbe stata comunque, alla luce di quanto allegato e dello stato del procedimento penale in atto, la possibilita’ di verificare la medesimezza del fatto (che, va evidenziato, e’ cosa diversa dalla medesimezza di comportamento).

Non va trascurato, peraltro, che il procedimento amministrativo “fiscale” finlandese all’attenzione della Corte EDU e’ stato ritenuto di natura penale in quanto volto alla punizione del colpevole e la sanzione formalmente amministrativa e’ stata ritenuta avere natura deterrente e non compensativa. Ma la stessa Corte di Strasburgo, una volta superata la barriera formale della qualificazione legale, ha indicato anche qual e’ il criterio per stabilire quando si proceda per lo stesso fatto illecito. Ed ha indicato – va ribadito- come essenziale la valutazione che si tratti degli stessi fatti.

E’ dunque assolutamente evidente che un tipo di valutazione siffatta non possa essere operata da questa Corte di legittimita’. E, per giunta, in ambito di un’impugnativa riguardante una misura cautelare reale.

Potra’ essere il giudice del merito ad operare tale valutazione. Non senza trascurare, evidentemente, che dalla sentenza Nykanen c. Finlandia emerge che si ha violazione del ne bis in jdem sostanziale quando i procedimenti (anche se nominalmente non coincidenti) accertino gli stessi fatti, ma siano anche indipendenti tra loro e si sviluppino in successione, ovvero in modo che uno dei due prosegua o inizi quando l’altro e’ divenuto definitivo.

Il che non accade, normalmente, nel nostro ordinamento, dove i due procedimenti sono paralleli e, come si dira’ di qui a loro, interagiscono tra loro, condizionando l’avvenuto pagamento del debito tributario l’entita’ della sanzione penale.

Va rilevato, infatti, che il nostro ordinamento nazionale, al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 19, 20 e 21, disciplina in maniera chiara i rapporti tra il sistema sanzionatorio amministrativo e tra i procedimenti penale e tributario, che dunque non sembrano essere totalmente indipendenti tra loro.

La medesima normativa prende espressamente in considerazione i rapporti tra pagamento del debito tributario e reato di natura tributaria prevedendo all’articolo 13, la speciale circostanza attenuante per cui le pene previste per i delitti ivi contemplati sono diminuite fino alla meta’, e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributane.

La norma precisa, al secondo comma, che a tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’articolo 19, comma 1, e al terzo che della diminuzione di pena prevista dal comma 1, non si tiene conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta con la pena pecuniaria a norma della Legge 24 novembre 1981, n. 689, articolo 53.

Si tratta di un beneficio di non poco conto, pur se ancorato ad un dato temporale ben delimitato (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado), che puo’ determinare in sede penale il pagamento del debito tributario, ivi comprese le sanzioni amministrative.

6. Al tempo stesso, come ricordato da questa Corte di legittimita’ nel condivisibile precedente di cui alla sentenza di questa sez. 3, n. 20266 dell’8.4.2014, Zanchi, rv. 251990 – peraltro precedente alla pronuncia della Corte EDU Nykanen c. Finlandia e che ha potuto tenere conto solo della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. 2, 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia, ric. n. 18640, 18647, 18663, 18668 e 18698/2010.- va valutato se il profilo della severita’ della sanzione tributaria italiana possa assurgere a quei livelli che la Corte EDU ha ritenuto necessari perche’ le si debba riconoscere natura penale.

E, soprattutto, andra’ tenuto conto che altro organo di giustizia comunitario, stavolta la Corte di Giustizia UE – cui, non va dimenticato, e’ affidato il compito di interpretare il diritto dell’UE perche’ esso venga applicato allo stesso modo in tutti i paesi dell’Unione- e’ in un recente passato intervenuta a chiarire la portata del principio del ne bis in idem di cui all’articolo 4, protocollo n. 7 della Cedu e 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea quando applicato a procedimenti penali con il responso “Frasson” C-617-10 del 26 feb-braio 2013.

E’ stato affermato in tale occasione che l’azione penale nei confronti di un contribuente accusato di frode finanziaria aggravata potesse essere accompagnata anche da sanzioni fiscali. E’ stato ritenuto possibile, infatti, per la Corte di Lussemburgo, in linea di principio, che esistano sovrattasse e sanzioni penali se queste afferiscono a fattispecie di diritto diverse. Gli Stati membri, dunque, secondo quel dictum, possono legittimamente ritenere che un cittadino sia assoggettabile, per lo stesso caso, a sanzioni fiscali e penali, con l’unico limite (ai fini della rivalutazione della eventuale natura penale delle sanzioni tributarie): a) di dover considerare la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale; b) di dover valutare la natura dell’illecito e il grado di severita’ della sanzione.

Cio’, coerentemente con la recente pronuncia delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con cui si e’ precisato (in quel caso in relazione al reato di omesso versamento di ritenute certificate di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, ma il discorso puo’ valere anche per quello all’odierno esame) che lo stesso si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale, non si pone in rapporto di specialita’ ma di progressione illecita con il Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, comma 1, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. Unite n. 37425 del 28.3.2013, Favellato, rv. 255759).

7. Risposto al primo profilo di doglianza, deve a questo punto rilevarsi che in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, puo’ essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato, (sez. 3, n. 23108 del 23.4.2013, Nacci, rv. 255446, nella cui motivazione la Corte ha precisato che il principio rimane valido anche dopo le modifiche apportate all’articolo 322 ter c.p., dalla Legge n. 190 del 2012; conf. sez. 3 n. 35807 del 7.7.2010, Bellonzi e altri, rv. 248618; sez. 3 n. 25890 del 26.5.2010, Molon, rv. 248058).

Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente (articolo 322 ter c.p.) puo’ essere applicato ai beni anche nella sola disponibilita’ dell’indagato, per quest’ultima intendendosi, al pari della nozione civilistica del possesso, tutte quelle situazioni nelle quali i beni stessi ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, ancorche’ il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (sez. 3, n. 15210 dell’8.3.2012).

Le Sezioni Unite hanno rilevato, in proposito, che non e’ rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di “profitto del reato” e che tale locuzione viene utilizzata in maniera meramente enunciativa nelle varie fattispecie in cui e’ inserita, assumendo quindi un’ampia “latitudine semantica” da colmare in via interpretativa (Sezioni Unite, 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti S.p.A. ed altri). In detta pronuncia (con riferimento alla confisca di valore prevista dal Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, articolo 19) sono state richiamate le consolidate affermazioni giurisprudenziali sulla nozione di “profitto dei reato” contenuta nell’articolo 240 c.p., secondo le quali: “il profitto a cui fa riferimento l’articolo 240 c.p., comma 1, deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato” (vedi Sez. Unite 24.2.1993, n. 1811, Bissoli; 17.10.1996, n. 9149, Chabni Samir).

Come affermato dalla condivisibile giurisprudenza di questa Suprema Corte, inoltre, in tema di reati tributari, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente prevista dalla Legge n. 244 del 2007, articolo 1, comma 143, va riferito all’ammontare dell’imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo; a tal fine, per la quantificazione di questo risparmio, deve tenersi conto anche del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario (cosi’ questa sez. 3, 23 ottobre 2012, n. 45849).

Va peraltro ricordato che in tema di misure cautelari reali, il Tribunale del riesame che proceda alla conferma del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, non deve accertare, ai fini del rispetto del principio di proporzionalita’, l’esatta corrispondenza tra profitto del reato e “quantum” sottoposto a vincolo cautelare, essendo, invece, sufficiente che motivi sulla non esorbitanza del valore dei beni sequestrati rispetto al credito garantito (sez. 3, n. 39091 del 23.4.2013, Cianfrone, rv. 257284).

Ne consegue che, laddove la valutazione del giudice risponda a tali criteri, essa e’ insindacabile in sede di legittimita’. Il provvedimento del tribunale del riesame che conferma il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente puo’ essere, infatti, ritenuto illegittimo nel solo caso in cui non contenga alcuna valutazione sul valore dei beni sequestrati; valutazione necessaria al fine di veri-ficare il rispetto del principio di proporzionalita’ tra il credito garantito ed il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, non essendo consentito differire l’adempimento estimatorio alla fase esecutiva della confisca (ex multis, sez. 3, 7 ottobre 2010, n. 41731).

8. In particolare, va sottolineato che l’IVA sottratta al fisco costituisce il profitto del reato (sez. 3 n. 25890/2010; Sez. Unite 38691/2009) e che in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, puo’ essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato, (sez. 3, n. 23108 del 23.4.2013, Nacci, rv. 255446, nella cui motivazione la Corte ha precisato che il principio rimane valido anche dopo le modifiche apportate all’articolo 322 ter c.p., dalla Legge n. 190 del 2012; conf. sez. 3 n. 35807 del 7.7.2010, Bellonzi e altri, rv. 248618; sez. 3 n. 25890 del 26.5.2010, Molon, rv. 248058).

Il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente prevista dalla Legge n. 244 del 2007, articolo 1, comma 143, va riferito all’ammontare dell’imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo; a tal fine, per la quantificazione di questo risparmio, deve tenersi conto anche del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario (cosi’ questa sez. 3, 23 ottobre 2012, n. 45849).

9. Nel caso in esame, come si diceva in precedenza, la motivazione del tribunale partenopeo c’e’ ed e’ congrua.

L’indagine era nata a seguito di una verifica fiscale operata dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Napoli, nei confronti della srl (OMISSIS) di cui e’ amministratore unico nonche’ l.r.p.t. (OMISSIS), all’esito della quale si accertava che lo stesso aveva omesso il versamento IVA per il periodo di imposta 2009 pari ad euro 2.882,00 e per quello successivo del 2010 per un importo pari ad euro 265.837,00, circostanza questa – tra l’altro – non contestata dalla stessa difesa.

Le emergenze di quella verifica hanno consentito ai giudici partenopei di ritenere, sulla scorta anche delle incontestate circostanze fattuali indicate dal Gip nell’ordinanza genetica, che fosse pienamente integrata la fattispecie delittuosa di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, che si consuma con i mancato pagamento dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore ad euro cinquantamila (rectius, euro 103.291,38 per i fatti fino al 17.9.2011 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 80 dell’8.4.2014) entro la scadenza del termine per l’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successivo.

Peraltro, e’ talmente incontestata l’omissione che, come ricorda il ricorrente, egli ha chiesto ed ottenuto la rateizzazione del debito tributario. E sta regolarmente pagando.

In punto di periculum in mora ritiene il Collegio di aderire a quel consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui n caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante sia la valutazione del “periculum” in mora – che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 1, – sia quella inerente alla pertinenzialita’ dei beni (cfr. sez. 2, n. 31229 del 26.6.2014, Borda, rv. 260367).

10. Altrettando condivisibile, ad avviso del I Collegio, e’ l’orientamento espresso da questa Corte di legittimita’ con una recente decisione (sez. 3, n. 46726 del 12/07/2012 – dep. 03/12/2012, Lanzalone, Rv. 253851; conf.: Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010 – dep. 11/03/2011, Provenzale, Rv. 249752) secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato, corrispondente all’ammontare dell’imposta evasa, puo’ essere legittimamente mantenuto fino a quando permane l’indebito arricchimento derivante dall’azione illecita, che cessa con l’adempimento dell’obbligazione tributaria.

La ratio legis contenuta nelle norme che prevedono il sequestro e la confisca per equivalente nei reati tributari, impone di ritenere che solo l’adempimento completo dell’obbligazione tributaria fa venir meno la ragione giustificativa della misura ablatoria, non rilevando quindi ai fini della revoca della misura la mera rateizzazione del pagamento (che rileva sul piano amministrativo – tributario determinando la sospensione della procedura esecutiva di recupero), non essendo questa un’ipotesi equiparata all’adempimento.

Tuttavia, come ben rileva la citata sentenza 46726/2012, se e’ ben vero che il mantenimento della misura ablativa e’ giustificato fino al momento in cui si realizza il recupero completo delle imposte evase a favore dell’amministrazione finanziaria, con corrispondente deminutio del patrimonio personale del contribuente (momento superato il quale non ha piu’ ragione di essere mantenuto in vita il sequestro preventivo), e’ altrettanto innegabile che il raggiungimento di un accordo per la rateizzazione del debito tributario con l’Amministrazione finanziaria non puo’ ritenersi esplicare i suoi effetti nel limitato campo amministrativo, estendendo infatti la sua portata anche nel campo penale e, segnatamente, incidere sul quantum della somma sequestrata per equivalente in relazione al profitto derivato dal mancato pagamento dell’imposta evasa.

Il mantenimento del sequestro preventivo in vista della confisca nel suo quantum iniziale, nonostante il pagamento – sebbene parziale – del debito erariale, darebbe luogo ad una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non puo’ mai essere superiore al profitto derivato (cfr. sez. 3, n. 3260 del 4.4.2012 – dep. il 22/1/2013, Curro, rv. 254679).

I giudici partenopei, dunque, fanno buon governo della richiamata giurisprudenza, da riaffermare, secondo cui in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non puo’ essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiche’, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non puo’ mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa (cosi’, di recente, questa sez. 3, n. 6635 dell’8.1.2014, Cavatorta, rv. 258903).

La stessa sentenza 6635/2014 appena richiamata ha peraltro chiarito che, analogamente, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all’imposta evasa non puo’ essere mantenuto qualora, a seguito di procedura coattiva di pignoramento presso terzi, intrapresa dall’agente della riscossione Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, ex articolo 72 bis, il debito di imposta sia stato integralmente adempiuto dal terzo debitore in luogo del contribuente effettivamente obbligato verso l’Amministrazione finanziaria, posto che, per effetto di questa operazione solutoria, non residua all’indagato alcun indebito arricchimento o vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa.

Evidentemente, dunque, man mano che paghera’ le rate concordate, l’ (OMISSIS) potra’ richiedere al giudice della cautela di ridurgli l’importo del sequestro in atto, cosa che ha gia’ fatto il Tribunale del Riesame di Napoli per gli importi pagati sino a quel momento.

11. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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