Cassazione 14

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 2 dicembre 2015, n. 24521

Ritenuto in fatto

B.L., B.G., B.M. e B.R. convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Alessandria, il fratello B.A. , con la di lui moglie F.G. e con i figli B.N.F. e B.D.L., unitamente alle rispettive mogli G.M. ed Gr.An..
Esposero che il (omissis) era deceduto ab intestato il loro padre B.N. ; che costui in vita aveva posto in essere una serie di atti dispositivi del suo patrimonio in favore del figlio A. , dei di lui figli N.F. e D.L. e delle rispettive mogli, con i quali si era spogliato di tutti i suoi beni; che tali atti dissimulavano altrettanti donazioni, da ritenersi nulle per difetto di forma prescritta. Chiesero, pertanto, quali eredi legittimi e legittimari di B.N. , che il Tribunale dichiarasse la nullità dei detti atti dispositivi, con conseguente restituzione dei beni che ne costituivano oggetto alla massa ereditaria ovvero dichiarasse la simulazione di tali atti e la loro riduzione ai fini della reintegrazione delle quote di legittima ad essi attori riservate; condannasse i convenuti a rendere il conto dei frutti percepiti su detti beni; in subordine, disponesse la riduzione delle donazioni eventualmente ritenute valide; condannasse in ogni caso i convenuti al risarcimento del danno.
Con separata citazione, gli attori proposero analoghe domande nei confronti di B.M. , altra figlia di B.A. , chiedendo l’annullamento degli atti dispositivi posti in essere dal de cuius in favore della stessa.
Le cause scaturite dalle due citazioni furono poi riunite.
2. – Si costituirono – con distinte comparse – da una parte B.D.L. ed G.A. e, dall’altra, B.A. e F.G. . Sostennero, in relazione agli atti nei quali risultavano rispettivamente acquirenti, di avere versato il corrispettivo in contanti come era stato loro richiesto dal de cuius, il quale poi aveva provveduto ad investire quanto incassato per le cure della seconda moglie, C.B. .
3. – Si costituirono successivamente anche B.N.F. e G.M., i quali, oltre a contestare le domande attoree, chiesero – proponendo domanda in via riconvenzionale – che il Tribunale dichiarasse la nullità delle donazioni effettuate in vita dal de cuius in favore dei figli B.R. e B.G. , con contestuale restituzione dei beni alla massa ovvero disponesse la collazione; dichiarasse la qualità di erede universale di B.N.F. , in forza di testamento pubblico del 21.1.1981 – pubblicato il 19.10.1998 (dopo la notifica dell’atto di citazione) – che contestualmente producevano e, perciò, il diritto del medesimo all’attribuzione di un terzo del patrimonio ereditario, come sarebbe stato ricostruito all’esito del giudizio. Infine, chiesero ed ottennero di chiamare in causa C.B., onde udire pronunziare, anche nei suoi confronti, la nullità delle donazioni dalla stessa ricevute, con ogni conseguente provvedimento.
4. – Anche C.B. si costituì, negando di aver mai ricevuto alcunché dal de cuius a titolo di liberalità, neppure in forma indiretta attraverso l’incarico di gestirne il denaro, essendo stato affidato tale incarico a F.G. , moglie di B.A..
5. – Il Tribunale di Alessandria dichiarò inammissibili e respinse tutte le domande, sia quelle attoree che quelle riconvenzionali.
6. – Sul gravame proposto in via principale dagli attori e in via incidentale da B.N.F. e G.M. , la Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 21.1.2009, dichiarò anzitutto la nullità della sentenza di primo grado, in quanto pronunziata dal Tribunale in composizione monocratica, anziché – come prescritto – in composizione collegiale; indi, in parziale accoglimento delle domande attoree, dichiarò che cinque atti di disposizione del patrimonio immobiliare del de cuius dissimulavano in realtà altrettante donazioni, che dichiarò nulle per difetto di forma; dichiarò che gli immobili oggetto degli atti nulli costituivano l’asse ereditario del defunto B.N. ; determinò le quote di riserva spettanti a B.L., B.G., B.M. e B.R., assegnando la restante parte del patrimonio ereditario all’erede universale B.N.F. nominato dal de cuius col testamento pubblico del 21.1.1981; infine rigettò o dichiarò inammissibili tutte le restanti domande.
7. – Per la cassazione della sentenza di appello hanno proposto ricorso (procedimento n. 6139/2010 R.G.) B.M., B.N.F. e G.M. sulla base di tre motivi. Altro ricorso è stato proposto separatamente (procedimento n. 6140/2010 R.G.) da B.A. e F.G. sulla base dei medesimi identici tre motivi.
Hanno resistito con controricorso B.L., B.G., B.M. e B.R..
B.D.L. e Gr.An. sono rimasti intimati.
I ricorrenti B.A. e F.G., nonché i resistenti B.G., B.M. e B.R. hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..

Considerato in diritto

– Preliminarmente, va disposta la riunione dei due procedimenti, avendo gli stessi ad oggetto ricorsi avverso la medesima sentenza.

– Passando all’esame del ricorso proposto da B.M., B.N.F. e G.M. nell’ambito del procedimento n. 6139/2010 R.G., va innanzitutto rigettata l’eccezione con la quale gli intimati hanno chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso e dei relativi motivi in ragione della loro genericità e non autosufficienza. Il ricorso, invero, contiene un’esposizione dei motivi e dei fatti di causa sufficientemente puntuale e completa, sicché complessivamente risponde in modo idoneo al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

2.1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 456, 457, 459, 554, 555, 558, 559, 587 cod. civ. e 99,100, 112 cod. proc. civ. Secondo i ricorrenti, gli attori sarebbero carenti di legittimazione e/o di interesse ad agire, non potendosi riconoscere loro la qualità di eredi legittimari né quella di chiamati all’eredità per il fatto di non aver chiesto la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima. Avrebbe perciò errato la Corte territoriale, da un lato, nel ritenere la qualità di eredi legittimari degli attori e nel non rilevare d’ufficio il loro difetto di legittimazione e/o di interesse ad agire, dall’altro nel ricomprendere nell’asse ereditario i beni immobili oggetto degli atti di disposizione dichiarati nulli in quanto dissimulanti altrettante donazioni.

Le censure non sono fondate.

Va premesso che gli attori hanno agito originariamente, quali eredi legittimi e legittimari del defunto, chiedendo di essere reintegrati nella loro quota di legittima, in rapporto ad una serie di atti dispositivi posti in essere dal de cuius, dissimulanti altrettanti donazioni.

Per effetto della condotta processuale dei convenuti – che hanno prodotto un testamento, pubblicato dopo l’inizio della causa, con il quale il defunto ha istituito suo unico erede il nipote Nicola Francesco – il quadro di riferimento della proposta azione di riduzione è venuto a mutare nel corso della lite: non più successione ab intestato, ma successione testamentaria.

È sorta dunque questione circa l’estensione della originaria domanda di riduzione delle donazioni anche alla disposizione testamentaria di istituzione di un unico erede e la Corte territoriale ha ritenuto che la domanda dovesse ritenersi estesa anche alla disposizione testamentaria, in quanto gli attori non avevano receduto dalla loro pretesa di ottenere la quota di eredità ad essi riservata ex lege.

La statuizione è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal collegio, che ha spiegato come “Gli artt. 554 e 555 c.c. non prevedono e regolano due distinte azioni, bensì un’unica azione, e cioè l’azione di riduzione, concessa ai legittimari, a tutela dei diritti che la legge ad essi riserva, qualora siano lesi da disposizioni testamentarie (artt. 554 c.c.) ovvero da donazioni (art. 555 c.c.), prevedendosi per entrambe che sono soggette a riduzione” (Cass. sez. 2, Sentenza n. 11873 del 1993, in motivazione).

L’unicità dell’azione trova conferma nella unitaria disciplina dettata, ai fini della trascrizione, dall’art. 2652 n. 8 cod. civ., per le domande di riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie per lesione di legittima; e trova altresì conferma nel fatto che con l’azione di riduzione non si impugna un atto in quanto nullo o annullabile, ma si chiede semplicemente la riduzione dello stesso, ossia che esso sia privato di efficacia giuridica nella misura sufficiente a reintegrare il diritto del legittimario.

Risulta pertanto conforme a diritto la valutazione della Corte territoriale secondo cui l’originaria domanda di riduzione delle donazioni deve intendersi estesa alla disposizione testamentaria sopravvenuta in corso di causa; non senza considerare che trattasi di profilo attinente alla interpretazione della domanda che – in quanto giustificato da motivazione esente da vizi logici e giuridici – è insindacabile in sede di legittimità.

Sul punto può affermarsi il seguente principio di diritto:

“Quando l’attore, quale erede legittimo e legittimario, ha proposto domanda di riduzione di atti di donazione lesivi della quota di riserva a lui spettante ai sensi degli artt. 536 e segg. cod. civ., legittimamente il giudice di merito, a seguito della interpretazione della domanda giudiziale, può ritenere che tale domanda si estenda anche alla riduzione delle disposizioni contenute nel testamento del de cuius che sia stato prodotto in corso di causa e di cui l’attore legittimario non conosceva l’esistenza, quando dal tenore della sua pretesa risulti che l’attore intenda comunque conseguire la quota di legittima spettantegli ex lege”.

Infondata è anche la censura relativa al preteso difetto di legittimazione ad agire degli attori.

Com’è noto, la legittimazione ad agire (legitimatio ad causam) si ricollega al principio dettato dall’art. 81 cod. proc. civ., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data – la verifica, anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo (con il solo limite della formazione del giudicato interno sulla questione) e in via preliminare al merito, della coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (Sez. U, Sentenza n. 1912 del 09/02/2012, Rv. 620484).

Tuttavia, la legittimazione ad agire – quale condizione dell’azione – si riduce all’ipotetica accoglibilità della domanda e sussiste, dal Iato attivo, allorché colui che propone la domanda si afferma titolare del preteso diritto e, dal lato passivo, allorché colui nei cui confronti è proposta la domanda è affermato, nella domanda medesima, come colui che ha violato il diritto vantato dall’attore. Orbene, trattandosi di condizione dell’azione, necessaria per ottenere una pronuncia nel merito sulla fondatezza della domanda, l’accertamento della sua sussistenza va compiuto ex ante, ossia con esclusivo riferimento a quanto affermato nella domanda, e non ex post, dopo aver accertato la fondatezza di quanto affermato nella domanda, perché altrimenti, con la pronuncia sul merito, il processo sarebbe già concluso.

Sul punto, va ribadito il principio già dettato da questa Corte, secondo cui la ‘legitimatio ad causam’, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in giudizio, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso (Sez. 3, Sentenza n. 14468 del 30/05/2008, Rv. 603170; Sez. 1, Sentenza n. 355 del 10/01/2008, Rv. 600878; cfr. anche Sez. 2, Sentenza n. 14177 del 27/06/2011, Rv. 618438).

Nella specie, non è dubbio che gli attori abbiano fatto valere la loro posizione di eredi legittimali del de cuius, chiedendo la reintegrazione della loro quota di legittima.

Deve ritenersi, pertanto, sussistente la legittimazione ad agire degli attori, considerato che l’azione di riduzione è concessa al legittimario in quanto tale – ossia in quanto ricompreso tra i soggetti indicati nell’art. 536 cod. civ. – e non in quanto erede, di modo che essa va riconosciuta anche al legittimario pretermesso (Sez. 2, Sentenza n. 16635 del 03/07/2013, Rv. 627105; Sez. 2, Sentenza n. 12496 del 29/05/2007, Rv. 597504); e peraltro, come rilevato dalla Corte territoriale, la qualità di legittimari degli attori non è stata contestata dai convenuti e, perciò, non poteva essere rilevata dal giudice d’ufficio.

Sul punto, va ribadito il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui la questione relativa alla legittimazione della parte nel processo può essere sollevata ed esaminata, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo stesso, ma solo in quanto in atti risultino i presupposti di fatto che tale legittimazione escludano, con la conseguenza che, qualora non sia contestata la qualità di erede, il giudice non può rilevare ex officio un difetto di legittimazione che non risulti già aliunde desumibile (Sez. L, Sentenza n. 12162 del 02/07/2004, Rv. 574066).

2.2. – Col secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla ritenuta simulazione dei cinque atti di vendita posti in essere dal de cuius, in quanto dissimulanti altrettante donazioni in favore dei congiunti.

Il motivo di ricorso va dichiarato inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis alla fattispecie (essendo stata la sentenza impugnata pubblicata prima del 4 luglio 2009, data della entrata in vigore dell’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ne ha disposto l’abrogazione), nel prevedere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione, dispone la declaratoria di inammissibilità del ricorso qualora, in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ. comma 1 un. 1, 2, 3 e 4, ciascuna censura, all’esito della sua illustrazione, non si traduca in un quesito di diritto, funzionale, anche alla luce dell’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza; mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ. n. 5 (per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si concretizzi in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria -ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Sez. L, Sentenza n. 4556 del 25/02/2009, Rv. 607177). Il quesito di diritto deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris, di un principio di diritto, che sia suscettibile di ricevere applicazione negli ulteriori casi analoghi oggetto di diverse controversie (Sez. U, Ordinanza n.2658 del 05/02/2008); mentre, quando sia dedotto il vizio della motivazione della sentenza impugnata (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.), è necessario che, a conclusione della esposizione della censura, sia formulato il c.d. ‘quesito di fatto’, ossia un apposito momento di sintesi, che ponga la S.C. in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore motivazionale commesso dal giudice di merito (Sez. 5, Sentenza n. 24255 del 18/11/2011, Rv. 620278).

Ciò posto, va rilevato che, nella specie, i ricorrenti non hanno assolto l’onere di formulare il c.d. quesito di diritto in relazione alla doglianza di violazione di legge, né hanno assolto l’onere di formulare il c.d. ‘quesito di fatto’ relativamente alla censura di vizio di motivazione; non rimane pertanto che prendere atto della inammissibilità del motivo in esame.

2.3. – Col terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1414, 1417, 2697, 2729 cod. civ. e 115, 116 cod. proc. civ.. Secondo i ricorrenti, la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che gli atti di disposizione inter vivos impugnati dissimulassero una donazione, non essendovi prova – neppure indiretta – della ritenuta simulazione, in quanto le presunzioni formulate dai giudici di appello non sarebbero né gravi né precise né concordanti e sarebbero in contrasto con l’id quod plerumque accidit.

La censura non è fondata.

La presunzione semplice (o prova indiretta), che trova base normativa nell’art. 2727 cod. civ., consiste in una illazione logica con la quale il giudice desume il fatto da provare (factum probandum o ‘fatto ignoto’) – che corrisponde al fatto giuridico costitutivo o impeditivo o modificativo o estintivo del diritto controverso oggetto della causa (c.d. ‘fatto principale’) – da un fatto giuridicamente irrilevante ma rilevante sul piano probatorio del quale abbia conoscenza, in quanto sia stato provato nel giudizio o costituisca fatto notorio o fatto non contestato o ammesso (c.d. ‘fatto semplice’, ‘fatto noto’ o indizio).

L’art. 2729 cod. civ., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 cod. proc. civ. a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunità sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, è possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilità più o meno alto, per l’esistenza del fatto principale.

Lo stesso art. 2729 cod. civ. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della ‘precisione’ va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica; il requisito della ‘gravità’ va riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della ‘concordanza’ richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Sez. L, Sentenza n. 11906 del 06/08/2003, Rv. 565726), anche se il requisito della ‘concordanza’ deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Sez. 5, Sentenza n. 17574 del 29/07/2009, Rv. 609153).

Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria;

successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Sez. 1, Sentenza n. 19894 del 13/10/2005, Rv. 583806). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Sez. 3, Sentenza n. 3703 del 09/03/2012, Rv. 621641).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza – come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 31/10/2011, Rv. 619955); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Sez. L, Sentenza n. 2632 del 05/02/2014, Rv. 629841).

Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 cod. civ.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Sez. 3, Sentenza n. 8023 del 02/04/2009, Rv. 607382; Sez.L, Sentenza n. 15737 del 21/10/2003, Rv. 567551; Sez. L, Sentenza n. 11906 del 06/08/2003, Rv. 565726; da ultimo, Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 101 del 08/01/2015, Rv. 634118).

Nella specie, la Corte territoriale ha congruamente motivato in ordine alla sussistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, tali da consentire di ritenere che gli atti dispositivi impugnati dissimulavano altrettante donazioni, richiamando in proposito quali fatti indiziarii i rapporti familiari privilegiati esistenti tra de cuius e acquirenti, le modalità attuati ve degli atti dispositivi, il prezzo esiguo rispetto al valore dei beni, le modalità di pagamento asseritamente avvenuto in contanti per centinaia di milioni di lire, le condizioni economiche degli acquirenti, la sparizione del denaro che sarebbe stato incassato dal de cuius, etc.

Trattasi di motivazione esente da vizi logici e giuridici, conforme alle regole d’esperienza e all’id quod plerutnque accidit, che – in quanto tale – è insindacabile in sede di legittimità, non essendo in tale sede consentito al ricorrente in cassazione prospettare una possibilità o anche una probabilità di una spiegazione logica alternativa rispetto alla ricostruzione del fatto cui è pervenuto il giudice di merito.

2.4. – In definitiva, il ricorso proposto da B.M. , B.N.F. e G.M. deve essere rigettato.

– In ordine al secondo ricorso proposto da B.A. e F.G. , che ha dato luogo all’iscrizione del procedimento n. 6140/2010 R.G., trattasi di ricorso che va qualificato incidentale.

E invero, il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., indipendentemente dai termini (quello breve e quello lungo) di impugnazione in astratto operativi. Tale principio non trova deroghe riguardo all’impugnazione di tipo adesivo che venga proposta dal litisconsorte dell’impugnante principale e persegue il medesimo intento di rimuovere il capo della sentenza sfavorevole ad entrambi, né nell’ipotesi in cui si intenda proporre impugnazione contro una parte non impugnante o avverso capi della sentenza diversi da quelli oggetto della già proposta impugnazione (Sez. L, Sentenza n. 5695 del 20/03/2015, Rv. 634799).

Ciò posto, va rilevato che il ricorso proposto da B.A. e F.G. presenta i medesimi motivi – contenenti le medesime argomentazioni – del ricorso principale proposto da B.M. , B.N.F. e G.M. . Stante l’identità dei motivi di ricorso, esso va parimenti rigettato, non rilevando l’esame della questione relativa alla tempestività dell’impugnazione.

– Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico di tutti i ricorrenti in solido e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi; condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 5.200,00 (cinquemiladuecento), di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Si da atto che il procedimento è stato scrutinato con la collaborazione dell’Assistente di studio Dott. Francesco Cortesi.

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