Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 22 dicembre 2016, n. 54531

Il sequestro preventivo dei cani è  legittimo: si tratta di cose pertinenti ai reati contestati la cui disponibilità da parte dell’indagato può protrarre la loro consumazione (Nel caso di specie per i reati di cui agli artt. 674 e 659 cod. pen.: secondo un esposto dei vicini di casa, i rumori e i cattivi odori presenti erano originati dai tre cani dell’indagata tenuti in cattive condizioni igieniche ormai da diversi anni (tanto che la B. era già stata condannata in primo grado per gli stessi reati commessi fino al 2012).

Suprema Corte di Cassazione

sezione III penale

sentenza 22 dicembre 2016, n. 54531

Ritenuto in fatto

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale del Riesame di Trieste, in accoglimento dell’appello del P.M. avverso l’ordinanza del G.I.P. dello stesso Tribunale che aveva respinto la richiesta di sequestro preventivo dei cani di B.L., disponeva il predetto sequestro.
B.L. è indagata per i reati di cui agli artt. 674 e 659 cod. pen.: secondo un esposto dei vicini di casa, i rumori e i cattivi odori presenti erano originati dai tre cani dell’indagata tenuti in cattive condizioni igieniche ormai da diversi anni (tanto che la B. era già stata condannata in primo grado per gli stessi reati commessi fino al 2012). Il G.I.P. aveva respinto due volte la richiesta di sequestro preventivo, osservando che la condotta non era strutturalmente collegata alla disponibilità dei cani, ma alla negligenza nella pulizia dei cortile dove essi dimoravano e nel contenimento della loro pulsione ad abbaiare; il Giudice aveva negato che i cani potessero essere considerati una cosa pertinente al reato e aveva aggiunto che il loro sequestro avrebbe costituito una sorta di sanzione preventiva; aveva, inoltre, ritenuto che le misurazioni fonometriche eseguite dall’A.R.P.A. del Friuli Venezia Giulia non fossero significative.
Secondo il Tribunale, sussisteva il fumus commissi delicti con riferimento ad entrambe le ipotesi di reato evocate dal P.M., come dimostravano le valutazioni espresse dalle Autorità Sanitarie e la motivazione della condanna in primo grado inflitta alla B.. Il fatto che, a sua volta, l’indagata potesse essere vittima di ritorsioni non rilevava per l’attribuibilità alla stessa della condotta contestata. Le misurazioni fonometriche erano ritenute attendibili e significative.
L’ordinanza riteneva i cani sottoponibili a sequestro preventivo, nonostante la loro detenzione fosse, di per sé, legittima: essi sono “cosa pertinente al reato”, giacché danno concreta occasione all’indagata di reiterare le condotte di reato per cui si procede; sussisteva il pericolo che la libera disponibilità degli animali consentisse la reiterazione dei reati.
2. Ricorre per cassazione il difensore di L. B., denunciando violazione di legge penale.
Il sequestro preventivo dei cani è legittimo solo in caso di loro maltrattamento; al contrario, gli animali di compagnia non possono essere considerati “cose pertinenti al reato”, in quanto esseri senzienti.
Il ricorrente contesta la presenza di fumus commissi delicti con riferimento alla contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen.: di per sé, l’abbaiare dei cani è un fatto naturale ed è frutto di istinto insopprimibile; sussiste il reato solo se esso sia continuo ed ininterrotto e tale da impedire il riposo notturno. Il Giudice, inoltre, aveva confuso la pluralità dei denuncianti con l’indeterminatezza delle potenziali persone offese, poiché il reato sussiste solo se l’abbaiare dei cani è tale da disturbare un numero indeterminato di persone.
Il ricorrente sostiene che le misurazioni dell’A.R.P.A. avrebbero dovuto essere eseguite nel contraddittorio e che comunque, atteso il periodo di tempo modesto di effettuazione, non sono significative. La stessa A.R.P.A., d’altro canto, aveva rimarcato che i valori limite previsti dalla legge quadro sull’inquinamento acustico non sono applicabili al caso in esame.
Non ricorrono nemmeno i presupposti dell’art. 674 cod. proc. pen., per la mancanza di pericolo per la salute pubblica, che costituisce la ratio dell’incriminazione; le emissioni, comunque, non superavano la normale tollerabilità. Si trattava, del resto, di singoli escrementi presenti nel cortile per un periodo di tempo ignoto. Il Veterinario Comunale aveva negato che dalla mancata pulizia del cortile emergessero problematiche di carattere igienico.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
3. Il Procuratore Generale, nella requisitoria scritta, conclude per il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
1. Questa Corte ha ripetutamente affermato che gli animali sono considerati “cose”, assimilabili – secondo i principi civilistici – alla res, anche ai fini della legge processuale, e, pertanto, ricorrendone i presupposti, possono costituire oggetto di sequestro preventivo (Sez. 2, n. 18749 dei 05/02/2013 – dep. 29/04/2013, Giacomello, Rv. 255761; Sez. 5, n. 231 del 11/10/2011 – dep. 10/01/2012, Capozza, Rv. 251700).
La distinzione che la ricorrente propone – il sequestro preventivo dell’animale sarebbe possibile solo per tutelarlo contro i maltrattamenti e non in altri casi – non ha alcun fondamento normativo positivo. Al contrario, proprio la previsione dell’art. 544 sexies cod. pen. costituisce una conferma normativa recente che gli animali possono essere soggetti a confisca (nel caso contemplato dalla norma, obbligatoria) e, quindi, a sequestro preventivo.
La ricorrente, in realtà, pretende di desumere la non sequestrabilità degli animali da argomentazioni che non hanno niente a che vedere con la violazione di legge (unico motivo per cui è ammesso il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame in materia di sequestri, art. 325, comma 1, cod. proc. pen.).
I passaggi logici esposti nel ricorso sono i seguenti: a) i cani sono esseri senzienti delle cui esigenze in materia di benessere gli Stati dell’Unione Europea devono tenere conto e a cui non possono essere cagionate pene, sofferenze ed angosce non necessarie; b) l’allontanamento dei cani dal loro padrone crea sicuramente uno stato di sofferenza nell’animale; c) la ricorrente ama teneramente i cani e non li sottopone ad alcun maltrattamento.
A ben vedere, riconoscere i cani come “esseri senzienti” – qualunque portata si voglia attribuire a tale espressione – non muta affatto, in maniera vincolante sul legislatore nazionale e sul giudice, il loro regime giuridico, tenuto conto che, rispetto a determinate specie animali, l’uomo ha sempre riconosciuto una capacità, maggiore o minore, di comprendere e di relazionarsi con l’uomo stesso.
Non è un caso, quindi, che il Trattato di Lisbona e la Convenzione di Strasburgo evocati dalla ricorrente altro non facciano che vietare l’inflizione agli animali di sofferenze non necessarie: divieto cui aveva già provveduto il Codice Zanardelli e nei decenni rafforzato sotto vari aspetti (per un excursus sulla legislazione su questo tema, cfr. Sez. 3, n. 44822 del 24/10/2007 – dep. 30/11/2007, Borgia, Rv. 23845701).
Ma la “necessità” cui parametrare la liceità della condotta violenta nei confronti dell’animale “senziente” è quella dell’uomo, e non quella dell’animale; né è proponibile qualsivoglia equiparazione tra le esigenze lecite dell’uomo e quelle dell’animale, così da giungere addirittura a ritenere la condotta umana sproporzionata per essere l’interesse che la muove meno importante della garanzia di benessere dell’animale: gli uomini sono superiori agli animali, sono padroni degli animali e li utilizzano per le loro esigenze, sia pure tentando di evitare loro sofferenze superflue perché non collegate al soddisfacimento dell’interesse umano.
Questa Corte, quindi, ha affermato che la situazione di “necessità” che esclude la configurabilità del delitto di danneggiamento o uccisione di animali altrui, comprende non solo lo stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen., ma anche ogni altra situazione che induca all’uccisione o al danneggiamento dell’animale per prevenire od evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno giuridicamente apprezzabile alla persona, propria o altrui, o ai propri beni, quando tale danno l’agente ritenga altrimenti inevitabile (Sez. 2, n. 43722 del 11/11/2010 – dep. 10/12/2010, Calzoni, Rv. 24899901; Sez. 2, n. 8820 del 15/02/2006 dep. 14/03/2006, Saddi, Rv. 23474301).
Ecco che la – comunque non dimostrata e niente affatto “pacifica e indiscutibile” – sofferenza dei cani derivante dall’allontanamento dal luogo dove vengono custoditi dalla ricorrente è priva di rilevanza rispetto alle esigenze umane che le norme penali di cui agli artt. 674 e 659 cod. pen. tutelano.
Il sequestro, per di più, produce la (non provata) minore sofferenza possibile per gli animali interessati, che non vengono né uccisi, né feriti o maltrattati, ma soltanto trasferiti in un diverso luogo di custodia. Infine, anche il sentimento che la ricorrente prova verso i propri animali – un dato che ha una qualche rilevanza giuridica, tenuto conto che viene evocato dal Titolo IX bis del Codice penale – non impedisce la loro sequestrabilità: il legislatore, infatti, pur riconoscendolo, non ha ritenuto di trarne un divieto di sequestro al fine di evitare una sofferenza al padrone degli animali; cosicché – in un bilanciamento questa volta possibile, trattandosi tutti di interessi umani – tale sentimento non può che cedere rispetto a quelli tutelati dalle norme penali già menzionate.
Il sequestro preventivo dei cani è pertanto legittimo: si tratta di cose pertinenti ai reati contestati la cui disponibilità da parte dell’indagata può protrarre la loro consumazione.
2. Le ulteriori argomentazioni della ricorrente sono in buona parte in fatto e riguardano la logicità della motivazione dell’ordinanza impugnata: sono quindi inammissibili in questa sede, essendo il ricorso ammesso solo per violazione di legge.
Ciò vale, in primo luogo, per la contestazione circa la produzione di rumore da parte degli animali di tale entità da integrare il reato di cui all’art. 659 cod. pen.; su questo punto si deve soltanto osservare che la norma incriminatrice impone ai padroni degli animali di “impedirne lo strepito”, cosicché non può essere invocato un “istinto insopprimibile” del cane per sostenere l’insussistenza del reato.
Questa Corte ha già affermato, in una fattispecie identica (proprietario di cani, tenuti in un giardino recintato, che non aveva impedito il loro continuo abbaiare, tale da arrecare disturbo al riposo delle persone dimoranti in abitazioni contigue), che per l’integrazione del reato previsto dall’art. 659 cod. pen. è sufficiente l’idoneità della condotta ad arrecare disturbo ad un numero
indeterminato di persone, non occorrendo l’effettivo disturbo alle stesse (Sez. 1, n. 7748 del 24/01/2012 – dep. 28/02/2012, Giacomasso e altro, Rv. 252075).
Nessuna violazione di legge sussiste, poi, quanto all’affermazione della sussistenza dei fumus commissi delicti della contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen., atteso che, anche in questo caso provvedendo su fattispecie identica (imputato che, non provvedendo ad adeguata pulizia dei recinti in cui custodiva i propri cani e dei cortile circostante, mantenendovi a lungo le deiezioni degli animali, aveva provocato esalazioni maleodoranti in grado di arrecare molestie ai condomini confinanti), questa Corte ha ritenuto che la contravvenzione prevista dall’art. 674 cod. pen. sia configurabile anche nel caso di emissioni moleste “olfattive” che superino il limite della normale tollerabilità ex art. 844 cod. civ. (Sez. 3, n. 45230 del 03/07/2014 – dep. 03/11/2014, Benassi, Rv. 260980); non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea a molestare le persone (Sez. 3, n. 971 del 11/12/2014 – dep. 13/01/2015, Ventura, Rv. 261794); inoltre il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015 – dep. 23/03/2015, Pippi, Rv. 262711).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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