cassazione 5

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 16 ottobre 2014, n. 43341

 

Ritenuto in fatto

 

  1. Con sentenza del Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, in data 01.10.2012, S.F. veniva dichiarata responsabile dei reati di cui agli artt. 56, 629 cod. pen. (capo A), 61 n. 2, 582, 585, commi 1 e 2 cod. pen. (capo B), 610 cod. pen. (capo C), 61 n. 2, 624, 625 n. 7 cod. pen. (capo D), 81 cpv., 477, 482 cod. pen. (capo E), 81 cpv., 471 cod. pen. (capo F) e condannata alla pena complessiva di anni uno, mesi sei e giorni dieci di reclusione ed Euro 240,00 di multa.
  2. Avverso detta sentenza, nell’interesse della S. , veniva proposto gravame avanti alla Corte d’Appello di Napoli. Con sentenza in data 10.04.2013, la Corte d’Appello di Napoli, rigettando il gravame, confermava la sentenza di primo grado.
  3. Avverso la sentenza di secondo grado, nell’interesse della S. , veniva proposto ricorso per cassazione, lamentandosi:

– errata applicazione della legge penale (primo motivo);

– manifesta illogicità della motivazione (secondo motivo).

Con riferimento al primo motivo, ci si lamenta del fatto che non si fosse tenuto in considerazione che il reato di tentata estorsione con minaccia in danno del genitore non è punibile a norma dell’art. 649 cod. pen..

Con riferimento al secondo motivo, si censura la motivazione della sentenza impugnata non avendo la stessa commesso alcun reato in danno della madre (L.R.C. ) che da anni assiste la ricorrente nell’estenuante lotta alla tossicodipendenza, tanto più avendo la persona offesa provveduto a rimettere la querela sporta in danno della figlia: con la conseguenza che, all’esito della richiesta riqualificazione giuridica dei fatti, andava pronunciata sentenza di non doversi procedere per difetto di querela ovvero per intervenuta prescrizione.

 

 Considerato in diritto

 

  1. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, inammissibile.
  2. Peraltro, prima di passare alla trattazione dei singoli motivi di doglianza, si rende doveroso premettere come lo sviluppo argomentativo della motivazione della sentenza impugnata, da integrarsi con quella di primo grado, risulti fondato su una coerente analisi critica degli elementi di prova e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della sufficienza, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità della ricorrente in ordine ai delitti a lei contestati. La motivazione della sentenza impugnata supera quindi il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, alla quale non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva ‘finale’ del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Di contro, le censure di merito proposte dal ricorrente si profilano inammissibili posto che, con le stesse, si muovono non già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma solo sostanziali doglianze in fatto, non condividendosi dal ricorrente – in ultima analisi – le conclusioni attinte ed anzi proponendosi, di versioni più persuasive di quelle dispiegate nella sentenza impugnata.
  3. Con riferimento al primo motivo di doglianza, si afferma pacificamente in giurisprudenza (cfr., Cass., sez. 2, n. 5504 del 22/10/2013, dep. 04/02/2014, Piras, Rv. 258198; Cass., Sez. 2, n. 24643 del 21/03/2012, dep. 21/06/2012, Errini, Rv. 252832; Cass., Sez. 2, n. 12403 del 27/02/2009, dep. 19/03/2009, Freguglia, Rv. 244054) che l’esclusione dell’esimente per i delitti contro il patrimonio in danno di congiunti si riferisce, nel fare menzione dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, alle sole forme consumate e non anche a quelle tentate. Della stessa opinione è la dottrina per la quale il tentativo è una fattispecie di reato autonomo risultante dalla combinazione di una norma principale – fa norma incriminatrice speciale – e di una norma secondaria – quella sancita dall’art. 56 cod. pen., che ha efficacia estensiva -, le quali danno vita ad una nuova figura di reato, pur conservando il medesimo nomen iuris della figura corrispondente di delitto consumato.

Invero, la qualificazione del delitto tentato quale autonoma fattispecie di reato (rispetto a quello consumato) non risponde ad esigenze meramente classificatorie, ma produce rilevanti conseguenze pratiche nei casi in cui l’ordinamento ricolleghi determinati effetti giuridici alla commissione di reati specificamente indicati mediante l’elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori precisazioni, dovrà ritenersi che essi si producono esclusivamente per le fattispecie consumate e non anche per quelle tentate. Il principio va, peraltro, precisato nel senso che, tenendo al tempo stesso conto dell’autonomia delle ipotesi di delitto tentato, e del principio di tassatività della norma penale, desumibile, quale corollario del principio di legalità, dall’art. 25 Cost., comma 2 (in applicazione del quale il legislatore deve esplicitamente stabilire tutto ciò che rientri nella sfera del ‘penalmente lecito’ e tutto ciò che, al contrario, rientri in quella del ‘penalmente illecito’, con conseguente divieto di analogia in malam partem in diritto penale, sancito espressamente anche dall’art. 14 preleggi), deve ritenersi che gli effetti giuridici sfavorevoli, previsti con specifico richiamo a determinate norme incriminatrici, vadano riferiti alla sola ipotesi del reato consumato e non anche al tentativo, trattandosi di norme – quelle sfavorevoli – di stretta interpretazione, le quali, in difetto di espressa previsione, non possono essere analogicamente riferite alla figure di delitto tentato (cfr., in argomento, anche Cass., Sez. 1, n. 1036 del 15/04/1985, dep. 18/05/1985, Perrotta, Rv. 169309). Non sarebbe, pertanto, consentito, l’ampliamento per analogia in malam partem del novero dei reati per i quali la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen. non opera.

  1. Ciò premesso, la possibile esclusione della tentata estorsione dal novero dei reati per i quali opera la causa di non punibilità in argomento va valutata unicamente con riguardo all’ultima parte dell’art. 649, comma 3 cod. pen., che esclude la non punibilità di tutti i delitti (compresi quelli tentati) commessi con ‘violenza sulle persone’.

Nel caso di specie, peraltro, la S. è stata riconosciuta colpevole, con riferimento al capo A), di una tentata estorsione commessa con violenza alle persone (aggressione alla propria madre alla quale stringeva le mani intorno al collo), senza alcuna (ulteriore e diversa) condotta di minaccia e/o violenza sulle cose, condotte che – uniche – avrebbero potuto farsi rientrare nell’ambito di operatività della causa di non punibilità (nel medesimo senso, Cass., Sez. 2, n. 13694 del 15/03/2005, dep. 13/04/2005, Scibile, Rv. 231051; Cass., Sez. 2, n. 18273 del 19/01/2011, dep. 10/05/2011, Frigerio, Rv. 250083): da qui l’inoperativita nella fattispecie della dedotta causa di non punibilità.

  1. Pari manifesta infondatezza involge il secondo motivo di doglianza. Con riferimento ai reati commessi dalla S. in danno della madre (capi A, B e C, reati commessi in data 6.12.2011) in relazione ai quali è stata sollevata la censura, la sentenza di secondo grado fornisce adeguata motivazione in ordine all’affermazione della penale responsabilità della ricorrente. Invero, si legge in sentenza: ‘non è… dato sapere quale aspetto soggettivo possa concretamente valutarsi in questa sede al fine di un positivo riscontro delle prospettazioni difensive, finalizzate essenzialmente a ricondurre la fattispecie di cui al capo A) ad un semplice litigio tra l’imputata e la madre (per quanto non possa essere un litigio tra una madre ed una figlia tossicodipendente), uno dei tanti momenti difficili della vita della S. e della madre, ove si considerino le dichiarazioni, seppur sofferte, rese da quest’ultima nella pienezza del contraddittorio, puntualmente confermate dal verbale d’arresto delle prevenuta a cura dell’appuntato Sp. , che hanno consentito di riscontrare adeguatamente l’originaria ipotesi accusatoria. Ed a ritenere, pertanto, accertata oltre ogni dubbio ragionevole la dinamica del fatto in danno della L.R. che, aggredita con graffi al volto ed al collo, si vedeva costretta a ricorrere all’intervento dei C.C. di Avellino per sottrarsi alla violenza della figlia che, anche in presenza di detti verbalizzanti, e dopo aver messo a soqquadro la comune abitazione, seguitava a chiederle dei soldi per l’acquisto di droga mediante un sintomatico atteggiamento minaccioso (se non mi dai i soldi ti faccio vedere io che fine fai). Né, infine, può essere revocata in dubbio la coscienza e volontà di tale riprovevole condotta sulla scorta degli esiti peritali disposti al fine di verificare la sussistenza di un eventuale vizio parziale di mente dell’imputata atteso che costei non è risultata affetta da una cronica intossicazione dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti, tale da inficiarne e/o da escluderne la capacità d’intendere (e) di volere…’.
  2. Alla pronuncia consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

 P.Q.M.

 Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

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