Cassazione 11

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

Sentenza 16 settembre 2015, n. 37606

 

Ritenuto in fatto

 

1. Poco dopo le ore 17,00 del 2 dicembre 2011 E.M.H. , dopo aver trascorso il pomeriggio in un bar insieme a tale G.M. , in stato di ubriachezza si poneva alla guida della autovettura di proprietà del fratello, tipo Suv Mercedes ML, accompagnato dal predetto G. ; a cagione della guida gravemente imprudente, della velocità data all’automezzo e di alcune manovre palesemente imprudenti, due agenti della polizia municipale di Bolzano, impegnati in compiti di istituto, gli intimavano l’alt; l’imputato, anziché fermarsi, accelerava puntando l’automezzo verso gli agenti i quali, per evitare l’investimento, si buttavano l’uno da una parte l’altro dall’altra, ponendosi subito dopo all’inseguimento dell’autovettura; l’imputato proseguiva la sua corsa a forte velocità, superando un semaforo rosso, oltrepassando un dosso dissuasore ed un incrocio fino ad immettersi in una strada ad una corsia ed a senso unico, dove investiva il pedone A.G. mentre questi stava attraversando la strada; l’imputato, senza frenare, aveva tentato di evitare il pedone, sordo agli inviti del passeggero che gli urlava di fermarsi; in seguito all’urto la vittima veniva sbalzata con violenza contro un cassone ed il cordolo del marciapiede e le lesioni provocate per questo ne cagionavano la morte pressoché immediata; il guidatore, dopo aver urtato contro i veicoli parcheggiati sulla via spostandone sei, scendeva dall’auto dandosi alla fuga e veniva trovato pochi minuti dopo nel cortile di un limitrofo caseggiato mentre cercava di nascondersi.

Venivano acquisiti i resoconti degli agenti di polizia municipale, le dichiarazioni di numerosi testimoni, le riprese della videosorveglianza di un negozio posto a pochi metri dal luogo del sinistro, i rilievi eseguiti subito dopo l’investimento, con documentazione fotografica, rilievo topografico e dettagliato rapporto, mentre l’imputato veniva sottoposto a consensuale esame del sangue e prelievo delle urine, da dove si evidenziava, un’ora dopo il sinistro, un elevato tasso alcolemico, pari a 2,12 g/1 e la presenza di cannabinoidi.

Sulla base delle citate acquisizioni a carico di E.M.H. venivano contestati i seguenti reati: contravvenzione di cui all’art. 186 co. 1, 2 lett. C) e 2-bis C.d.S. per guida in stato di ebbrezza aggravata dall’incidente stradale mortale derivatone (capo a); delitto di cui all’art. 337 c.p. per violenza e minaccia nei confronti dei due vv.uu., pubblici ufficiali, al fine di opporsi ai loro compiti di istituto (capo b); omicidio volontario (art. 575 c.p.), aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p., per aver cagionato la morte di A.G. investendolo con la sua autovettura guidata in modo sconsiderato come da specifica descrizione del capo di imputazione (capo e); reato di cui agli artt. 81 c.p. e 189, commi 6 e 7 C.d.S. per non aver prestato soccorso al pedone investito dopo aver consumato i reati di cui ai capi c) ed a) (capo d); in Bolzano, nel tardo pomeriggio del 2 dicembre 2011.

All’esito del giudizio abbreviato, nel corso del quale si provvedeva ad una perizia di ufficio sulla dinamica dell’incidente, il Gup del Tribunale di Bolzano, con sentenza del 7 dicembre 2012, condannava l’imputato, riconosciuto colpevole di tutti i reati ascrittigli, con la sola eccezione di quello contestato al capo d) ai sensi del comma 7 dell’art. 189 C.d.S., ed applicata in suo favore l’attenuante del vizio parziale di mente, alla pena di anni 12 di reclusione, con le pene accessorie di legge e le statuizioni circa il risarcimento del danno in favore delle parti civili.

2. Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello l’imputato contestando la qualificazione della condotta operata in prime cure, la ricostruzione dell’incidente, la quantificazione della pena e le modalità del suo calcolo, la mancata concessione delle attenuanti generiche e la Corte di assise di appello di Trento, nella sezione distaccata di Bolzano, con sentenza del 18 novembre 2013 rigettava il gravame confermando ogni decisione di prime cure.
Il giudice di secondo grado, valutati gli esiti della perizia, verificato il punto dell’investimento ed il tempo di permanenza della vittima nel campo visivo dell’imputato, accertata la velocità del veicolo investitore e la circostanza che l’imputato neppure accennò ad un tentativo di frenata, ha confermato la qualificazione del reato nei termini dell’omicidio volontario sostenuto dal dolo eventuale, di conseguenza ha ribadito le ragioni del giudice di prime cure sul trattamento sanzionatorio ed ha infine rigettato l’eccezione difensiva circa l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 89 c.p..

3. Ricorre per cassazione l’imputato, assistito dal difensore di fiducia, il quale nel suo interesse sviluppa quattro motivi di impugnazione.

3.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente vizio della motivazione in relazione alla ricostruzione dell’evento, in particolare osservando ed argomentando: la corte, e prima di essa il giudice di primo grado, ha considerato prevedibile la presenza di pedoni in attraversamento della arteria cittadina ove avvenne l’investimento in forza della considerazione che di norma, nel tardo pomeriggio, le strade cittadine sono frequentate da numerosi cittadini; ciò dimostra che la corte medesima non ha considerato le ragioni sviluppate dalla difesa con i motivi di appello; collegare la prevedibilità circa la presenza di pedoni da parte di un automobilista sulla base dell’ora è illogico e priva di certe fondamenta l’imputazione in termini di dolo; il perito di ufficio indica in m. 4,5 il campo di avvistamento prima dell’impatto, mentre il consulente della difesa riduce tale spazio a m. 2,00; l’insanabile contrasto viene risolto dai giudici di merito in favore del perito con motivazione però destituita di fondamento; la stessa ricostruzione tratta dalle immagini riprese dalla telecamera evidenzia che l’urto è avvenuto al centro della via dopo che il pedone aveva percorso circa due metri della larghezza utile; trattasi di ricostruzione inconfutabile perché desunta da una ripresa televisiva; è pertanto smentito che il pedone al momento dell’investimento avesse quasi completato l’attraversamento della strada; la differenza è notevole ed importante, giacché dall’una o dall’altra tesi dipende il tempo utile per essere avvistato e per calcolare il tempo necessario di reazione per le manovre di emergenza; per superare l’evidenza delle conclusioni tecnico-scientifiche, i giudice di prime cure valorizza le testimonianze di G.M. e M.G. , che non appaiono comunque in contrasto con la visione del filmato; G. infatti dice che il pedone aveva appena superato la mezzeria, non si sa di quanto; il tempo di permanenza della vittima nel campo visivo dell’imputato è anch’esso determinato dal giudice di appello pedissequamente riproponendo le considerazioni del giudice di prime cure e del tutto ignorando i rilievi difensivi; il pedone era proteso a raggiungere la moglie, che lo precedeva, eppertanto non poteva che avere una andatura spedita, certamente non rallentata dalla borsa la quale, diversamente da quanto opinato dai giudici di merito, non era affatto pesante perché visivamente ripresa avanti rispetto al corpo della vittima (se pesante la borsa sarebbe scesa a perpendicolo lungo il corpo del pedone); quanto poi all’accertamento della velocità, si deve registrare una mancanza assoluta di motivazione; anche su tale punto si confrontano le tesi assai diverse del perito di ufficio e del consulente di parte e l’opzione giudiziale in favore delle prime; il giudice di merito indica in km/h 75 la velocità dell’auto Mercedes investitrice, mentre il consulente di parte, sulla base di quattro fotogrammi ripresi televisivamente, ha accertato scientificamente in 57/65 km/h la velocità del mezzo (si dà atto che la difesa replica nel ricorso il percorso deduttivo del consulente, inserendo i fotogrammi esaminati con il tempo della ripresa per ciascuno di essi e per un tempo di quattro secondi).

3.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente vizio della motivazione e violazione di legge in relazione alla mancata applicazione dell’art. 589 c.p., in particolare osservando: per la corte territoriale la condotta di guida dell’imputato sarebbe stata caratterizzata“verso una decisione per l’illecito”; per i giudicanti il prevenuto intendeva sottrarsi al controllo dei VV.UU. e per questo si diede alla fuga, con guida spericolata, perché voleva evitare i controlli sul suo stato di ubriachezza, la possibile sospensione della patente, il fermo amministrativo dell’automezzo; sempre per i giudici di merito il prevenuto, tutto ciò bilanciando e pur di non perdere la patente di guida, avrebbe accettato di uccidere una persona; eppure la condotta di guida dell’imputato, pur spericolata, è provato che si sia articolata sempre cercando di evitare danni a terzi, come quando ha evitato un ciclista, o come quando non ha sorpassato l’autovettura del teste M.G. rimanendo a lungo dietro di essa, anche perché in senso inverso, sopraggiungevano altri ciclisti; è ben differente la condotta dell’imputato, pur con tutti i rilievi di colpa riscontrabili nella velocità elevata e nel suo stato di ubriachezza, rispetto ai casi tipici in cui la guida rischiosa è stata valutata come punibile a titolo di omicidio volontario imputabile a titolo di dolo eventuale, casi in cui si attraversa un incrocio nonostante il segnale rosso di stop o si corre contromano o si va di notte a fari spenti; nel caso di specie c’è un veicolo che procede a velocità eccessiva per un centro abitato ed il guidatore in stato di ubriachezza e c’è, per converso, un pedone che, in violazione delle regole stradali, attraversa la strada evitando di farlo utilizzando le strisce pedonali poco lontane; palese la differenza tipologica, perché nei casi richiamati innanzi come diversi da quello per cui è causa, si è in presenza dell’accettazione di un rischio elevatissimo, tanto che il danno all’incolumità di terzi assume la dimensione dell’attualità più che della potenzialità; eppoi si appalesa del tutto inverosimile la ricostruzione secondo cui l’imputato, per evitare di perdere la patente, abbia accettato il rischio di uccidere una persona; applicando poi la nota formula di Frank, appare utile domandarsi se l’imputato avrebbe ugualmente agito laddove avesse previsto in termini di certezza l’evento e quindi mettendo in conto la sua sicura verificazione; palese la enorme differenza e la non comparabilità degli interessi in gioco; l’imputato non voleva l’incidente e contava di non provocarlo giacché con esso si vanificavano tutte le ragioni della fuga in auto, come puntualmente avvenuto; a tutto concedere si versa in una ipotesi di dubbio circa la ricorrenza di una volontà dolosa ovvero semplicemente gravemente colposa, dubbio che va risolto, secondo regole generali, in favore dell’imputato.

3.3 Col terzo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente la violazione dell’art. 133 c.p. nella quantificazione della pena, giacché applicata la diminuente per l’attenuante di cui all’art. 89 c.p. soltanto alla pena base prima degli aumenti per la continuazione e della riduzione per il rito. L’attenuante va infatti applicata a tutti i reati contestati e non soltanto a quello più grave. Del tutto immotivatamente sono state poi negate le attenuanti generiche, giacché richiamata soltanto la gravità della condotta giudicata.

3.4 Col quarto ed ultimo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente violazione degli artt. 127, 177 c.p.p. e vizio della motivazione sul punto, giacché nel corso del giudizio di appello, all’udienza del 18.11.2013, veniva depositata dalla parte civile memoria difensiva per la quale la difesa dell’imputato chiedeva, invano, termine per poterla esaminare. Ciò ha determinato una violazione del contraddittorio e dei diritti difensivi, considerato altresì che quella memoria è risultata poi determinante per la decisione.

3.5 Il 20 marzo 2015 la difesa ricorrente ha altresì depositato memoria difensiva con la quale ha ulteriormente approfondito il quarto motivo di ricorso, in particolare evidenziando il vulnus arrecato al diritto di difesa dalla immotivata decisione istruttoria con la quale la corte territoriale di secondo grado ha negato un termine per l’esame della corposa memoria difensiva depositata in udienza dalla parte civile, memoria in seguito ampiamente utilizzata dai giudicanti nella redazione della sentenza. Ad avviso del ricorrente il deposito detto avrebbe violato, in primo luogo, i termini imposti dall’art. 127 co. 2 c.p.p. e tanto, in uno con la impossibilità di esaminare la memoria della p.c., di 64 cartelle, avrebbe determinato una nullità della sentenza ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p..

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è fondato esclusivamente nella doglianza affidata al terzo motivo di impugnazione e cioè nella censura relativa alla determinazione della pena, mentre è infondato nel resto.

1.1 Infondata è, in particolare, l’eccezione processuale sviluppata col quarto motivo di ricorso (ed ulteriormente approfondita con la memoria difensiva aggiunta) della quale è d’uopo occuparsi preliminarmente attesa la sua natura pregiudiziale.

Con essa, appare utile ribadirlo, la difesa ricorrente ha sostenuto la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p., sulla premessa che la parte civile ebbe a depositare nel corso dell’udienza fissata per la decisione di secondo grado una corposa memoria difensiva, non esaminata dalla difesa giacché negato il termine per questo domandato e che ciò avrebbe leso il diritto di difesa, sia perché intempestivo il deposito detto ai sensi dell’art. 127 c.p.p., co. 2, sia perché resa impossibile una replica della difesa stessa ad argomentazioni successivamente largamente utilizzate dai giudicanti nella motivazione di condanna. L’eccezione è manifestamente infondata.

Il termine previsto dal secondo comma dell’art. 127 c.p.p. è infatti termine non perentorio ed, in quanto tale, il suo mancato rispetto non è sanzionato dall’ordinamento ed in particolare dalla norma di riferimento, come reso evidente dalla lettura della norma, la quale esplicitamente sanziona a pena di nullità la violazione delle prescrizioni imposte dai commi 1, 3 e 4 e non già quella temporale prevista dal comma 2 difensivamente richiamato. In tale contesto l’assegnazione o meno del rinvio dell’udienza richiesto dalla difesa è rimesso alla valutazione di opportunità del Collegio.

L’eccezione, infine, ha contenuti generici giacché non indicato in concreto il vulnus difensivo denunciato, di certo non individuabile nella considerazione che della memoria avrebbe fatto uso la corte nella motivazione della sentenza, perché circostanza questa del tutto irrilevante, per nulla provata e smentita inoltre dalla considerazione che la decisione impugnata risulta fondata sulle emergenze processuali.

1.2 Manifestamente infondato giudica, altresì, la Corte il primo motivo di impugnazione, con il quale censura la difesa ricorrente la ricostruzione dell’incidente mortale proposto dai giudici di merito. Al riguardo giova qui ribadire che la funzione dell’indagine di legittimità sulla motivazione non è quella di sindacare l’intrinseca attendibilità dei risultati dell’interpretazione delle prove e di attingere il merito dell’analisi ricostruttiva dei fatti, bensì quella, del tutto diversa, di accertare se gli elementi probatori posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate, sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte, verificando la congruenza dei passaggi logici. Ne consegue che, ad una logica valutazione dei fatti operata dal giudice di merito, non può quello di legittimità opporne un’altra, ancorché altrettanto logica (Cass. 5.12.02 Schiavone; Cass. 6.05.03 Curcillo; Sez. 4, n. 15227 dell’11/4/2008, Baratti, Rv.239735; cfr. in termini: Cass. sez. 2A, sentenza n. 7380 dell’11/01/2007, dep. il 22/02/2007, Rv. 235716, imp. Messina; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061). Orbene, nel caso in esame palese è la natura di merito delle argomentazioni difensive, giacché volte le medesime, a fronte di una esaustiva motivazione del giudice territoriale, a differentemente valutare gli elementi di prova puntualmente da esso richiamati e valorizzati, onde poi accreditare uno svolgimento della vicenda del tutto alternativo a quello logicamente ritenuto con la sentenza impugnata.
Argomento di merito è infatti ritenere errata ed illogica la prevedibilità della presenza di pedoni in attraversamento sulla base dell’ora in cui avvenne l’investimento (le ore 17 del 2.12.2011 nella città di Bolzano), così come la contestazione sul campo di avvistamento prima dell’impatto, indicato dal perito in m. 4,5 e dal consulente di parte in m. 2,00 e circa il tempo di permanenza della vittima nel campo visivo dell’imputato, così come, ancora, la contestazione della velocità dell’automezzo, indicata in km/h 75,00 dal perito di ufficio ed in km. 57/65 km/h dal consulente dell’imputato. A parte la considerazione che nessuno dei quattro profili in fatto come innanzi considerati si appalesa poi decisivo ai fini della valutazione della colpevolezza del prevenuto ed in ordine alla qualificazione della condotta appare agevole considerare, con i giudici di merito, che rientra tra le regole di comune esperienza che una arteria centrale cittadina, a qualsiasi ora, possa essere attraversata da taluno dei consociati. Tra velocità di 65km/h e 75 km/h non può farsi inoltre alcuna differenza decisiva ai fini del giudizio circa i fatti di causa ed il campo di avvistamento ovvero il tempo di permanenza in esso dell’imputato, quantificabile in differenze minime tra quanto indicato dai periti di ufficio ed i consulenti di parte, appaiono circostanze di fatto che, attesi gli aspetti concreti della vicenda, si appalesano anch’esse di minima rilevanza sulle valutazioni giuridiche richieste dalla vicenda e dal processo.

1.3 Infondato ritiene infine la corte il secondo motivo di ricorso, motivo principale nell’ambito della impugnazione in esame, con il quale si discetta in ordine alla qualificazione giuridica della condotta.

Sul punto si contrappongono nel processo due tesi, quella accusatoria, che ricostruisce la fattispecie nei termini dell’omicidio volontario sostenuto dal dolo cosiddetto eventuale, e quella difensiva, secondo la quale l’imputato non intendeva uccidere, non avrebbe accettato il rischio dell’evento morte e la sua condotta sarebbe sanzionabile a titolo di colpa, ancorché grave, secondo tipizzazione dei commi 2 e 3 dell’art. 589 c.p.. Orbene, giova rammentare che, secondo consolidata lezione ermeneutica di questa Corte, ricorre la fattispecie di omicidio sorretto da dolo diretto ed alternativo, e non quella di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamente l’idoneità offensiva della stessa, la sede corporea della vittima raggiunta dal colpo di arma e la profondità della ferita inferta inducano a ritenere la sussistenza, in capo al soggetto agente, del cosiddetto “animus necandi”. (Cass., Sez. I, 22/09/2010, n. 37516), di guisa che risponde di omicidio con dolo diretto alternativo chi prevede e vuole, come scelta sostanzialmente equipollente, la morte o il grave ferimento della vittima (Cass., Sez. I, 31/05/2011, n. 30694). Si contrappone tradizionalmente al dolo alternativo (e diretto) il dolo eventuale, figura questa di giurisprudenziale conio, che si individua, secondo tralaticia definizione, quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità dell’evento più grave, non avrebbe agito diversamente anche se di esso avesse avuto la certezza (cfr. Sez. un., n. 12433 del 26/11/2009, Nocera, Rv. 246324) e dell’evento non voluto ha, comunque, accettato il rischio che si verificasse.
Il dolo eventuale, nell’ambito dell’elemento psicologico del reato, segna la linea di confine tra il dolo e la colpa, che nel suo aspetto più vicino al primo si atteggia come colpa cosciente. Orbene, la linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa con previsione, secondo costante insegnamento, è individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente che, nel primo caso, accetta il rischio che si realizzi un evento diverso non direttamente voluto, mentre nella seconda ipotesi, nonostante l’identità di prospettazione, respinge il rischio, confidando nella propria capacità di controllare l’azione. Comune è, pertanto, la previsione dell’evento diverso da quello voluto, mentre ciò che diverge è l’accettazione o l’esclusione del rischio relativo. Trattasi di atteggiamenti psicologici che, secondo tradizionale lezione giurisprudenziale, vanno ricostruiti affidandosi agli elementi sintomatici evidenziati dal comportamento del soggetto, riconoscendo significato dirimente al rapporto tra lo scopo principale perseguito e l’evento diverso realizzato onde stabilire se esso sia di accessorietà o di alternatività.

Da una parte pertanto, l’accettazione del rischio dell’evento causato dalla condotta che riporta la condotta al dolo eventuale, dall’altra invece la ragionevole speranza che l’evento rappresentatosi all’agente non si verifichi, caratterizzante la colpa con previsione. La lezione interpretativa sin qui consolidatasi si è di recente arricchita di un importante contributo.

Le Sezioni unite della Corte (sent. n. 33343 del 24/04/2014, dep. 18/09/2014, Espenhahn e altri) sono infatti tornate sul tema del dolo eventuale con una pronuncia che ha scosso le passate certezze, destinata a costituire, attesa l’autorevolezza della fonte, precedente ineludibile per l’interprete.

Il Supremo Collegio, in particolare, con la citata sentenza ha cercato di individuare i confini distintivi di tale requisito soggettivo rispetto alla colpa cosciente, perché tanto imponeva la concreta fattispecie in scrutinio, e ne ha per questo elaborato una nozione eminentemente connotata sul piano dell’accertamento probatorio dell’elemento oggettivo, nozione con la quale ci si deve necessariamente confrontare nel valutare la posizione processuale dell’attuale imputato.

Orbene, secondo l’autorevole arresto in commento “in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi”. Palese appare al Collegio il notevole avvicinamento di siffatta impostazione teorica a quella, sin qui comunemente accettata, del dolo alternativo, e la connessa difficoltà di distinguere le due figure e con esse quella della colpa cosciente rispetto alla ipotesi del dolo eventuale.

Nello stesso arresto chiarificatore le Sezioni unite hanno però fornito, sul piano probatorio, l’indicazione degli elementi sintomatici del dolo eventuale, proprio al fine della sua distinzione dalla colpa cosciente, affermando: “in tema di elemento soggettivo del reato, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank)” (Sez. un., n. 33343/2014 cit.).

In questa cornice ermeneutica non può non prendersi atto che le categorie del dolo eventuale e del dolo alternativo (non può identificarsi la nozione di dolo eventuale se non distinguendola da quella del dolo alternativo) vengono a porsi, sul piano della teoria del diritto, come figure contigue ed è proprio questa contiguità dogmatica – ed evidentemente sistematica – a imporre al giudice del merito di compiere, al fine di distinguerli, una verifica rigorosa degli elementi processuali sottoposti alla sua cognizione che non lasci spazio a presunzioni o a semplificazioni probatorie, ma si confronti col fatto e con le acquisizioni processuali che consentano, si torna all’insegnamento di ss.uu. 33343/2014, “di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l’agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell’evento illecito collaterale”.

Tanto premesso sul piano dei principi e venendo ora, come di necessità, alla concreta fattispecie in esame, osserva la Corte che ha il giudice territoriale, in termini logicamente coerenti e rispettosi delle risultanze processuali, correttamente qualificato la condotta dell’imputato nei termini dell’omicidio volontario sorretto da dolo eventuale.

Ed invero, richiamando gli indicatori proposti dalla più volte citata ss.uu. n. 33343/2014, costituenti per l’interprete criteri guida per la qualificazione del dolo, osserva la Corte che: la condotta dell’imputato non può che ritenersi notevolmente difforme da quella, prudente, imposta dal C.d.S. per i veicoli marcianti in centro abitato e la velocità del mezzo, anche nei termini denunciati dal consulente di parte, era superiore del 100% a quella doverosa; la durata della condotta illegittima e la replica delle violazioni alle regole autostradali, notevole e diffusa, sono circostanze pacificamente acquisite al processo; subito dopo l’investimento mortale l’imputato tentò la fuga senza alcuna preoccupazione circa le sorti della vittima; lo scopo della sconsiderata fuga in auto è stata logicamente individuato dai giudici di merito nella volontà di sottrarsi alle conseguenze della guida imprudente e della ubriachezza verificabile da parte dei VV.UU.: il ritiro della patente, il sequestro del mezzo, la perdita del permesso di soggiorno; la probabilità di un incidente grave come conseguenza della guida sconsiderata, peraltro preceduta dal tentativo di investimento dei due VV.UU. che avevano intimato l’alt all’imputato, è stata logicamente ritenuta, dai giudici di merito, molto elevata; evidente è il contesto illecito in cui si è svolta la vicenda; ancora coerentemente con le regole della logica hanno i giudici di merito ritenuto provato che l’imputato, anche prevedendo la possibilità di incidenti mortali conseguenti alla sua guida sconsiderata, ha continuato nella condotta illegittima e tale prova è data dal tentato investimento dei VV.UU. che gli avevano intimato l’alt prima delle successive, numerose e gravi infrazioni autostradali culminate nell’investimento mortale (la cd. formula di Frank). Il motivo di impugnazione è, in conclusione, infondato.

1.4 Fondato è, viceversa, come già in premessa evidenziato, il terzo motivo di ricorso.

Ed invero, a pag. 107 della sentenza impugnata si legge che la corte territoriale, partendo da una pena base per il reato di omicidio volontario pari ad anni ventuno, ha applicato ad essa la diminuente prevista dall’art. 89 c.p., giacché riconosciuto nel processo, in favore dell’imputato per tutti i reati il vizio parziale di mente al momento del fatto, pervenendo quindi alla pena di anni quindici di reclusione. A tale sanzione la corte ha poi applicato tre aumenti annuali per il riconoscimento della continuazione collegata ai reati di cui ai capi a), b) e d) della rubrica. Al totale complessivo in tal modo sommato, pari ad anni diciotto, la corte ha poi applicato la diminuente di un terzo per la scelta del rito di cui all’art. 442 c.p.p., in tal modo pervenendo alla pena conclusiva di anni dodici di reclusione inflitta come in atti.

In tal modo conteggiata, la pena inflitta si appalesa determinata in violazione dell’art. 89 c.p..

Detta norma, come è noto, statuisce che colui il quale commette un fatto quando la sua capacità di intendere e di volere è grandemente scemata, di esso risponde se penalmente rilevante, ma la pena è diminuita.

Ebbene, la riduzione di pena indicata dalla norma fa riferimento a quella complessivamente determinata prima della sua applicazione dovendo riguardare anche gli aumenti a titolo di continuazione.

Nel caso in esame invece la corte di merito ha applicato il beneficio di cui all’art. 89 c.p. alla sola pena base prima degli aumenti successivamente conteggiati per l’applicazione della continuazione in riferimento ai reati contestati ai capi a), b) e d) della rubrica, per questo rimasti indenni dalla riduzione imposta dalla norma. Sul punto, pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio affinché si provveda alla determinazione della pena con la corretta applicazione della diminuente di cui all’art. 89 c.p.. Il Collegio ritiene infine non ricorrente, nella fattispecie, una ipotesi riconducibile all’art. 620 c.p.p., co. 1 lett. l), giacché la diminuente applicabile ai sensi dell’art. 89 c.p. è fissata in termini discrezionalmente valutabili da parte del giudicante fino ad un terzo in considerazione della equità della pena e ciò integra giudizio di merito precluso al giudice di legittimità.

 

P.Q.M.

 

la Corte, annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte di assise di appello di Trento. Rigetta nel resto il ricorso.

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