Cassazione 10

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 19 maggio 2015, n. 10202

Motivi della decisione

2) La Corte d’appello ha ritenuto che la quietanza rilasciata nel rogito valeva a liberare gli acquirenti da ogni debito, essendo richiamata la pienezza del saldo, con rinuncia del venditore all’ipoteca legale.

Ha osservato che era onere dell’attore fornire la prova della non veridicità della quietanza da lui rilasciata. Prova del tutto mancata, in assenza di riscontri contabili di pagamento. Ha infine richiamato la natura di confessione stragiudiziale della quietanza stessa, con efficacia di piena prova ex art. 2735 cc.

Il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1199 e 1414 ‘anche in relazione all’art. 1364 c.c.’.

Sostiene che la quietanza ha efficacia liberatoria solo per la somma specificata, circoscritta al quantum che, con essa, si attesta essere stato ricevuto.

Per avere portata più ampia dovrebbe emergere inequivocabilmente da essa un’abdicazione di ogni pretesa (dichiarazione liberatoria).

Nel caso di specie non vi sarebbe questa chiara volontà, perché la quietanza era inserita in una clausola contrattuale che indicava un prezzo simulato.

Questo il quesito di diritto: “Dica la Corte Suprema se è conforme a diritto estendere l’efficacia liberatoria della quietanza rilasciata con riferimento al prezzo simulato di un contratto di compravendita anche al maggior prezzo dissimulato, non menzionato in tale contratto”.

3) La censura è sia inammissibile che infondata.

Essa si muove in una prospettiva che non affronta la duplice ratio decisiva della sentenza impugnata.

I giudici di appello hanno in primo luogo chiaramente valorizzato che nell’atto di vendita non veniva solo accusata la ricezione del pagamento di 300 milioni di lire, cioè il prezzo indicato in atto, ma che il D. aveva rilasciato ‘ampie finali quietanze liberatorie di pieno saldo, con espressa rinuncia ad ogni diritto di ipoteca legale’.

Riportando la testuale dizione contrattuale, la Corte territoriale ha desunto da questa formula ‘la chiara volontà’ di attestare l’avvenuta integrale definizione ed estinzione ‘di ogni residua pendenza economica tra le parti’.

Invano parte ricorrente lamenta, denunciando una violazione di legge, che la valutazione della portata della quietanza liberatoria sarebbe erronea (ricorso pag. 6).

Come rilevato dal procuratore generale in udienza, questa censura avrebbe potuto e dovuto, in ipotesi, essere prospettata sotto il profilo del vizio di motivazione, cioè della ricostruzione fattuale del contenuto della dichiarazione espressa nella quietanza, interpretata come si è detto dalla Corte di appello.

4) Non pertinente è la censura svolta, peraltro prospettata senza farsi carico del fatto che ci si trova in presenza una quietanza titolata, cioè facente riferimento al rapporto fondamentale, quale è quella che abbia per oggetto il pagamento del ‘saldo prezzo’ di vendita di un immobile e contenga il riferimento al contratto di compravendita.

La Corte di appello infatti ha completato la motivazione della sentenza aggiungendo, con la citazione della massima di Cass. 4522/93, che “quando il venditore deduca che, nonostante nel contratto abbia rilasciato quietanza liberatoria per l’intero prezzo della vendita, aveva in realtà ricevuto parte del prezzo stesso, e chieda di provare tale assunto, non si è in presenza di una simulazione del negozio, neppure con riguardo al prezzo della compravendita, sicché l’ipotesi esula dalla disciplina degli artt. 1414 e ss. cod. civ., comportando soltanto l’indagine sulla verità della dichiarazione unilaterale del venditore di aver ricevuto il prezzo integrale”.

La Corte di appello ha pertanto rimproverato a parte attrice di non aver offerto la prova, che su di essa incombeva (cfr anche Cass. 5623/89), di non aver ricevuto l’integrale prezzo di settecento milioni di lire, circostanza smentita dagli elementi presuntivi dettagliatamente recensiti nella sentenza impugnata, e della relativa volontà di quietanzare solo parte del prezzo e non ‘l’intero importo realmente pattuito’.

Questi principi sulla assenza della prova richiesta e sull’onere della prova, fondamentale ratio della decisione, non sono stati oggetto di specifica censura.

Coglie quindi nel segno il rilievo di parte resistente, secondo la quale il quesito e le argomentazioni del ricorso non sono sufficienti ad attaccare la decisione.

5) Resta però da aggiungere, per completezza argomentativa, che, a prescindere dalla sua inconferenza, la linea interpretativa sostenuta in ricorso è contraria all’insegnamento delle Sezioni Unite sia in materia di simulazione contrattuale, scandita da Cass. 6877/02 e 7246/07, sia in tema di forza probatoria della quietanza.

Da ultimo Cass. 19888/14 ha infatti manifestato una sfumatura limitativa in ordine al valore probatorio della quietanza solo con riguardo alla c.d. quietanza atipica, contenuta nelle dichiarazioni di vendita degli autoveicoli indirizzate al conservatore del pubblico registro automobilistico. Ha però utilmente ribadito in motivazione, contraddicendo quindi le tesi di cui al ricorso, che a fronte di quietanza in forma tipica, cioè di atto rilasciato dal creditore al debitore, “al creditore quietanzante non è sufficiente, per superare la vincolatività della dichiarazione, provare di non avere ricevuto il pagamento, perché il modello di riferimento non è quello della relevatio ab onere probandi e dell’inversione dell’onere della prova che caratterizza le dichiarazioni ricognitive asseverative di diritti ex art. 1988 cod. civ.. Il creditore è ammesso ad impugnare la quietanza non veridica soltanto attraverso la dimostrazione – con ogni mezzo – che il divario esistente tra realtà e dichiarato è conseguenza di errore di fatto o di violenza. Fuori di questi casi, vale il principio di autoresponsabilità, che vincola il quietanzante alla coltra se pronuntiatio asseverativa del fatto dell’intervenuto pagamento, seppure non corrispondente al vero”.

Questo enunciato rende ancor più chiara la infondatezza del ricorso.

Discende da quanto esposto anche la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione delle spese di lite liquidate in Euro 4.000 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge e rimborso spese generali.

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