Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 18 maggio 2015, n. 20460

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SIOTTO Maria Cristina – Presidente

Dott. NOVIK Adet Toni – rel. Consigliere

Dott. TARDIO Angela – Consigliere

Dott. CASSANO Margherita – Consigliere

Dott. MAZZEI Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 18337/2011 GIP TRIBUNALE di TORINO, del 02/04/2014;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK;

lette le conclusioni del PG Dott. Gabriele Mazzotta, che ha chiesto l’annullamento con rinvio.

RILEVATO IN FATTO

1. Con ordinanza del 2 aprile 2014 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, investito della richiesta di dichiarazione di estinzione del reato presentata da (OMISSIS), revocava d’ufficio la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilita’ concessa al medesimo con sentenza depositata in data 11 gennaio 2013 e ripristinava l’originaria pena inflitta per il reato di guida in stato di ebbrezza, di giorni 23 di arresto ed euro 530 di ammenda, in quanto risultava dalla relazione della responsabile che il medesimo aveva sovente disobbedito alle regole che gli venivano poste, mostrando “disprezzo e rabbia” per l’attivita’ che stava compiendo. Il condannato aveva ammesso di aver vissuto l’esperienza come una sostanziale “perdita di tempo” che doveva essere compiuta per un mero calcolo di convenienza.

Ad avviso del giudicante, gli atti di disobbedienza e di improduttivita’ dimostrati si ponevano in contraddizione con la ratio del beneficio, richiedente la presa di coscienza del disvalore del fatto compiuto e l’importanza del lavoro svolto come presa di coscienza del pericolo causato con la guida in stato di ebbrezza, cosicche’ veniva ritenuta non computabile la pena gia’ espiata quale lavoro di pubblica utilita’, con ripristino della pena sostituita e la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per il termine originariamente fissato.

2. Avverso tale decisione, ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto a mezzo del difensore di fiducia, per dedurre:

2.1 violazione del Decreto Legislativo n. 285 del 1992, articolo 186, comma 9 bis, e delle norme in tema di sanzioni sostitutive; vizio di motivazione in riferimento alla relazione redatta dalla responsabile. Il giudice non aveva applicato la Legge n. 689 del 1981, articolo 66, in tema di sanzioni sostitutive che, nel caso di violazioni delle prescrizioni inerenti la liberta’ controllata o la semidetenzione dispone che si tenga conto della pena gia’ espiata. Viene sottolineato che le motivazioni addotte nell’ordinanza richiamano il paradigma della messa alla prova nei procedimenti a carico dei minorenni, e non e’ applicabile alla prestazione del lavoro di pubblica utilita’. Pertanto, il ripristino della pena sostituita previsto dall’articolo 186 C.d.S., comma 9 bis, doveva essere effettuato computando come pene espiata il periodo lavorativo eseguito positivamente.

2.2. Peraltro, non era stato considerato che il condannato aveva recuperato le ore ritenute poco produttive e la stessa responsabile del centro aveva attestato l’effettivo compimento delle ore lavorative. Il ripristino integrale della sanzione sostituita avrebbe comportato una duplicazione della pena.

3. Il Procuratore generale ha chiesto di accogliere il ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso e’ fondato e deve essere accolto.

Questo Collegio ha gia’ esaminato, sotto altro aspetto, la questione di diritto sulla revoca della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilita’, applicata quale pena sostituiva ai sensi dell’articolo 186 C.d.S., comma 9 bis, ed in particolare sulla portata degli effetti del provvedimento di revoca della misura sostitutiva eventualmente adottato. Si e’ in proposito affermato, con decisione che questo Collegio nell’impostazione della questione condivide e fa propria (Sez. 1, Sentenza n. 42505 del 23/09/2014 Cc. (dep. 10/10/2014) Rv. 260131), che la normativa contenuta nel decreto legislativo 28.8.2000, n. 274 prevede, all’articolo 58, che per ogni effetto giuridico la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilita’ si considerano come pene detentive della specie corrispondente a quella della pena originaria. Si ha dunque riguardo a pene detentive e non a misure alternative alla detenzione, quali quelle previste dall’Ordinamento penitenziario, in cui la revoca della misura alternativa consegue all’accertamento della inidoneita’ del condannato ad essere risocializzato, essendo stata smentita la prognosi di rieducabilita’ formulata al momento della concessione della misura.

  1. Cosi’ come non e’ richiesto che il detenuto accetti di buon grado di scontare la pena inflittagli – salvo i riflessi che ne possono derivare in relazione ai benefici penitenziari -, allo stesso modo non e’ richiesto che chi e’ sottoposto allo svolgimento di lavoro di pubblica utilita’ presti una adesione maggiore, rispetto a quella la cui inosservanza puo’ integrare violazione, penalmente sanzionata, degli obblighi alla pena del lavoro di pubblica utilita’, ai sensi del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 56, comma 2.

3. Cio’ detto, viene fatto di sottolineare che la soluzione al quesito va trovata attraverso la considerazione preliminare che la revoca ex tunc del lavoro di pubblica utilita’ con ripristino integrale di quella sostituita, ponendo nel nulla una parte di pena gia’ espiata si risolve in una duplicazione di pena, in contrasto con l’articolo 13 Cost.. Il non tener conto del trascorso periodo di esecuzione del lavoro di pubblica utilita’ equivale, invero, all’applicazione di una sanzione per il comportamento tenuto dal condannato, in casi non previsti dalla legge (l’articolo 56 cit. punisce il condannato che viola reiteratamente senza giusto motivo gli obblighi o i divieti inerenti alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilita’).

Ma in un sistema costituzionale nel quale la liberta’ personale e’ solennemente qualificata come inviolabile e soffre restrizioni solo in presenza di particolari garanzie – puntualmente dettate nello stesso articolo 13 ed in una serie di altre disposizioni (articolo 24 Cost., comma 2, articolo 25 Cost., commi 2 e 3, articolo 27 Cost., e articolo 111 Cost., commi 1 e 2) – l’irrogazione di sanzioni che si aggiungano a quelle ritenute originariamente proporzionate al grado di responsabilita’ del soggetto non puo’ avvenire in assenza di un’ulteriore condotta violatrice, addebitabile a costui, che razionalmente le giustifichi (cosi’ Corte Costituzionale n. 343 del 1987). Occorre allora porre in rilievo due norme: quella (articolo 58 o, alternativamente, l’articolo 186 C.d.S., comma 9 bis) che, collegata al Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 54, prescrive i criteri di ragguaglio tra la pena detentiva ed il lavoro di pubblica utilita’, e quella della Legge n. 689 del 1981, articolo 66, che pur disciplinando due diversi istituti – la semidetenzione e la liberta’ controllata – esprime il principio generale, valido per tutte le misure alternative alla detenzione, secondo cui la violazione di una prescrizione inerente la specifica misura, comporta la conversione della restante parte di pena nella pena detentiva sostituita. Le direttrici delineate dalle due previsioni suindicate impongono di concludere nel senso che in caso di non corretta esecuzione – in termini di improduttivita’ – delle prescrizioni in materia di lavoro di pubblica utilita’, che non raggiungono il livello che determina l’applicazione della sanzione penale prevista dall’articolo 56, decreto suindicato, l’attivita’ di lavoro compiuta in precedenza, con esito favorevole, dovra’ essere apprezzata come espiazione della pena in quel particolare intervallo temporale; il periodo di lavoro residuo dovra’ essere tradotto in pena detentiva alla luce dei criteri di ragguaglio previsti dalla norma applicabile al caso concreto; la pena detentiva residua dovra’ essere espiata dall’interessato, una volta riconosciuta come non piu’ eseguibile la misura sostitutiva. In questo senso, l’utilizzo del sintagma “ripristino” contenuto nell’articolo 186, comma 9 bis cit. deve intendersi relativo alla natura della pena che dovra’ essere eseguita – cioe’, l’arresto -, ma non al quantum da eseguire, dovendosi considerare il periodo di lavoro di pubblica utilita’ gia’ espiato, che ha comportato significative limitazioni all’esercizio di una serie di diritti costituzionalmente garantiti. Soluzione tanto piu’ necessaria nel caso in esame in cui, come emerge indirettamente dall’ordinanza e espressamente dalla relazione inviata all’Ufficio U.E.P.E., anche se con alcune incomprensioni, vi e’ stato un integrale compimento delle ore lavorative, nella durata stabilita nel provvedimento (25 giorni per 50 ore complessive).

  1. L’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

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