La canna fumaria non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova applicazione la disciplina di cui all’art. 907. Nel caso di specie le caratteristiche dei manufatti di cui si discute si tratta in sostanza di semplici tubi in materiale metallico
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Suprema Corte di Cassazione
sezione II civile
sentenza 23 maggio 2016, n. 10618
svolgimento del processo
1 Con sentenza 9.2.2011 la Corte d’Appello di Genova, in parziale accoglimento dell’impugnazione contro la sentenza 912/06 del Tribunale di Massa, proposto dai convenuti soccombenti C.A. , C.E. e F.L. nei confronti di R.D. , per quanto di stretto interesse in questa sede:
– ha respinto la domanda di rimozione di due canne fumarie avanzata dalla R. (capo A), dichiarando la soccombenza virtuale della parte appellante;
– ha respinto la domanda di risarcitoria in relazione ad un corpo di fabbrica realizzato dai convenuti sul confine (capo C) ordinando alla R. la restituzione della somma eventualmente incassata;
– ha respinto la domanda di rimozione di alcune tubazioni installate dai convenuti-appellanti (capo L).
Per giungere a tali conclusioni, la Corte genovese ha rilevato:
– che, come risultava dalla CTU, le due canne fumarie (capo A) erano state regolarizzate rispettando il PRG della città di Carrara sia sotto il profilo della dispersione dei fumi (stante l’allungamento verso l’alto) che sotto quello della distanza (non prevista dalla normativa locale), per cui il fumo non poteva creare danno alla abitazione adiacente;
– che la successiva edificazione in aderenza da parte della attrice aveva fatto venir meno ogni danno in relazione al corpo di fabbrica posizionato dai convenuti sul confine (capo C), per cui andava riformata la pronuncia di risarcimento danni emessa dal Tribunale;
– che da uno dei titoli allegati dagli appellanti era emersa la proprietà comune del suolo in cui erano state interrate le tubazioni (capo L) per cui la collocazione posta in essere dagli appellanti convenuti rientrava nell’uso legittimo del bene comune ai sensi dell’art. 1102 cc.
3 Contro tale decisione (sempre limitatamente ai capi A, C ed L) ricorre per cassazione la R. sulla base di quattro motivi a cui resistono con controricorso i C. – F. .
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cpc.
Motivi della decisione
1 Col primo motivo si denunzia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, violazione e falsa applicazione, quantomeno degli artt. 844, 890, 900 e 907 cc.: la Corte d’Appello, ad avviso della ricorrente, avrebbe omesso di dare rilievo al fatto che le immissioni provocate dalle canne fumarie sono di per sé nocive, prescindendo da ogni accertamento in concreto circa la tollerabilità dei fumi. Osserva che il criterio della tollerabilità di cui all’art. 844 cc non può essere sostituito da accorgimenti tecnici basati su una falsa rappresentazione della situazione di fatto e richiama in proposito la consulenza di parte, i rilievi fotografici e la richiesta di autorizzazione edilizia presentata al Comune dai vicini. Riporta le distanze delle canne rispetto alle finestre della sua abitazione e rispetto al muro di confine e rileva che rientrando le canne fumarie nella categoria delle costruzioni (vista la loro stabilità), devono essere poste alle distanze legali.
Ribadisce ancora la violazione degli artt. 907 e 890 cc evidenziando la dannosità delle canne in termini di “panorama”, esalazioni e “fastidiosi effetti di riflesso luce causati dalla rotazione degli elementi in alluminio”.
Rileva che le proprie finestre rappresentano vere e proprie vedute e non – come sostenuto con disinvoltura dalla Corte d’Appello – luci irregolari, richiamando in proposito la propria CT di parte redatta dall’arch. B. per sottolineare l’erroneità delle conclusioni del CTU Primavera sulla natura di luci irregolari attribuita alle predette aperture.
Richiama inoltre la violazione della normativa UN17129/1992 circa le zone di ristagno dei combusti e l’altezza rispetto al colmo del tetto vicino e il pregiudizio non solo al panorama, ma anche al decoro architettonico. Ritiene pertanto corretta la decisione del primo giudice che aveva ordinato la rimozione delle canne, mentre invece la Corte d’Appello ha basato il suo decidere solo sull’intervenuto innalzamento delle costruzioni.
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Innanzitutto è inammissibile perché in violazione del principio di autosufficienza (art. 366 n. 6 cpc) richiama, a sostegno della proprie tesi una pluralità di documenti e atti difensivi senza neppure allegarli al ricorso o trascriverne il contenuto (ciò dicasi per i molteplici riferimenti a fotografie, perizie, consulenze, richieste di autorizzazioni).
Per il resto la censura si rivela infondata.
Dal contenuto della citazione introduttiva (come riassunto a pag. 2 del ricorso) risulta dedotta “la sussistenza di due canne fumarie davanti alle finestre al primo piano della proprietà attorea a distanza inferiore a quella di legge”, il che induce senz’altro a ritenere che la doglianza sia stata formulata con riferimento alla violazione degli artt. 907 cc (distanza delle costruzioni dalle vedute) e 890 cc (distanze per fabbriche e depositi nocivi o pericolosi).
Ciò chiarito, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, la canna fumaria non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova applicazione la disciplina di cui all’art. 907 Sez. 2, Sentenza n. 2741 del 23/02/2012 Rv. 621675). Il Collegio ritiene di dare continuità a tale orientamento considerando le caratteristiche dei manufatti di cui si discute (si tratta in sostanza di semplici tubi in materiale metallico). Perde così consistenza ogni disquisizione sulla natura di luci o vedute.
Quanto al tema delle immissioni di cui all’art. 844 cc. la valutazione della tollerabilità, ove adeguatamente motivata, nell’ambito dei criteri direttivi indicati dal citato art. 844 cod. civ., con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005 Rv. 584408).
Nel caso che ci occupa la Corte genovese, sulla scorta degli accertamenti peritali, ha rilevato il rispetto del dettato del piano regolatore della città di Carrara sotto il profilo della dispersione dei fumi e ha escluso, per effetto dell’allungamento, il rischio di danni all’abitazione adiacente (v. pag. 6). Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo succinto ma adeguato e, come tale, incensurabile.
2 Col secondo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, violazione degli artt. 869 e 873 cc. La R. , evidenziando la costruzione del manufatto degli attori a distanza inferiore a quella regolamentare di dieci metri dal confine, richiama i principi di diritto sulla natura della normativa locale (integrativa del codice civile) osservando che la violazione delle distanze riguardava non solo il lato “S. “, ma anche il confine dal lato “monti” come accertato dal CTU che aveva anche quantificato il danno in Lire 8.000.000.
Il motivo è privo di specificità (366 n. 4 cpc).
È bene chiarire subito che, come risulta dalla sentenza impugnata (v. pag. 6) ed anche dal ricorso, il Tribunale aveva pronunciato solo una condanna risarcitoria in relazione alla costruzione sul confine di cui al capo C, peraltro conformemente alle conclusioni rassegnate dall’attrice stessa che, diversamente da quanto richiesto nell’atto introduttivo (ove aveva invece domandato l’arretramento: v. pag. 2 ricorso), aveva successivamente limitato la sua pretesa solo alla sola tutela risarcitoria (una somma di danaro di lire 20.000.000 “a titolo di risarcimento del danno determinato dalla costruzione del nuovo corpo di fabbrica a confine con l’attorea proprietà, realizzata ex adverso, a distanza inferiore a mt. 10,00 dal confine”: v. ricorso pag. 4 sub C e pag. 5).
Ciò posto, la Corte d’Appello non ha affermato che la costruzione dei convenuti fosse stata realizzata a distanza regolamentare, ma ha semplicemente osservato che la successiva edificazione in aderenza da parte della attrice abbia fatto venir meno ogni danno per l’immobile della stessa in relazione al preesistente fabbricato edificato dai convenuti. A questo punto, posto che – come si visto – si discuteva solo di danni e non più di una pretesa ripristinatoria (per effetto, come si è visto, della rinunzia dell’attrice), spettava alla R. di provare innanzitutto – per demolire l’affermazione dei giudici di merito – quale danno avesse ricevuto il suo immobile dalla nuova situazione di fatto venutasi a creare (esistenza di due fabbricati in aderenza sul lato “S. “), e di dimostrare altresì che sul lato “monti” insisteva una porzione di manufatto a distanza illegale dal confine, ma ciò non risulta: infatti, in violazione, ancora una volta, del principio di autosufficienza, la ricorrente si è limitata soltanto a richiamare la consulenza tecnica di ufficio senza allegare al ricorso le parti salienti dell’elaborato né, quanto meno, trascriverne fedelmente il contenuto per la parte riguardante il lato “monti”. Non spettando alla Corte di Cassazione l’accesso e la consultazione degli atti del processo, nessuna verifica è possibile effettuare in questa sede.
3-4 Col terzo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 n. 5 cpc, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Sempre riferendosi al manufatto realizzato a distanza irregolare dal confine, osserva la R. che la Corte d’Appello non solo non ha tenuto conto della violazione delle distanze, ma si è contraddetta perché per altri due manufatti pure realizzati dai convenuti sul confine “monti” (il barbecue e la voliera) aveva invece confermato la condanna all’arretramento a distanza legale.
Col quarto ed ultimo motivo si denunzia, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 5 cpc, la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione: dolendosi del rigetto della domanda di eliminazione delle tubazioni interrate di cui al capo L, la ricorrente rimprovera innanzitutto alla Corte d’Appello di non avere preso in considerazione il comportamento dei convenuti i quali non avevano mai sollevato eccezioni relative alla proprietà dello stradello o in merito all’avvenuta usucapione dello stesso. Sottopone poi a critica il convincimento della Corte genovese basato su uno degli atti di trasferimento dei convenuti (atto notaio Carrozzi del 1961) e, per dimostrare il diritto di proprietà esclusiva sulla zona di terreno interessata dalle tubazioni interrate, richiama stralci delle note tecniche, della relazione peritale e di un altro titolo di provenienza (l’atto per notaio Carrozzi del 1988), sottoponendo ad interpretazione l’atto del 1961 considerato dalla Corte territoriale ed altri atti di provenienza, con continui riferimenti alle planimetrie allegate. La Corte d’Appello – conclude la ricorrente – non avrebbe attribuito il significato letterale alle parole utilizzate dai contraenti nei contratti del 1961, 1979 e 1996 né al comportamento successivo, per cui rileggendo tutti gli atti notarili prodotti in corso di causa nonché le relazioni tecniche emerge chiaramente che i signori C. F. non sono mai stati proprietari dello stradello e di conseguenza hanno posizionato illecitamente le proprie fognature.
Queste due censure – che per il comune riferimento al vizio motivazionale ben si prestano a trattazione congiunta – sono prive di fondamento.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, anche a sezioni unite – ed oggi ribadito – la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (v. tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 17477 del 09/08/2007 Rv. 598953; Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997 Rv. 511208; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014 Rv. 629382).
Nel caso di specie, quanto alla asserita contraddittorietà della motivazione rispetto alla diversa sorte del barbecue e della voliera, la censura è inammissibile per difetto di autosufficienza perché non offre alcun elemento per verificare se effettivamente tali manufatti fossero stati collocati sullo stesso confine, non essendo consentito al giudice di legittimità di ricercare ed esaminare gli atti del processo (nel caso di specie, la relazione del CTU e la planimetria allegata): eppure, sarebbe bastato allegare al ricorso o quanto meno trascrivere fedelmente le parti di rilievo di tale elaborato.
Quanto, infine, alla questione delle tubazioni interrate, la lunga censura si risolve in una alternativa lettura di atti processuali continuamente richiamati ma – ancora una volta – mai allegati o quanto meno trascritti per le parti di rilievo: non è possibile dunque alcun controllo sull’esattezza dei rilievi a fronte di una motivazione che, invece, si rivela del tutto congrua, laddove desume la proprietà comune del terreno in cui si trovano i tubi dalla lettura di un titolo di proprietà dei convenuti e quindi ritiene legittimo ai sensi dell’art. 1102 lo sfruttamento del bene comune da parte dei comproprietari mediante collocazione di tubazioni interrate.
Del resto – e il discorso tronca definitivamente ogni ulteriore discussione – in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Sez. 3, Sentenza n. 2465 del 10/02/2015 Rv. 634161; Sez. 3, Sentenza n. 2074 del 13/02/2002 Rv. 552238).
In conclusione, le due ultime censure della ricorrente, lungi dall’evidenziare quell’insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione, si limitano ancora una volta a proporre una alternativa ricostruzione delle risultanze processuali sollecitando la Corte di cassazione ad una sorta di terzo grado di giudizio, attraverso la lettura degli atti del processo quali relazioni tecniche, planimetrie, titoli di provenienza, solo richiamati in ricorso, in palese violazione del principio di autosufficienza.
Il ricorso pertanto va respinto e la ricorrente, per il principio della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese di questo grado di giudizio.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 Per esborsi oltre accessori di legge.
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