Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 27 maggio 2017, n. 20193

Risponde di ricettazione l’imputato, che, trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, e quindi anche di telefoni cellulari, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine del possesso.

Ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dall’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta – quale che ne sia la natura, e quindi anche se si tratti di telefoni cellulari – da parte del soggetto agente.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA 27 maggio 2017, n. 20193

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Pescara, con sentenza emessa in data 29.1.2014, aveva assolto K.B. , in atti generalizzato, dal reato ascrittogli (ricettazione di un telefono cellulare di provenienza furtiva) per non aver commesso il fatto, per essere rimasta sfornita di prova certa la disponibilità del telefono cellulare di provenienza furtiva da parte dell’imputato.

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di L’Aquila ha rigettato l’appello del PG distrettuale, assolvendo ancora una volta l’imputato, ma – parzialmente riformando la decisione in quella sede impugnata – con la formula perché il fatto non costituisce reato.

Contro tale provvedimento, il PG distrettuale ha proposto ricorso per cassazione, deducendo plurimi vizi di motivazione (la Corte d’appello non avrebbe considerato che è impossibile utilizzare un telefono cellulare con schede anonime, e costituisce, pertanto, non sintomo di buona fede, bensì condotta necessitata, avere in ipotesi utilizzato un telefono cellulare con una scheda intestata a sé stesso oppure a soggetti terzi ma non anonimi; avrebbe, inoltre, inopinatamente omesso di valorizzare la mancata indicazione da parte dell’imputato del proprio dante causa, ritenendola circostanza irrilevante ai fini dell’affermazione di responsabilità, ma in tal modo ponendosi in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato).

All’odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica udienza.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato.

In difformità rispetto a quanto ritenuto dal primo giudice, la Corte di appello ha ritenuto ‘adeguatamente provato sul piano indiziario il fatto che sia stato l’imputato ad inserire la propria scheda telefonica nel telefono oggetto di furto’; ha, peraltro, ritenuto che fosse rimasta sfornita di prova ‘la circostanza, essenziale, che egli fosse consapevole della illecita provenienza del telefono, rubato circa cinque giorni prima che egli lo utilizzasse’.

Ciò premesso in fatto, e richiamato l’orientamento giurisprudenziale per il quale è possibile valorizzare, come prova dell’elemento soggettivo del reato, l’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale sarebbe sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede, la Corte di appello (citando la sola Sez. II, n. 13606 del 2010) ha ritenuto che il principio, sancito in tema di ricettazione di assegni, documenti d’identità o comunque beni mobili registrati, ovvero beni che hanno un regime di circolazione del tutto peculiare, perché non liberamente commerciabili, mal si attaglierebbe a beni come i telefoni cellulari, ormai costituenti ‘ordinariamente oggetto di compravendite e di scambi tra privati’, in relazione ai quali ‘il richiedere che sia l’imputato a dover giustificare il possesso di un bene che costituisce ordinariamente oggetto di compravendite e di scambi tra privati, tanto più quando, come nella fattispecie, vi è stato un uso sporadico, implicherebbe una inversione dell’onere probatorio che l’ordinamento non consente’.

2.1. Deve immediatamente rilevarsi che quest’ultimo rilievo confonde erroneamente profili di diritto, che saranno successivamente esaminati, e rilievi in fatto (quale quello riguardante l’uso sporadico del bene che si assumeva ricettato da parte dell’odierno imputato), al più valorizzabili a fondamento della decisione in singoli casi concreti, ma dai quali non è possibile desumere astratti principi suscettibili di assumere validità in assoluto.

D’altro canto, secondo la Corte di appello l’utilizzo di un telefono cellulare rubato con scheda intestata a proprio nome risulterebbe in fatto sintomatico di buona fede, ‘atteso che la nota tecnica del tracciamento IMEI dovrebbe indurre il ricettatore ad inserire nel telefono una scheda intestata ad altri o a persona addirittura inesistente, stante la facilità con cui si possono ottenere carte SIM dai vari gestori’.

3.1. Deve immediatamente rilevarsi che questi ultimi rilievi sono palesemente erronei (come correttamente osservato dal PG ricorrente, le leggi italiane attualmente vigenti non consentono il rilascio di schede SIM anonime), oltre che manifestamente illogici (presumendo che i criminali siano sempre e comunque soggetti tecnicamente avveduti, il che – per fortuna della Istituzioni – non è).

Sulla base di quanto premesso, la Corte di appello ha concluso che ‘in assenza di qualsivoglia elemento fattuale relativo alle modalità e alle circostanze dell’acquisto, non possa indiscriminatamente ricavarsi la consapevolezza della provenienza illecita del bene dal mero silenzio dell’imputato, ma che sia necessario, piuttosto, distinguere le fattispecie concrete in relazione all’oggetto della ricettazione’.

Con riferimento ai telefoni cellulari, o di altri beni mobili di comune commerciabilità, ‘ritenere che la mancanza di giustificazioni in ordine al possesso sia sufficiente per affermare la sussistenza del dolo’ significherebbe ‘operare una inammissibile inversione dell’onere della prova, poiché grava sulla Pubblica Accusa l’incombenza di produrre al giudice le prove a carico dell’imputato, anche le più complesse (come può essere quella dell’elemento soggettivo della ricettazione) o quantomeno i dati indiziari dai quali desumere la prova della responsabilità penale’.

Non potrebbe neanche sostenersi che colui che si trova nel possesso di un telefono cellulare rubato possa rispondere (in assenza di ogni contributo da parte sua all’accertamento delle modalità di acquisto) del reato di cui all’art. 712 c.p., ‘per la cui configurabilità è pur sempre necessario che si conoscano gli elementi e le circostanze dell’acquisto, poiché solo la previa conoscenza di tali dati di fatto può permettere al giudice di valutare se essi fossero, o meno, idonei a ingenerare il sospetto”.

La ricostruzione operata dalla Corte di appello degli orientamenti di questa Corte di legittimità è macroscopicamente erronea e lacunosa.

5.1. Erronea perché afferma che l’orientamento assolutamente dominante nella giurisprudenza di legittimità non sarebbe stato mai espresso con riguardo alla ricettazione di telefoni cellulari, non considerando le plurime decisioni – non necessariamente massimate, ma agevolmente reperibili negli archivi informatici di questa Corte – che il predetto orientamento hanno ribadito anche in riferimento alla predetta fattispecie (cfr., fra le molteplici, Sez. VII, n. 50288 del 21.10.2014, n.m.; Sez. II, n. 47407 del 17.10.2014, n.m.; Sez. II, n. 43546 del 15.7.2014, n.m.; Sez. VII, n. 42356 del 1.7.2014, n.m.).

5.2. Lacunosa perché non tiene conto dell’esistenza di plurime decisioni, anche delle Sezioni Unite, ed anche più recenti dell’unica citata, a sostegno dell’orientamento avversato.

5.2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (per tutte, fra le molteplici, Sez. I, n. 13599 del 13.3.2012, Rv. 252285; Sez. II, n. 29198 del 25.5.2010, Rv. 248265; Sez. II, n. 41423 del 27.10.2010, Rv. N. 248718; Sez. II, n. 29198 del 25 maggio 2010, rv. 248265; Sez. II, n. 50952 del 26.11.2013, Rv. 257983; Sez. II, n. 5522 del 22.10.2013, dep. 2014, Rv. 258624), ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, che costituisce prova della conoscenza dell’illecita provenienza della res, in quanto sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.

Il principio è stato più volte ribadito, e sempre nei medesimi termini, anche successivamente alla decisione della Corte di appello (Sez. II, n. 37775 del 1.6.2016, Rv. 268085; Sez. II, n. 43427 del 7.9.2016, rv. 267969; Sez. II, n. 52271 del 10.11.2016, Rv. 268643; Sez. II, n. 53017 del 22.11.2016, Rv. 268713, per la quale, in particolare, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dall’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta da parte del soggetto agente: ciò non costituisce una deroga ai principi in tema di onere della prova, e nemmeno un ‘vulnus’ alle guarentigie difensive, in quanto è la stessa struttura della fattispecie incriminatrice che richiede, ai fini dell’indagine sulla consapevolezza circa la provenienza illecita della ‘res’, il necessario accertamento sulle modalità acquisitive della stessa).

5.2.2. Tale motivazione non è censurabile, neppure sotto il profilo della violazione dei diritti della difesa tecnica, non potendo ritenersi che il ricorrente sia in tal modo gravato da un onere probatorio proprio dell’accusa.

5.2.3. Il principio è stato affermato anche con riguardo alla valutazione inerente alla corretta qualificazione giuridica del fatto accertato.

Si è, infatti, ritenuto che il mero possesso ingiustificato di cose sottratte consente la configurazione del delitto di ricettazione, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto.

All’elemento della contiguità temporale tra la sottrazione e l’utilizzazione delle cose sottratte, il giudice di merito, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, può, infatti, contrapporre, ai fini della qualificazione giuridica del fatto come ricettazione (e non come furto), l’assenza di indicazioni sul punto da parte dell’imputato.

Si è, inoltre, osservato che questo orientamento ‘non produce un’anomala inversione dell’onere della prova, né incide il diritto al silenzio dell’imputato. Si tratta, invece, della presa d’atto della impossibilità di provare la sottrazione in assenza di elementi che giustifichino l’inquadramento della detenzione come esito diretto del furto, piuttosto che come quello della ricezione di cose illecite. L’evidenza della detenzione per essere ridotta ad elemento di prova del reato di furto deve essere, infatti accompagnata dalla esistenza di ulteriori elementi indicativi della ‘immediata’ (nel senso letterale di ‘non mediata’) riconducibilità della detenzione al furto. Tra tali elementi possono essere ricomprese anche le eventuali indicazioni provenienti dall’imputato. A fronte della prova della detenzione la indicazione di tali elementi si prospetta come diretta all’inquadramento della condotta in fattispecie meno grave, fermo restando che l’accusato può scegliere di esercitare il diritto al silenzio, essenziale ed irrinunciabile declinazione del diritto di difesa’ (Sez. II, n. 43427 del 7.9.2016 cit.).

5.2.4. Osserva in proposito il collegio che non si richiede, in tal modo, all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non ad onere probatorio, bensì ad un onere di allegazione di elementi, che potrebbero costituire l’indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento (in tal senso, Sez. un., n. 35535 del 12.7.2007, in motivazione).

5.2.5. D’altro canto (Sez. I, n. 27548 del 17.6.2010, Rv. 247718; Sez. II, n. 45256 del 22.11.2007, Rv. 238515; Sez. II, n. 41002 del 20.9.2013, Rv. 257237), questa Corte è ferma anche nel ritenere che ricorre il dolo di ricettazione nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza.

Nel medesimo senso, le stesse Sezioni Unite (n. 12433 del 26.11.2009, dep. 2010, Rv. 246324) hanno confermato che l’elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto; in particolare, rispetto alla ricettazione, il dolo eventuale è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza.

Trattasi di orientamenti assolutamente consolidati, non adeguatamente considerati dalla Corte di appello, e dai quali non vi sono ragioni per discostarsi.

Né la Corte di appello indica convincenti ragioni per discostarsene in relazione alla peculiare fattispecie della ricettazione di telefoni cellulari i quali, pur se di uso comune, costituiscono comunque una res potenzialmente di apprezzabile valore, non necessariamente acquistabile ricorrendo ai canali ufficiali (essendone florido il mercato dell’usato), ma che nulla induce a ritenere poter essere scambiata con disinteresse tale da non consentire all’avente causa di ricordare le modalità dell’acquisto e l’identità del dante causa.

6.1. Ciò appare, in fatto, ancor più evidente nel caso in esame, nel quale è la stessa Corte di appello a ricordare che il furto del telefono cellulare ricettato risaliva a soli cinque giorni prima dell’accertamento di disponibilità in capo all’imputato: è, pertanto, assolutamente ragionevole ritenere che quest’ultimo potesse di necessità avere ricordi ‘vivi’ in ordine all’acquisto di esso.

6.2. Né, sempre in fatto, appaiono corrette le (pur diverse) argomentazioni espresse dal primo giudice a fondamento del proprio verdetto assolutorio: come riconosciuto dalla stessa Corte di appello, quanto alla materialità del reato, la disponibilità del telefono cellulare de quo da parte dell’imputato è indubbia, emergendo inequivocabilmente dalle (non sporadiche, ma) reiterate telefonate effettuate con esso utilizzando una SIM card intestata all’imputato.

La sentenza impugnata va, pertanto, annullata, con rinvio alla Corte di appello di Perugia che, nel nuovo giudizio, si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

– ‘risponde di ricettazione l’imputato, che, trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, e quindi anche di telefoni cellulari, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine del possesso”;

– ‘ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dall’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta – quale che ne sia la natura, e quindi anche se si tratti di telefoni cellulari – da parte del soggetto agente’;

– ‘in tema di ricettazione, ricorre il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza’.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Perugia per nuovo giudizio.

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