Appello: riforma sentenza, ricalcolo spese necessario

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|13 gennaio 2025| n. 854.

Appello la riforma sentenza ed il ricalcolo spese necessario

Massima: In materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d’appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’articolo 336 cod. proc. civ., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese (Nel caso di specie, la Suprema Corte, richiamato l’enunciato principio, ha cassato la sentenza impugnata e deciso nel merito, in quanto, nella circostanza, avendo il giudice d’appello accolto, sia pure in minima parte, il gravame e liquidato le spese compensando per un terzo quelle in favore di una delle due parti appellate, avrebbe dovuto operare nello stesso modo anche in relazione al primo grado di giudizio, rideterminando nella medesima misura le spese in relazione all’esito complessivo della lite). (Riferimenti giurisprudenziali: Cassazione, sezione civile III, ordinanza 13 giugno 2024, n. 16526; Cassazione, sezione civile VI, ordinanza 24 gennaio 2017, n. 1775).

 

Ordinanza|13 gennaio 2025| n. 854. Appello la riforma sentenza ed il ricalcolo spese necessario

Integrale

Tag/parola chiave: Procedimento civile – Spese processuali – Giudizio di appello – Rigetto del gravame di merito – Riforma della sentenza di primo grado sulle spese – Mancanza di specifico motivo di gravame – Divieto – Sussistenza – Riforma totale o parziale della sentenza impugnata – Dovere del giudice di appello di disciplinare nuovamente le spese – Sussistenza – Fondamento – Riferimento all’esito finale della lite – Necessità. (Cpc, articoli 91, 92 e 336)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente

Dott. PAPA Patrizia – Consigliere

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere

Dott. VARRONE Luca – Rel. Consigliere

Dott. PIRARI Valeria – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12904/2023 R.G. proposto da:

ED.3.Srl, rappresentata e difesa dall’avvocato RO.FI.;

– ricorrente –

contro

Pa.Vi., Co.Ma. rappresentati e difesi dall’avvocato GI.PR.;

– controricorrente –

nonché contro

Ia.An., Ab.Fr.

– intimati –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di LECCE n. 184/2023 depositata il 04/05/2023.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/12/2024 dal Consigliere LUCA VARRONE;

Appello la riforma sentenza ed il ricalcolo spese necessario

FATTI DI CAUSA

1. la Ed.3S. Srl interponeva appello avverso la sentenza n. 1987/2021, emessa dal Tribunale di Taranto il 6.9.2021, con cui era condannata a manlevare Ab.Fr. e Ia.An. per quanto statuito in favore delle controparti Pa.Vi. – Co.Ma. (eliminazione delle opere contestate, risarcimento danni e spese di lite) in relazione a due fabbricati confinanti siti in M.

L’appellante lamentava che il Giudice di prime cure non avesse considerato l’unicità dell’originario progetto edilizio dei due fabbricati ed i rispettivi atti di provenienza con cui le parti in causa accettavano le rispettive servitù attive e passive; eccepiva inoltre la mancanza di prova dei danni effettivamente subiti e si doleva anche della condanna alle spese, quanto meno da compensare per la disponibilità manifestata in corso di causa ad eliminare le opere contestate.

2. Si costituivano tutti gli appellati concludendo per il rigetto del gravame.

3. La Corte d’Appello di Lecce – Sezione Distaccata di Taranto accoglieva parzialmente l’appello e per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza del Tribunale di Taranto n. 1987/2021 del 6.9.2021 che per il resto confermava, eliminava la condanna alla manleva a carico della Ed.3S. Srl per la parte riguardante la siepe posta a confine, riducendo ad Euro 2000,00 il ristoro per il disposto risarcimento danni da cui andavano tenute indenni le parti convenute.

Secondo il giudice del gravame il primo motivo di appello era inammissibile ex art. 345 c.p.c. nella parte in cui prospettava l’esistenza di servitù attive e passive asseritamente rinvenienti dai rispettivi atti di acquisto delle parti in causa, poiché tale eccezione era nuova non essendo stata mai prospettata in primo grado.

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Invece era infondato il motivo nella parte in cui escludeva la configurabilità delle violazioni edilizie denunziate dagli attori Pa.Vi. – Co.Ma., valorizzando l’unicità del progetto edilizio dei due fabbricati, poiché dalla copiosa documentazione in atti emergeva chiaramente che gli stessi attori erano gli originari proprietari del suolo oggetto (insieme ad altri confinanti) di piano di lottizzazione, mentre i convenuti Ab.Fr. – Ia.An. avevano acquistato a titolo derivativo dalla ditta costruttrice Ed.3S. Srl ovvero dal suo avente causa.

Il secondo motivo di appello si incentrava sull’effettiva sussistenza dei danni lamentati dagli attori e riconosciuti in sentenza in quanto insiti nelle violazioni edilizie accertate dal CTU, tenuto conto da un lato dello stato grezzo in cui ancora versa(va) il fabbricato degli attori, dall’altro nell’esclusiva addebitabilità alla sig.ra Ab.Fr. del piantamento della fitta siepe di confine a distanza non regolamentare.

In realtà, appariva corretto presumere che anche i proprietari di un fabbricato in costruzione potessero subire danno dall’illegittimo stillicidio e scolo di acque meteoritiche ovvero dall’esistenza di vedute non regolamentari, tanto più che gli stessi lamentavano di non aver potuto completare la costruzione prima della rimozione dei fattori di danno per cui è causa.

L’appello andava unicamente accolto nella parte in cui giustamente eccepiva che il piantamento della siepe a distanza non regolamentare non poteva essere in alcun modo addebitato alla ditta costruttrice del fabbricato e che pertanto la sentenza andava riformata sul punto, essendo tale violazione addebitabile unicamente alla sig Ab.Fr.

4. ED.3.Srl ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza.

5. Pa.Vi., Co.Ma. hanno resistito con controricorso.

6. Ia.An., Ab.Fr. sono rimasti intimati.

7. Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.

8. A seguito di tale comunicazione, la parte ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.

9. È stata fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

10. Entrambe le parti con memoria depositata in prossimità dell’udienza hanno insistito nelle rispettive richieste.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: difetto di motivazione sul riconoscimento del danno presunto in violazione dell’art. 111 Cost. e degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c., per aver immotivatamente riconosciuto una presunzione di danno su immobile abbandonato allo stato grezzo da oltre 10 anni, nonché violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., per aver considerato una domanda nuova di danno in appello (non aver potuto completare e utilizzare l’edificio) mai chiesta nel giudizio di primo grado, che andava dichiarata inammissibile d’ufficio.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c., con riferimento agli artt. 1223, 1226, 1227, e artt. 872, 2043, 2056, 2697, 2727 2729 c.c. per avere la Corte d’Appello, in violazione dei principi concernenti l’onere probatorio e le presunzioni semplici, ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile (in re ipsa) non rilevato dal C.T.U., in assenza di prova anche solo presuntiva dello stesso e in mancanza (nel giudizio di primo grado) di una specifica allegazione del presunto danno lamentato su un’immobile non abitabile né godibile in alcun modo e comunque potenzialmente inidoneo a produrre redditi, poiché abbandonato allo stato grezzo da oltre dieci anni.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., nonché motivazione illogica e quindi sostanzialmente omessa o apparente in violazione dell’art. 111 Cost. e degli artt. 115, 116, 132 e 336 c.p.c., poiché la Corte di Appello di Lecce sez. dist. di Taranto, pur riformando parzialmente la sentenza di primo grado, ha confermato la statuizione sulle spese di lite, ritenendole “insindacabili” dal Giudice di Appello, ed ha disposto a carico dell’appellante (parzialmente vittorioso) la condanna alle spese di lite del secondo grado (integralmente) in favore dei coniugi Pa.Vi. – Co.Ma. ed (in misura ridotta di un terzo) anche in favore dei sigg. Ab.Fr. – Ia.An. (parzialmente soccombenti).

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: nullità della sentenza per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. e/o per motivazione illogica ex art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. e quindi sostanzialmente omessa o apparente in ordine alla statuizione sulle spese di lite in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. e comunque violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, per aver la Corte territoriale confermato la statuizione sulle spese di lite del Tribunale poste sostanzialmente tutte a carico della EDIL 3 S nonostante l’accoglimento della domanda degli attori (rifiutata esclusivamente da questi ultimi) fosse in misura inferiore alla proposta conciliativa.

5. La proposta di definizione del giudizio formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. è di inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso per le seguenti ragioni: Primo e secondo motivo: inammissibili, o comunque manifestamente infondati, poiché attingono la statuizione della Corte d’Appello di Lecce – Sez. distaccata di Taranto – nella parte in cui provvede alla liquidazione del danno, quale conseguenza dell’accertata violazione delle distanze legali. Segnatamente, il ricorrente si duole dell’immotivato riconoscimento di una presunzione di danno, in aperta violazione dei principi che concernono la ripartizione degli oneri probatori. A tal proposito, occorre ribadire che “la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in “re ipsa”, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure “iuris tantum”, tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso”. (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 25082 del 09/11/2020; Rv. 659708). Terzo e quarto motivo: inammissibili, o comunque manifestamente infondati, in quanto volti a censurare la statuizione sulle spese di lite, correttamente poste per l’intero a carico della parte soccombente, odierna ricorrente, in applicazione del criterio di cui all’art. 91 c.p.c.

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6. Il ricorrente con la memoria depositata in prossimità dell’udienza insiste nella richiesta di accoglimento del ricorso e in aggiunta alle deduzioni ivi formulate, tenuto conto anche delle conclusioni della proposta, osserva che l’art. 2697 c.c. impone l’onere della prova in capo al soggetto istante e l’art. 872 c.c. attribuisce il diritto al risarcimento esclusivamente a chi ha subito un danno. Dunque, anche a voler applicare le presunzioni di cui all’art. 2729 cc, sarebbe stato necessario allegare presunzioni gravi, precise e concordanti, omesse dai controricorrenti non essendo dato sapere quali danni reali o potenziali abbia mai potuto subire un immobile allo stato grezzo (non abitabile e non suscettibile di produrre redditi), dalle irregolarità riscontrate sull’immobile dei vicini. Né varrebbe l’affermazione di “non aver potuto completare la costruzione” senza una benché minima giustificazione dei motivi per i quali i lavori non potevano essere completati in presenza del gocciolatoio del copri muro o del parapetto del balcone del confinante di altezza inferiore. Il riconoscimento (sic et simpliciter) del danno in re ipsa si porrebbe in contrasto con l’insegnamento delle Sezioni Unite n. 33645/2022 e n. 33659/2022).

7. La censura proposta come vizio di motivazione è inammissibile.

Questa Corte a sezioni unite ha chiarito che dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. Sez. un. 8053/2014); – nel caso di specie, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Corte d’Appello ha sinteticamente ma sufficientemente motivato.

Infatti, nella sentenza impugnata in risposta al secondo motivo di appello incentrato sull’effettiva sussistenza dei danni lamentati dagli attori e riconosciuti in sentenza in quanto insiti nelle violazioni edilizie accertate dal CTU, tenuto conto da un lato dello stato grezzo in cui ancora versa(va) il fabbricato degli attori, dall’altro nell’esclusiva addebitabilità alla sig.ra Ab.Fr. del piantamento della fitta siepe di confine a distanza non regolamentare è corretto presumere che anche i proprietari di un fabbricato in costruzione possano subire danno dall’illegittimo stillicidio e scolo di acque meteoritiche ovvero dall’esistenza di vedute non regolamentari, tanto più che gli stessi lamentano di non aver potuto completare la costruzione prima della rimozione dei fattori di danno per cui è causa.

La motivazione, pertanto, non può dirsi inesistente ed è conforme alla giurisprudenza di legittimità più recente anche quella indicata dal ricorrente nella memoria. Deve infatti osservarsi che non è più attuale l’indirizzo giurisprudenziale indicato nella proposta circa la sussistenza di un danno in re ipsa in caso di violazione delle distanze. Tale principio di recente è stato superato in applicazione delle citate sentenze delle Sezioni Unite allorché si è affermato che “In caso di violazione di distanze legali, l’esistenza del danno può essere provata attraverso le presunzioni, tenendo conto di fattori, utili anche alla valutazione equitativa, e da cui si desuma una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che vanno allegati e provati dall’attore (Sez. 2, Ordinanza n. 17758 del 27/06/2024, Rv. 671712-02).

La domanda del danno onera, dunque, il ricorrente di indicare gli elementi, le modalità e le circostanze della situazione le modalità e le circostanze della situazione, da cui, in presenza dei requisiti richiesti dagli artt. 2727 e 2729 c.c., possa desumersi l’esistenza e l’entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito; ciò consente poi al giudice di far uso delle presunzioni semplici (Cass. civ. n. 32459/23)”. Nel caso di specie, tuttavia, l’allegazione vi è stata e la Corte d’Appello, in base a presunzioni semplici e sulla base di un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, ha ritenuto provato il danno.

7.1 Per gli stessi motivi sono inammissibili le restanti censure di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c. e di violazione di legge enucleate con il secondo motivo. Con tali doglianze il ricorrente sostanzialmente critica il ragionamento presuntivo effettuato dalla Corte d’Appello come indicato nella motivazione pur sintetica sopra riportata.

7.2 Deve in proposito ribadirsi che la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solo se il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Sez. U – , Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016, Cass. S.U. n. 16598/2016).

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7.3 Infine, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Sez. U – , Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037-02).

8. Il terzo motivo di ricorso è fondato.

Il ricorrente lamenta che dopo l’accoglimento del suo motivo di appello avrebbero dovuto essere rideterminate in suo favore anche le spese del giudizio di primo grado.

La Corte d’Appello ha erroneamente affermato di non poter sindacare la decisione del giudice di primo grado in ordine alla soccombenza essendo una mera facoltà, non censurabile nei gradi successivi se opportunamente motivata, quella di operare compensazioni totali o parziali.

Viceversa deve ribadirsi che: In materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d’appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c,, la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese (ex plurimus Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1775 del 24/01/2017, Rv. 642738 conf. Sez. 3, Ord. n. 16526 del 2024 – Rv. 671298).

Nella specie, peraltro, vi era stato appello da parte dei ricorrenti in ordine al capo della sentenza di primo grado relativa alle spese.

Di conseguenza nel momento in cui il giudice dell’appello ha accolto, sia pure in minima parte, l’appello e ha liquidato le spese compensando per un terzo quelle in favore di una delle due parti appellate avrebbe dovuto farlo anche in relazione al primo grado, dovendo rideterminare le spese in relazione all’esito complessivo della lite.

In altri termini, nel momento in cui ha ritenuto di compensare per un terzo le spese nei confronti degli appellati Ab.Fr. – Ia.An. avrebbe dovuto operare la medesima compensazione anche in relazione alle spese del primo grado.

9. Il quarto motivo di ricorso è infondato. Infatti, il vizio di mancanza di motivazione non sussiste e quanto alla violazione dell’art. 91 c.p.c. è sufficiente richiamare il principio secondo il quale la soccombenza comporta solo che è vietato condannare alle spese la parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 18128 del 31/08/2020 Rv. 658963 – 01) mentre quanto alla valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Sez. 2, Sentenza n. 2149 del 2014 Rv. 629389).

10. La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i restanti, cassa la sentenza impugnata e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto decide nel merito ex art. 384 c.p.c. e compensa per un terzo anche le spese di lite con le quali il giudice di primo grado nel capo n. 6 del dispositivo della sentenza ha condannato la Ed.Co. Srl quale terza chiamata al pagamento delle spese processuali in favore dei convenuti in favore di Ab.Fr. e Ia.An., quantificate in Euro 2963,89 che dunque vanno ridotte di un terzo. La restante liquidazione delle spese processuali del primo grado e quella del giudizio di appello va riconfermata.

Parte ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo nei confronti di Pa.Vi. e Co.Ma. essendo totalmente soccombente nei loro confronti.

Compensa le spese nei confronti delle altre parti intimate stante la reciproca soccombenza e tenuto conto dell’esito complessivo della lite.

Non può procedersi all’ulteriore liquidazione ex art. 96, terzo e quarto comma, c.p.c. stante l’accoglimento del terzo motivo di ricorso.

Appello la riforma sentenza ed il ricalcolo spese necessario

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i restanti, cassa la sentenza impugnata e non essendo necessari ulteriori accertamenti, decide nel merito compensando per un terzo anche le spese di lite con le quali il giudice di primo grado nel capo n. 6 del dispositivo della sentenza ha condannato la Ed.Co. Srl quale terza chiamata al pagamento delle spese processuali del primo grado di giudizio in favore di Ab.Fr. e Ia.An. quantificate in Euro 1977,00. La restante liquidazione delle spese processuali del primo grado e quella del giudizio di appello va riconfermata.

Condanna Ed.Co. Srl al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti di Pa.Vi. e Co.Ma. liquidate in Euro 2500,00 più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge.

Compensa le spese del giudizio di legittimità nei confronti delle altre parti intimate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 Sezione civile in data 11 dicembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2025.

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