cassazione 7

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 3 febbraio 2016, n. 4404

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 2/10/2013 la Corte di Appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Teramo in data 13/4/2012, previo riconoscimento all’imputato delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, ha ridotto in termini ritenuti di giustizia la pena comminata all’imputato C.G. , confermando nel resto l’affermazione di penale responsabilità dello stesso in ordine al contestato reato di cui agli artt. 81 cpv., 640, commi 1 e 2 n. 1, cod. pen..

In particolare si contesta all’imputato, quale amministratore unico della società ‘La Sangiorgio Pierà S.r.l.’, di avere posto in essere artifizi e raggiri ponendo indebitamente a conguaglio con i contributi dovuti all’INPS di Teramo le somme dovute ad alcuni dipendenti a titolo di indennità di malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, somme in realtà mai corrisposte, così inducendo in errore l’INPS circa l’effettivo ammontare delle somme dovute e procurandosi l’ingiusto profitto di complessivi Euro 4.453,91 per il 2008 ed Euro 38,56 per il 2009, con pari danno per la persona offesa.

Il reato risulta contestato come commesso in Teramo fino al 30/1/2009.

Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato, deducendo con unico articolato motivo la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per inosservanza e/o erronea interpretazione dell’art. 640, commi 1 e 2 n. 1, cod. pen. nonché dell’art. 1, commi 1 e 2, d.l. 633/1979 conv. con modif. dalla l. n. 33/1980 e dell’art. 37 l. 689/1981.

Rileva, in particolare, la difesa del ricorrente che il C. nel c.d. ‘Mod. DM10’ aveva correttamente rappresentato la propria posizione debitoria e creditoria nei confronti dell’INPS evidenziando nella denuncia contributiva il proprio debito nei confronti dei lavoratori per quanto riguardava le somme dovute a titolo di indennità di malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni.

L’imputato sarebbe quindi incorso in un mero errore (tale quindi da escludere il dolo) nell’applicazione dell’art. 1, commi 1 e 2, d.l. 633/1979 conv. con modif. dalla l. n. 33/1980 che prevede che all’INPS debbano essere comunicati i dati relativi alle prestazioni di malattia, assegni familiari e di maternità nonché quant’altro erogato e non già quelle che si riconosce di dover erogare ma che non sono state di fatto erogate.

Il tutto avrebbe quindi al più determinato una mera evasione contributiva ai sensi dell’art. 37 l. 689/1981.

Ora, poiché il credito dei lavoratori era esistente e l’imputato aveva l’obbligo di anticipare quanto ad essi dovuto per conto dell’INPS, sarebbe chiaro che il C. non avrebbe posto in essere dei raggiri nei confronti dell’Ente previdenziale evidenziando nella denuncia contributiva il proprio debito nei confronti dei lavoratori in relazione ad indennità che non erano di fatto state erogate e che egli aveva solo l’obbligo di anticipare, salvo conguaglio.

In punto di diritto deve solo essere aggiunto – prosegue la difesa del ricorrente -che l’INPS non risulta avere affatto risentito, a causa della condotta dell’imputato, di uno specifico danno di indole patrimoniale ovvero un depauperamento economico il che, anche sotto tale profilo, non consentirebbe di ravvisare il reato di truffa a carico del ricorrente.

Considerato in diritto

La vicenda posta all’esame di questa Corte è quella dell’amministratore di una società che, pur avendo omesso di corrispondere le somme dovute ad alcuni dipendenti a titolo di indennità di malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ha tuttavia portato le relative somme a conguaglio – negli appositi modelli DM10 – con quanto da lui dovuto all’istituto previdenziale per contributi previdenziali e assistenziali.

Sul punto, va ricordato che i modelli DM10 sono prospetti mensili con i quali il datore di lavoro è tenuto a denunciare all’I.N.P.S. le retribuzioni corrisposte mese per mese ai dipendenti, i contributi dovuti e l’eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell’ente, delle agevolazioni e degli sgravi; e ciò ai fini del versamento dei contributi dovuti.

Va anche ricordato che le somme spettanti al lavoratore per assegni familiari o indennità di malattia o di maternità costituiscono un debito dell’I.N.P.S. e non del datore di lavoro il quale, in forza del D.L. n. 633 del 1979, art. 1, è tenuto ad anticiparle, salvo conguaglio da effettuarsi tramite i suddetti modelli DM10. È chiaro peraltro che, mediante la falsa rappresentazione all’I.N.P.S. di aver erogato ai lavoratori somme in realtà non corrisposte, il datore di lavoro realizza sicuramente – o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare – l’ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che egli assume, contrariamente al vero, di aver anticipato.

La questione dell’inquadramento giuridico della suddetta condotta ha trovato, nella giurisprudenza di questa Corte, soluzioni diverse.

Secondo la giurisprudenza tradizionale, integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria (L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 37), la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva (Cass., Sez. 2, n. 42937 del 03/10/2012 Rv. 253646; Sez. 2, n. 11184 del 27/02/2007 Rv. 236131).

Secondo una più recente pronuncia, invece, nel caso di mancata corresponsione ad un dipendente, da parte del datore di lavoro, di indennità di malattia e assegni familiari portati comunque a conguaglio nei confronti dell’I.N.P.S., non ricorre il delitto di truffa per difetto dell’elemento del danno, potendosi ravvisare in astratto la configurabilità del reato di appropriazione indebita (Sez. 2, n. 18762 del 15/01/2013, Rv. 255194; citata anche nel ricorso qui in esame).

In particolare, in questa decisione, si sottolinea come la discordanza tra la situazione rappresentata all’I.N.P.S. e quella reale è idonea a procurare al datore di lavoro l’ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che egli assume di aver anticipato, ma non è idonea a determinare alcun danno dell’I.N.P.S., perché il lavoratore – per riscuotere le somme cui ha diritto – potrebbe rivolgersi solo al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta, e non all’I.N.P.S., avendo quest’ultimo – attraverso il conguaglio – adempiuto il suo obbligo. Non potrebbe, perciò, ravvisarsi il reato di truffa nella condotta del datore di lavoro, non potendo tale condotta cagionare alcun danno patrimoniale all’istituto previdenziale.

Secondo tale sentenza, nella condotta del datore di lavoro – che trattenga le somme indebitamente portate a conguaglio e fatte figurare come erogate al lavoratore in relazione a prestazioni di cui egli si è riconosciuto debitore per conto dell’ente previdenziale – potrebbe invece eventualmente configurarsi il reato di appropriazione indebita in danno del lavoratore.

Ritiene il Collegio – in senso conforme ad una recente decisione su di un caso analogo (Cass. Sez. 2, sent. n. 48663 del 17/10/2014, dep. 24/11/2014, Rv. 261140) – che nessuna delle due soluzioni sopra richiamate può essere condivisa quanto all’inquadramento giuridico della condotta del datore di lavoro nei confronti dell’I.N.P.S.. In particolare, il Collegio, pur condividendo la conclusione della sentenza da ultimo citata secondo cui nella condotta del datore di lavoro non è ravvisabile la truffa in danno dell’I.N.P.S. per difetto dell’elemento del danno patrimoniale, ritiene tuttavia che tale condotta vada inquadrata nella fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p.. Com’è noto, la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter (‘Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato’) punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, ‘Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640 bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità Europee’. Questa Corte ha già affermato che l’art. 316 ter c.p., configura un reato di pericolo, e non di danno (Sez. 6, n. 35220 del 09/05/2013 Rv. 256927), e che tale reato si distingue da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, sia perché la condotta non ha natura fraudolenta, in quanto la presentazione delle dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere costituisce ‘fatto’ strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri, sia per l’assenza della induzione in errore (Sez. 2, n. 46064 del 19/10/2012 Rv. 254354).

L’ambito applicativo del delitto di cui all’art. 316 ter c.p., è stato del resto approfondito sia dalle Sezioni Unite di questa Corte che dalla Corte costituzionale.

In particolare, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 95 del 2004, ha affermato il carattere sussidiario e residuale dell’art. 316 ter, rispetto all’art. 640 bis c.p., e ha precisato che, alla luce del dato normativo e della ratio legis, l’art. 316 ter, assicura una tutela aggiuntiva e ‘complementare’ rispetto a quella offerta agli stessi interessi dall’art. 640 bis, coprendo in specie gli eventuali margini di scostamento – per difetto – del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode. Ha quindi rinviato all’ordinario compito interpretativo del giudice l’accertamento, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie dell’art. 316 ter, integri anche la figura descritta dall’art. 640 bis, dovendosi, in tal caso, fare applicazione solo di quest’ultima.

Le Sezioni Unite, dal canto loro, sono intervenute con due importanti sentenze. Con una prima sentenza del 2007 (Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007 Rv. 235962), le Sezioni Unite, tracciando i confini tra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter, e quella di cui all’art. 640 bis c.p., hanno sottolineato – in linea con la menzionata ordinanza della Corte costituzionale – che l’introduzione nel codice penale dell’art. 316 ter, ha risposto all’intento di estendere la punibilità a condotte ‘decettive’ (in danno di enti pubblici o comunitari) non incluse nell’ambito operativo della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche; dimodoché, fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, vanno inquadrate nella fattispecie di cui all’art. 316 ter, le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore, con la conseguente compressione dell’art. 316 ter a situazioni del tutto marginali, ‘come quello del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale’. Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, hanno perciò affermato il principio secondo cui ‘vanno ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 316 ter – e non a quella di truffa -le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore per l’ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto’.

Con una più recente sentenza del 2010 (Sez. un., n. 7537 del 16/12/2010 Ud. – dep. 25/02/2011 – Rv. 249104), le Sezioni Unite sono poi tornate sul tema e, proseguendo sulla strada tracciata dalla propria precedente sentenza, hanno affermato il principio secondo il quale ‘L’art. 316 ter c.p., punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente’.

Valorizzando la collocazione topografica dell’art. 316 ter c.p., tra i delitti contro la pubblica amministrazione e considerando che gli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel testo della norma evidenziano chiaramente la volontà del legislatore di perseguire la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalità attraverso le quali l’indebita percezione si è realizzata, le Sezioni Unite hanno precisato il principio sopra enunciato nel senso che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 316 ter c.p., ‘nel concetto di conseguimento indebito di una erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perché anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità’ (nella specie, le Sezioni Unite hanno ritenuto che integra il delitto di cui all’art. 316 ter c.p., anche la indebita percezione di erogazioni pubbliche di natura assistenziale, tra le quali, in particolare, quelle concernenti la esenzione del ticket per prestazioni sanitarie ed ospedaliere).

Le Sezioni Unite, infine, muovendo dal rilievo che la peculiare fattispecie posta dall’art. 316 bis c.p. (‘Malversazione a danno dello Stato’) è rivolta specificamente a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalità per le quali sono stati erogati, hanno sottolineato che ‘l’art. 316 ter, sanziona la percezione di per sé indebita delle erogazioni, senza che vengano in rilievo particolari destinazioni funzionali’, qualunque sia – dunque – la destinazione o la mancata destinazione delle erogazioni indebitamente conseguite. Orbene, alla stregua di quanto detto, deve ritenersi che il delitto di cui all’art. 316 ter c.p., prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il delitto di truffa.

Ciò che è richiesto dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p., è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (ovvero l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, da cui derivi cioè il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto.

Tali erogazioni, poi, possono consistere indifferentemente o nell’ottenimento di una somma di danaro oppure nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta.

Così configurata la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p., nella latitudine riconosciutale dalla giurisprudenza, deve ritenersi che nella stessa deve essere inquadrata la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni.

Come si è detto, infatti, l’erogazione che costituisce elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 316 ter c.p., può consistere semplicemente nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, e non deve necessariamente consistere nell’ottenimento di una somma di danaro.

Il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’I.N.P.S. (sulla base dei dati indicati sui modelli DM10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto, venendo così – tramite il mancato pagamento di quanto altrimenti dovuto – a percepire indebitamente l’erogazione dell’ente pubblico.

Può ribadirsi, pertanto, il seguente principio di diritto: ‘Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316 ter c.p., la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, cosi percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni’.

Da ultimo, per completezza, va escluso che la condotta del datore di lavoro, come sopra configurata, possa inquadrarsi nella fattispecie criminosa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 quater.

Tale disposizione, inserita nel suddetto decreto legislativo che detta la ‘Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto’, nel prevedere il reato di ‘Indebita compensazione’, punisce con la reclusione da sei mesi a due anni ‘chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, crediti non spettanti o inesistenti’.

Si tratta tuttavia di una fattispecie criminosa che punisce l’indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti che abbiano natura tributaria; essa non è applicabile, pertanto, al caso sottoposto al giudizio di questa Corte, nel quale le somme portate a conguaglio dal datore di lavoro non hanno natura tributaria, ma corrispondono a prestazioni di natura previdenziale o assistenziale previste a vantaggio del lavoratore.

Alla stregua di quanto si è detto, il fatto contestato all’odierno ricorrente va qualificato secondo la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p.. Tuttavia non sfugge che trattandosi di contestazione per reato continuato ex art. 81 cpv. cod. pen. legato al fatto che, quantomeno all’epoca delle condotte in contestazione, i c.d. ‘Mod. DM10’ erano caratterizzati da prospetti mensili con i quali il datore di lavoro ebbe a denunciare all’I.N.P.S. le retribuzioni ai dipendenti, ai fini della corretta valutazione dell’eventuale superamento della soglia indicata dal comma 2 dell’art. 316 ter cod. pen. oltre la quale la condotta diventa penalmente rilevante non si potrà che tenere conto anche di tale profilo. Orbene, anche dal solo esame delle tabelle riportate nel capo di imputazione si evince chiaramente che mai fu mensilmente superata la soglia di 3.999,96 Euro con la conseguenza che le condotte ascritte al C. potrebbero determinare l’applicazione di una sanzione amministrativa ma non consentono di configurare la violazione dell’art. 316 ter cod. pen..

Da quanto sopra consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché, qualificato il fatto come violazione dell’art. 316 ter cod. pen., lo stesso non è previsto dalla legge come reato.

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