Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 12 dicembre 2014, n. 26213

Svolgimenti del processo

Il Tribunale di Siracusa, con sentenza del 5 novembre 1993, omologava la separazione consensuale di L.S. e M.F., coniugi uniti da matrimonio concordatario, con la attribuzione alla seconda di un assegno mensile di lire 650.000=. Successivamente la Corte di appello di Catania, con sentenza del 3 ottobre 2000, dichiarava l’efficacia della sentenza in data 12 aprile 1995, con la quale il Tribunale ecclesiastico aveva dichiarato la nullità del vincolo per avere il Santacroce escluso il principio dell’indissolubilità del matrimonio. In esito a tale dichiarazione di efficacia il Santacroce, con ricorso ai sensi dell’art. 710 c.p.c., chiedeva ed otteneva la revoca dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione.
Dopo detta revoca M.F. conveniva in giudizio L.S. chiedendone la condanna al pagamento dell’indennità prevista dall’art. 129 bis c.c. e degli alimenti nella misura di e 600,00 mensili. Il Tribunale di Siracusa, in composizione collegiale, rigettava la domanda, con sentenza dell’8 novembre 2010, che la Corte di appello di Catania confermava, con sentenza del 9 novembre 2012, osservando, per quanto ancora interessa, che: 1) la disposizione dell’art. 50 bis c.p.c., che stabilisce quando il tribunale deve decidere in composizione collegiale e quando in composizione monocratica, attiene alla ripartizione degli affari all’interno del medesimo tribunale; tale disposizione, inoltre, come precisato dall’art. 50 quater c.p.c.1 non attiene alla costituzione del giudice e, pertanto, la sua violazione non integra un caso di nullità assoluta; ne consegue ulteriormente che la violazione della disposizione, rilevabile ai sensi dell’art. 161 c.p.c., non comporta la rimessione degli atti al primo giudice; 2) la pretesa estensione alle sentenze ecclesiastiche dell’abrogazione del procedimento di delibazione delle sentenze straniere avrebbe dovuto essere fatta valere con impugnazione della sentenza con cui la Corte di appello di Catania aveva dichiarato l’efficacia in Italia della sentenza del Tribunale ecclesiastico; in ogni caso l’assunto era infondato poiché l’abrogazione era stata disposta da legge ordinaria (art. 73 della legge n. 218/1995) inidonea a spiegare efficacia sulle disposizioni dettate dall’art. 8 dell’Accordo del 18 febbraio 1984 che ha apportato modificazioni al Concordato lateranense; 3) il decreto di omologazione della separazione consensuale, con il quale era stato stabilito l’ammontare di un assegno di mantenimento, era revocabile e non poteva esserne invocato il passaggio in giudicato; 4) la situazione di buona o mala fede della Firenze doveva essere valutata in relazione alla conoscenza o meno della esclusione dei bona matrimonii da parte del Santacroce e non anche in relazione alla conoscenza delle conseguenze giuridiche di tale esclusione.
M.F. propone ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi, illustrati anche con memoria. L.S. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 50 bis, 50 ter, 50 quater e 161 c.p.c., lamentando che la Corte di appello aveva omesso di considerare che la mancata devoluzione della causa in primo grado al giudice monocratico era stata puntualmente dedotta come specifico motivo di appello. Con lo stesso motivo la ricorrente lamenta che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che essa ricorrente avrebbe dovuto impugnare la sentenza con cui era stata attribuita efficacia alla sentenza del Tribunale ecclesiastico.
La prima censura prospettata con il motivo è infondata. La Corte di appello ha, infatti, applicato il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale costituisce, alla stregua del rinvio operato dall’art. 50 quater cod. proc. civ. al successivo art. 161, primo comma, un’autonoma causa di nullità della decisione e non una forma di nullità relativa derivante da atti processuali antecedenti alla sentenza (e, perciò, soggetta al regime di sanatoria implicita), con la sua conseguente esclusiva convertibilità in motivo di impugnazione, senza determinare la nullità degli atti che hanno preceduto la sentenza nulla, né produrre l’effetto della rimessione degli atti al primo giudice ove il giudice dell’impugnazione sia anche giudice del merito (Cass. s.u. 25 novembre 2008, n. 28040; conf. e plurimis Cass. 18 giugno 2014, n. 13907). In applicazione di tale principio, la Corte di appello ha esattamente escluso sia la nullità degli atti che hanno preceduto la sentenza, sia la rimessione degli atti al primo giudice ed ha pronunziato nel merito. È vero, al riguardo, che la Corte di appello non ha pronunziato direttamente sulla domanda, come avrebbe dovuto fare a seguito della riconosciuta nullità della sentenza di primo grado, ma ha pronunziato sull’appello; di ciò, tuttavia, la ricorrente non si duole e, d’altro canto, la pronunzia della Corte di appello ha investito tutti i presupposti della domanda.
La seconda censura formulata con il primo motivo deve essere esaminata, per ragioni di ordine logico, dopo il secondo motivo col quale si deduce la violazione dell’art. 73 della legge n. 218/1995, assumendo che erroneamente la sentenza impugnata aveva escluso l’applicabilità alla normativa concordataria dell’abrogazione delle disposizioni in tema di dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere. Pertanto, l’efficacia della sentenza ecclesiastica prescindeva dagli accertamenti svolti nel giudizio di delibazione e, in particolare, dalla ritenuta consapevolezza in capo alla Firenze del fatto che il Santacroce escludeva alcuni bona matrimoni!; ne conseguiva che non era possibile dare rilievo ai relativi accertamenti,, sotto il profilo della buona fede, in sede di applicazione dell’art. 129 bis c.c.
Il motivo è infondato. Invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte l’abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c., in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta (art. 73 della legge n. 218 del 1995), non è idonea a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre 1984 e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121), disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici – contengono un espresso richiamo agli artt. 796 e 797 c.p.c., e risultano connotate, in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost. (che implica la resistenza all’abrogazione di norme pattizie, perciò suscettibili di modifica, in difetto di accordo delle parti contraenti, solo con leggi costituzionali), da una vera e propria ultrattività (Cass. 10 dicembre 2010, n. 24990; Cass. 25 maggio 2005, n. 11020).
All’infondatezza del motivo consegue l’inammissibilità per difetto di interesse della seconda censura proposta col primo motivo e relativa alla seconda ratio decidendi, con la quale la Corte di appello ha ritenuto comunque che l’abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. avrebbe dovuto essere fatta valere impugnando la sentenza con la quale la Corte di appello aveva dichiarato l’efficacia della sentenza ecclesiastica.
Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 129 bis c.c. perché la sentenza impugnata non aveva dato vincolante rilievo alla pronunzia dell’autorità giudiziaria ecclesiastica laddove aveva dichiarato la buona fede della Firenze e l’imputabilità al Santacroce delle cause che avevano determinato la pronunzia di nullità del matrimonio (idee divorziste e rinunzia alla prole).
Il motivo è infondato poiché dalla applicabilità alle sentenze ecclesiastiche degli artt. 796 e 797 c.p.c., in tema di dichiarazione di efficacia di sentenze straniere, discende la necessità dell’accertamento che l’esclusione da parte di uno dei coniugi dei bona matrimoni! (con seguente divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione) sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, ovvero che non gli sia stata nota soltanto a causa della sua negligenza; in difetto di tali condizioni la delibazione trova ostacolo nell’ordine pubblico italiano, nel cui ambito vige il principio di tutela della buona fede e del legittimo affidamento incolpevole (Cass. 5 marzo 2012, n. 3378; Cass. 10 novembre 2006, n. 24047). Nella specie l’affidamento incolpevole era stato espressamente escluso dalla sentenza che aveva attribuito efficacia alla sentenza ecclesiastica.
Con il quarto motivo si deduce la violazione «del principio di diritto secondo cui le prestazioni alimentari fissate nel procedimento di separazione consensuale omologata hanno contenuto di tipo giudiziale non precluso dalla pronunzia di nullità matrimoniale».
Il motivo è infondato. I provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi sono, infatti, sempre modificabili e, nella specie, come riferito in narrativa, sono stati concretamente modificati con la revoca dell’assegno di mantenimento posto a carico del ricorrente in sede di omologazione della separazione. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese di lite liquidate in e 3.200,00=, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali IVA e CP; dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, ai sensi dell’art. 52 d.lgs. 196/03.

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