Actio interrogatoria: incide su diritto potestativo

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|7 novembre 2024| n. 28666.

Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

Massima: L’actio interrogatoria, di cui agli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c., non è volta a dirimere un conflitto tra diritti incidendo, senza efficacia di giudicato e indipendentemente dal tipo di delazione, testamentaria o legittima, sul solo diritto potestativo del chiamato all’eredità con la conseguenza che, ove esercitato attraverso la dichiarazione di accettazione, non si determina la delazione dell’eredità in via succedanea o l’accrescimento a favore di altri chiamati, la cui condizione di aspettativa di diritto è tutelata attraverso il suddetto strumento sollecitatorio. Da tale inidoneità al giudicato consegue che resta impregiudicata ogni questione che possa insorgere tra i chiamati, ivi inclusa quella inerente all’acquisto della qualità di erede da parte dell’interrogato per effetto di un atto o di un fatto precedente all’instaurazione del procedimento.

 

Sentenza|7 novembre 2024| n. 28666. Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

Data udienza 3 ottobre 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Divisione giudiziale – Istanza di fissazione di termine di accettazione dell’eredità ex art. 481 cc – Provvedimento di decadenza dall’eredità per mancata risposta – Ricorso per cassazione – Esclusione – Ratio – Qualità di erede e l’entità della relativa quota di partecipazione – titolo di legittimazione attiva o passiva della divisione – Possesso dei beni ereditari previsto dall’art. 485 c.c. – Acquisto della qualità di erede puro e semplice – Attività corrispondente all’esercizio della proprietà dei beni ereditari – Esclusione – Mera relazione materiale tra i beni e il chiamato all’eredità – Sufficienza – Situazione di fatto pure per mezzo di terzi detentori – Sufficienza – Consapevolezza dell’ appartenenza dei beni al compendio ereditario – Regolarità edilizia del fabbricato – Condizione dell’azione ex art. 713 c.c. – Sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 25021/19

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. MANNA Felice – Presidente Relatore

Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere

Dott. PIRARI Valeria – Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 960/2019 R.G. proposto da:

Ga.Ma., elettivamente domiciliata in Campobello di Mazara, Via Vi.Em., presso lo studio dell’avvocato PA.MA. (Omissis) che la rappresenta e difende

-ricorrente-

contro

Ma.Al.

-intimato-

avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO PALERMO n. 1820/2018 depositata il 14/09/2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/10/2024 dal Presidente FELICE MANNA.

Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

FATTI DI CAUSA

Ga.Ma. Ma.Al. agiva innanzi al Tribunale di Marsala nei confronti del germano Ma.Al. per lo scioglimento delle comunioni ereditarie del padre, Ma.An., e della madre, Me.Fr. Esponeva che il padre era deceduto ab intestato il 19.1.1987, lasciando in eredità soltanto un immobile sito in Campobello di Mazara, fraz. Tr.Fo., il quale in virtù della successione legittima era stato acquistato per 1/3 ciascuno dai due figli e dalla madre; e che, mancata anche quest’ultima ab intestato, il 16.1.2007, l’eredità di lei, consistente solo nella ridetta quota di comproprietà immobiliare, si era devoluta per 1V a ciascuno dei due figli. Deduceva, quindi, di aver esperito l’actio interrogatoria di cui all’art. 481 c.c. nei confronti del fratello, il quale, rimasto inerte entro il termine fissato dal giudice, aveva perso il diritto di accettare l’eredità materna, devolutasi, pertanto, interamente in favore di lei. Di riflesso, ella doveva ritenersi comproprietaria dell’immobile anzidetto per la quota di 2/3.

Ma.Al. Ma.Al. resisteva alla domanda. Assumeva di essere erede anche della madre, per intervenuta accettazione tacita, contestava la rituale proposizione dell’actio interrogatoria e, data l’infrazionabilità del bene, ne chiedeva l’attribuzione per l’intero, ai sensi dell’art. 720 c.c.

Il Tribunale accoglieva la domanda così come proposta dall’attrice, e sulle contrapposte istanze d’attribuzione dell’intero con addebito dell’eccedenza, assegnava a lei l’intero bene e condannava il convenuto al pagamento dei frutti civili.

Adita da Ma.Al. Ma.Al., la Corte d’Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava che anche l’appellante era erede della madre; che, pertanto, le parti erano comproprietarie del bene in questione nella misura di 1/2 ciascuna; e che la domanda di scioglimento della comunione era improcedibile.

Osservava la Corte territoriale che Ma.Al. Ma.Al. era divenuto erede puro e semplice della madre, ai sensi dell’art. 485 c.c., perché nel possesso (nell’accezione minore di detenzione, ritenuta dalla giurisprudenza di questa Corte suprema) del medesimo bene ereditario oggetto di domanda, tanto che l’attrice ne aveva chiesto la condanna al pagamento della quota parte dei frutti civili percetti. Riteneva, inoltre, in adesione a Cass. nn. 2313/10, 52/10 e 15133/01, che l’art. 46 D.P.R. n. 380/01 sulla nullità degli atti giuridici relativi a edifici costruiti post 17 marzo 1985, non fosse applicabile alla divisione ereditaria. Non di meno, era l’infrazionabilità del bene ad impedirne, ad un tempo, sia l’alienabilità a terzi, in virtù della citata norma, sia l’attribuzione ex art. 720 c.c. ad alcuno dei condividenti, data la parità delle rispettive quote.

Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

Avverso questa sentenza Ga.Ma. Ma.Al. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

Ma.Al. Ma.Al. è rimasto intimato.

A seguito della morte del difensore, la ricorrente ha depositato il 27.2.2024 una “memoria di costituzione di nuovo difensore”.

Il P.G. ha depositato memoria in prossimità della pubblica udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 348-bis c.p.c., in relazione dell’art. 360, n. 1, c.p.c., per aver la Corte d’Appello respinto “l’eccezione” di inammissibilità dell’appello ai sensi della precitata norma.

Deduce parte ricorrente che la sentenza di primo grado era basata su principi consolidati, argomentazioni logico-giuridiche coerenti e prove raggiunte, mentre l’appello non traeva linfa da precedenti altrettanto consolidati, sicché se ne sarebbe dovuta pronunciare l’inammissibilità.

1.1. – Il mezzo è inammissibile, non solo e non tanto per l’assoluta sua genericità, che lo conforma ad una mera petizione di principio, ma anche e soprattutto perché – come questa Corte ha avuto modo di chiarire – la scelta del giudice d’appello di definire il giudizio prendendo in esame il merito della pretesa azionata (sia con il rigetto che con l’accoglimento) non può dirsi proceduralmente viziata sul presupposto che si sarebbe dovuta affermare l’inammissibilità per assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; pertanto, ove il giudice non ritenga di assumere la decisione ai sensi dell’art. 348-ter, comma 1, c.p.c., la questione di inammissibilità resta assorbita dalla sentenza che definisce l’appello, che è l’unico provvedimento impugnabile, ma per vizi suoi propri, in procedendo o in iudicando, e non per il solo fatto del non esservi stata decisione nelle forme semplificate (così, l’ordinanza n. 37272/21).

2. – Il secondo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 481 e 2909 c.c. e 324 e 749 c.p.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., per non avere il giudice d’appello considerato Ma.Al. decaduto dall’accettazione dell’eredità, essendo spirato il termine assegnatogli dal giudice, e per aver statuito sull’accertamento della qualità di erede di quest’ultimo, nonostante la preclusione derivante dal giudicato formatosi sull’esito dell’accio interrogatoria, in assenza di reclamo o altra impugnazione.

Nel richiamare S.U. n. 20644/04, nonché l’ordinanza n. 22195/14, il mezzo sostiene che il provvedimento emesso a conclusione del procedimento di cui agli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c. abbia natura decisoria, in quanto dirime un conflitto tra diritti; e che, ove non reclamato, esso diventi definitivo formando la res iudicata sulla decadenza del chiamato dal diritto di accettare e sull’inefficacia della stessa delazione ereditaria, non potendovi essere coesistenza tra successione testamentaria e successione legittima.

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2.1. – Il motivo è infondato.

L’art. 481 c.c. prevede che chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato dichiara se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare.

Chiamata a stabilire se l’ordinanza non impugnabile emessa in sede di reclamo avverso il provvedimento dichiarativo della decadenza del chiamato dal diritto di accettare l’eredità, in esito allo svolgimento dell’actio interrogatoria, sia ricorribile per cassazione, questa Corte suprema ha di recente ribadito la soluzione negativa. Ciò in quanto detta azione, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, definisce un procedimento di tipo non contenzioso privo di un vero e proprio contraddittorio e non statuisce in via decisoria e definitiva attesa la sua revocabilità e modificabilità alla stregua dell’art. 742 c.p.c. (n. 24484/22).

Tale pronuncia s’inserisce, coerente, nel novero di altre di uguale o di pari contenuto (cfr. le nn. 5460/17, 13820/16, 20132/14, 4730/20 e 14202/17, quest’ultima con riferimento al provvedimento di revoca del termine fissato ex art. 749 c.p.c. al legatario per adempiere l’onere testamentario). La base logico-giuridica di tale orientamento si può ulteriormente esplicitare nei termini che seguono.

Al contrario di quanto suppone parte ricorrente, l’actio interrogatoria non è volta a dirimere un conflitto tra diritti – tant’è che, non casualmente, essa è soggetta ad un rito camerale (che nell’originaria sistematica del Codice di procedura civile designa la c.d. giurisdizione volontaria) – perché incide, senza alcun dispendio di attività cognitiva da parte del giudice, sul solo diritto potestativo del chiamato all’eredità. Tale diritto, ove esercitato attraverso la dichiarazione di accettazione, esclude, secondo i casi, la delazione dell’eredità in via succedanea o l’accrescimento della quota a favore di altri chiamati; situazioni, entrambe, cui corrispondono non diritti soggettivi perfetti, ma – ed è questo il punto da sottolineare – solo aspettative di diritto, tutelate dall’ordinamento attraverso il suddetto strumento sollecitatorio, indipendentemente dal tipo di delazione, testamentaria o legittima che sia.

Tale inidoneità al giudicato fa sì che resta impregiudicata ogni questione che possa insorgere tra i chiamati, ivi inclusa quella inerente all’acquisto della qualità di erede da parte dell’interrogato per effetto di un atto o di un fatto precedente all’instaurazione del procedimento.

Questa l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c. e 143, disp. att. c.p.c. nuovo testo:

l’actio interrogatoria, di cui agli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c., non è volta a dirimere un conflitto tra diritti perché incide, senza efficacia di giudicato e indipendentemente dal tipo di delazione, testamentaria o legittima, sul solo diritto potestativo del chiamato all’eredità, che ove esercitato attraverso la dichiarazione di accettazione esclude, secondo i casi, la delazione dell’eredità in via succedanea o l’accrescimento a favore di altri chiamati; situazioni, entrambe, cui corrispondono non diritti soggettivi perfetti, ma solo aspettative di diritto, tutelate dall’ordinamento attraverso il suddetto strumento sollecitatorio; da tale inidoneità al giudicato consegue che resta impregiudicata ogni questione che possa insorgere tra i chiamati, ivi inclusa quella inerente all’acquisto della qualità di erede da parte dell’interrogato per effetto di un atto o di un fatto precedente all’instaurazione del procedimento.

Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

3. – Col terzo motivo si allega la violazione o falsa applicazione degli artt. 485 c.c. e 345 c.p.c., in relazione ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c., per avere il giudice d’appello erroneamente accolto la nuova domanda o eccezione, formulata per la prima volta in appello, di acquisto dell’eredità da parte di Ma.Al., in quanto ritenuto nel possesso di beni ereditari.

Sostiene parte ricorrente che in primo grado l’allora convenuto aveva dedotto di aver accettato l’eredità materna in via tacita, ex art. 476 c.c., per cui la Corte territoriale, nell’accertare, invece, un acquisto ai sensi dell’art. 485 c.c., ha violato le precitate norme perché si è pronunciata su domanda basata su di una diversa causa petendi, come tale nuova e proposta tardivamente. Detta parte deduce, altresì, che la Corte d’Appello non ha considerato che anche Ga.Ma. Ma.Al. aveva compiuto atti di accettazione tacita per effetto delle reiterate richieste di divisione del bene ereditario; e ritenendo che l’immobile in questione fosse composseduto da entrambi i chiamati e utilizzato dal solo appellante (odierno resistente) per mera tolleranza da parte dell’altra coerede, avrebbe dovuto ritenere Ma.Al. decaduto dal diritto di accettare l’eredità, in quanto il chiamato che non abbia accettato non può considerarsi possessore dei beni ereditari.

3.1. – Entrambe le censure che compongono il motivo sono manifestamente infondate.

3.1.1. – In ordine alla prima, va osservato che nell’ambito del processo disciplinato dagli artt. 784 e ss. c.p.c. la qualità di erede e l’entità della relativa quota di partecipazione non integra né una domanda né un’eccezione in senso proprio – sicché si esula dall’ambito dell’art. 345 c.p.c. -, ma costituisce il titolo di legittimazione attiva e passiva alla divisione. La questione che su ciò può insorgere (e che, peraltro, è rilevabile d’ufficio al pari d’ogni altra sulla legittimazione: cfr. S.U. n. 9051/16), sia pure soltanto sull’entità delle quote ereditarie, rientra nell’ampio novero delle contestazioni da decidere con sentenza, ai sensi dell’art. 785 c.p.c. E poiché la comunione ereditaria (come del resto tutte le comunioni: v. art. 1100 c.c.) ha ad oggetto diritti autodeterminati, e del tutto irrilevante che il relativo acquisto sia avvenuto in un modo piuttosto che in un altro.

3.1.2. – La seconda censura, poi, non considera la costante giurisprudenza di questa Corte, in base alla quale il possesso dei beni ereditari previsto dall’art. 485 c.c. per l’acquisto della qualità di erede puro e semplice non deve necessariamente manifestarsi in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà dei beni ereditari, ma si esaurisce in una mera relazione materiale tra i beni e il chiamato all’eredità, e cioè in una situazione di fatto che consenta l’esercizio di concreti poteri sui beni, sia pure per mezzo di terzi detentori, con la consapevolezza della loro appartenenza al compendio ereditario: ne consegue che la previsione legale si estende ad ogni specie di possesso, quale che ne sia il titolo giustificativo, e include anche la detenzione a titolo di custodia o di affidamento temporaneo (n. 4835/80; conformi: nn. 1301/77, 683/73, 2067/64, 1319/58, 1735/55 e 2311/53).

Va aggiunto che la tesi di parte ricorrente, lì dove afferma che non potrebbe esservi possesso di beni ereditari senza previa accettazione dell’eredità, mostra di confondere tra beni ereditari e beni ereditati – i primi devoluti al chiamato, i secondi acquistati dall’erede – e in sostanza sopprime, senza avvedersene, lo stesso presupposto dell’art. 485 c.c., che riferisce il possesso dei beni al chiamato e non all’erede.

Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

4. – Il quarto motivo denuncia, in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., la nullità della sentenza e del procedimento, per essersi la Corte distrettuale pronunciata, in violazione dell’art. 345 c.p.c., “su domanda nuova proposta dall’appellante soltanto in grado di appello come si evince a pag. 12) dell’atto di appello e relativa al rigetto della divisione per violazione dell’art. 46 D.P.R. 380/01 “.

Si deduce, a complemento, che sia nel primo atto difensivo che nella comparsa conclusionale di primo grado l’allora convenuto non aveva proposto “censure” in tal senso; e che nonostante la difesa dell’appellata ne avesse eccepito la novità, la Corte palermitana si è pronunciata su tale “questione” (v. pag. 19 del ricorso).

4.1. – Anche tale motivo è manifestamente infondato, atteso che in causa vi è una sola domanda giudiziale, quella di scioglimento della comunione; che domanda e questione non sono sinonimi, sicché neppure l’attributo di novità vale a convertile come tali e ad estendere alla seconda la preclusione prevista dall’art. 345 c.p.c. per la prima; e che il giudice d’appello è tenuto – a differenza di questa Corte di legittimità – ad esaminare le questioni nuove anche se implicanti un accertamento di fatto.

Per il resto, va solo soggiunto che le questioni di nullità sono rilevabili d’ufficio anche quando – come nella specie – si riferiscono non ad un contratto già posto in essere, ma ad una divisione che ne risulti perciò impedita (su cui v. infra).

5. – Col quinto motivo parte ricorrente allega la violazione o falsa applicazione degli artt. 46 D.P.R. n. 380/01 e 720 c.c., nonché la “mancata applicazione dell’art. 34 del predetto D.P.R. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. per non avere il giudice di appello attribuito il bene oggetto di divisione in favore dell’appellata Ga.Ma. avendone ritenuto erroneamente l’incommerciabilità” (così, a pagg. 19-20 del ricorso).

La Corte distrettuale – prosegue parte ricorrente – nel dichiarare improcedibile la domanda di divisione è incorsa in un duplice errore. Il primo consiste nell’aver ritenuto che l’immobile, data la sua infrazionabilità, non fosse attribuibile per l’intero ex art. 720 c.c. a nessuna delle due parti, a causa della parità delle rispettive quote, mentre, invece, il rimedio residuale della vendita è esperibile solo ove non soccorra alcun criterio logico ed oggettivo di preferenza per l’attribuzione. Il secondo deriva dal non aver applicato la norma dell’art. 34 D.P.R. n. 380/01, che disciplina gli interventi e le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, che sono rimossi o demoliti dai responsabili dell’abuso o dal comune a loro spese, e dal non aver considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la parziale difformità dal permesso non è ostativa alla commerciabilità del bene.

5.1. – Il motivo è infondato, anche se sulla base di ragioni di diritto diverse da quelle esplicitate nella motivazione della sentenza impugnata – basata sul precedente stato della giurisprudenza – e di cui s’impone, pertanto, la correzione ai sensi dell’art. 384, ult. comma, c.p.c. (a nulla rilevando l’inesattezza del dispositivo di improcedibilità, in luogo di quello di rigetto rebus sic stantibus, essendo lo stesso sostanzialmente conforme al diritto).

Com’è noto, con sentenza n. 25021/19 le S.U. hanno stabilito, mutando la pregressa giurisprudenza della Corte, che quando sia proposta domanda non endoesecutiva di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.

Nella specie – posto che il carattere non endoesecutivo della domanda di scioglimento della comunione appartiene alla cornice di riferimento comune alle parti, quale si evince sia dal ricorso che dalla sentenza impugnata -, va osservato che la Corte territoriale con apprezzamento di fatto non sindacabile in questa sede di legittimità, ha accertato che l’immobile oggetto di divisione è in parte abusivo.

Actio interrogatoria: non dirime diritti, incide su diritto potestativo

Tanto basta, pertanto, ad escludere che la domanda di scioglimento della comunione possa essere accolta.

Né rilievo alcuno può essere attribuito alla circostanza che la parziale abusività dell’immobile possa – in via di pura ipotesi, ciò non ricavandosi dalla sentenza impugnata – integrare difformità parziali non ostative alla commerciabilità del bene, e regolate solo dall’art. 34 del D.P.R. n. 380/01.

In disparte che tale ultima disposizione esaurisce i suoi effetti nel rapporto di evidenza pubblica tra il comune e i responsabili dell’abuso, e dunque nulla può predicare sulla validità degli atti di diritto privato; ciò a parte, è dirimente quanto segue. In forza del noto arresto di S.U. n. 8230/19, la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.

Tale affermazione di diritto comporta che pure ai fini della divisione non endoesecutiva, che in virtù della sentenza delle S.U. n. 25021/19 sopra citata segue il regime di incommerciabilità del bene, non v’è spazio alcuno per reintrodurre la pregressa distinzione tra difformità totale (impediente) e difformità parziale (non impediente).

6. – In conclusione il ricorso e respinto.

7. – Nulla per le spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

8. – Sussistono i presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 ottobre 2024.

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2024.

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