Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 22 giugno 2016, n. 25815

L’art. 649 c.p.p., nella parte in cui vieta di sottoporre ad un nuovo processo penale per il medesimo fatto un soggetto già giudicato, non può trovare applicazione invece con riferimento all’ipotesi in cui il singolo sia destinatario di sanzioni applicate dal giudice penale e da un’autorità amministrativa

Suprema Corte di Cassazione

sezione III penale

sentenza 22 giugno 2016, n. 25815

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMORESANO Silvio – Presidente
Dott. MANZON Enrico – Consigliere
Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere
Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere
Dott. DI STASI Antonella – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI TORINO;
nei confronti di:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/04/2015 del Tribunale di Asti;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Antonella Di Stasi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. SALZANO Francesco, che ha concluso chiedendo annullamento con rinvio con riferimento ai capi a) e c) e senza rinvio con riferimento al capo b) perche’ il fatto non sussiste.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 10.4.2015, il Tribunale di Asti, pronunciando nei confronti di (OMISSIS), imputato dei reati di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, lo assolveva dal reato ascrittogli al capo b) perche’ il fatto non e’ piu’ previsto dalla legge come reato e per le restanti imputazioni (capi a e c) dichiarava non doversi procedere ai sensi degli articoli 529 e 649 c.p.p., rilevando l’irrogazione di sanzioni amministrative per gli stessi fatti oggetto del procedimento penale.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione per saltum il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino, articolando un unico motivo fondato sulla violazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, e della legge processuale penale in relazione all’articolo 649 c.p.p..
Il ricorrente deduce che il Giudice di merito ha erroneamente qualificato come penale la sanzione amministrativa e come penali i procedimenti sanzionatori relativi alle contestate fattispecie criminose ed ha conseguentemente erroneamente applicato il disposto dell’articolo 649 c.p.p., senza sollevare questione di legittimita’ costituzionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ fondato.
2. La sentenza impugnata e’ viziata da erronea interpretazione dell’articolo 649 c.p.p..
2.1. Va premesso che, come e’ noto, l’articolo 4, del Protocollo n. 7 della CEDU sancisce il c.d. principio del ne bis in idem, laddove stabilisce che “Nessuno puo’ essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale e’ gia’ stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”.
Tale principio, concepito in origine con riguardo esclusivamente agli illeciti penali, viene applicato dalla CEDU anche con riferimento al rapporto tra procedimento penale e procedimento amministrativo o meglio, viene utilizzato con riferimento a quest’ultimo, laddove la sanzione che esso preveda abbia natura sostanzialmente penale.
Nella sentenza Grande Stevens c. Italia, del 4.3.2014, infatti, i giudici della Corte di Strasburgo, hanno affermato che, dopo che sono state comminate sanzioni dalla Consob, l’avvio di un processo penale sugli stessi fatti violerebbe il principio giuridico del ne bis in idem, in virtu’ del quale non si puo’ essere giudicati due volte per lo stesso fatto, in quanto, anche se il processo celebrato innanzi alla CONSOB ha natura amministrativa, le sanzioni inflitte possono essere parificate alle sanzioni penali in considerazione dell’eccessiva afflittivita’ della sanzione sia per l’importo in se’ considerato che per le sanzioni accessorie ed ancora per le loro ripercussioni sugli interessi del condannato.
Premessa ineludibile per l’applicabilita’ del principio del ne bis in idem e’, quindi, l’individuazione della natura penale di una sanzione, che, sulla base della consolidata giurisprudenza della CEDU, va valutata sulla base di tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severita’ della “sanzione” (cfr. sent. Engel e altri c. Paesi Bassi).
2.2. Il Giudice di merito, pacifica l’identita’ del fatto ascritto all’imputato nel presente procedimento rispetto a quello contestatogli in sede amministrativa, ha applicato l’articolo 649 c.p.p., interpretandolo secondo l’articolo 4 Protocollo n. 7 della CEDU e ritenendo che tale previsione normativa debba estendersi anche all’ipotesi, rilevante nella specie, di un provvedimento formalmente qualificato amministrativo ai sensi del sistema normativo italiano ma sostanzialmente afferente alla materia penale, secondo i criteri “Engel”.
Tale applicazione dell’articolo 649 cod. proc. pen. e’ erronea.
2.3. Va ricordato che, a seguito dell’intervento operato dalla Corte Costituzionale con le pronunce gemelle del 24 ottobre 2007, le norme della Convenzione EDU – nell’interpretazione ad esse attribuita dalla Corte Europea per i diritti dell’Uomo – integrano, quali “norme interposte” il parametro fissato dall’articolo 117 Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, condizionando in tal modo il grado di rilevanza e la stessa valutazione dei profili di legittimita’ costituzionale delle norme interne.
Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna ed una norma della Convenzione EDU, il giudice nazionale deve preventivamente verificare la possibilita’ di interpretare la prima in senso conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali parametri di ermeneutica giuridica e, nel caso in cui tale opzione interpretativa risulti impraticabile, egli, nell’impossibilita’ di disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilita’, proponendo la questione di legittimita’ costituzionale con riferimento al parametro sopra indicato.
La questione della diretta disapplicabilita’ da parte del giudice nazionale della norma interna contrastante con la CEDU e’ stata esaminata anche a seguito della ridefinizione dell’assetto delle fonti per effetto della nuova formulazione dell’articolo 6 par. 1 del Trattato di Lisbona, interpretato in relazione all’articolo 52, comma 3, della Carta di Nizza, il cui contenuto consentirebbe di attribuire alle norme della CEDU lo stesso rango del diritto dei Trattati, e la Corte Costituzionale ha chiaramente escluso, con la sentenza n. 80 del 7-11 marzo 2011, che le innovazioni recate dal Trattato di Lisbona abbiano comportato una diversa collocazione della CEDU nel sistema delle fonti.
Ritiene il Collegio che in relazione alla norma in questione non sono praticabili interpretazioni convenzionalmente orientate.
Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte ha messo in luce la ratio composita del ne bis in idem disciplinato dall’articolo 649 c.p.p., per un verso, “presidio al principio di ordine pubblico processuale funzionale alla certezza delle situazioni giuridiche accertate da una decisione irrevocabile” e, per altro verso, espressione di “un diritto civile e politico dell’individuo, sicche’ il divieto deve ritenersi sancito anche a tutela dell’interesse della persona, gia’ prosciolta o condannata, a non essere nuovamente perseguita” (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 – dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro).
Il principio del “ne bis in idem”, finalizzato ad evitare che per lo stesso fatto si svolgano piu’ procedimenti e si adottino piu’ provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro, assume portata generale nel vigente diritto processuale penale, trovando espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza – articolo 28 c.p.p. e segg. -, nel divieto di un secondo giudizio – articolo 649 c.p.p. – e nell’ipotesi di una pluralita’ di sentenze per il medesimo fatto – articolo 669 c.p.p. (Sez. 5, n. 1919 del 10/07/1995, Rv. 202653; Sez. 6, n. 512 del 11/02/1999, Rv. 212864; Sez. 6, n. 1892 del 18/11/2004, dep. 21/01/2005, Rv. 230760; Sez. 1, n. 27834 del 01/03/2013, Rv. 255701).
Gli strumenti preventivi e riparatori che compongono il quadro sistematico all’interno del quale si colloca la disciplina di cui all’articolo 649 c.p.p., presuppongono tutti la comune riferibilita’ dei piu’ procedimenti per il medesimo fatto all’autorita’ giudiziaria penale: e’ dunque tale quadro sistematico, in uno con la considerazione del tenore letterale della disposizione codicistica, che preclude un’interpretazione di quest’ultima che ne estenda l’ambito applicativo a sanzioni irrogate l’una dal giudice penale, l’altra da un’autorita’ amministrativa (Sez. 5 ordinanza n. 1782/2015).
Sulla base del principio del ne bis in idem sostanziale di cui all’articolo 649 c.p.p., sono due le principali e piu’ dirette conseguenze della irrevocabilita’ della sentenza: 1) una negativa, ed e’ il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona e’ stata, in relazione ad esso, gia’ condannata o prosciolta; 2) l’altra, positiva, e’ la forza esecutiva della decisione. Il disposto di cui all’articolo 649 c.p.p., ha un’efficacia preclusiva, impedisce cioe’ la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia gia’ oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex articolo 129 cod. proc. pen.:e’ evidente, dunque, che al fine di poter dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio e’ necessario il soddisfacimento di ambedue i requisiti sopra descritti (Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Rv. 26480).
Questa Corte, inoltre, anche se in data antecedente alla sentenza Grande Stevens e. Italia, si e’ pronunciata nel senso di ritenere che il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter), non si pone in rapporto di specialita’ ma di progressione illecita con il Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, comma 1, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico dell’imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile IVA, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Rv. 255757).
In merito alla questione della duplicazione sanzionatoria dell’illecito di omesso versamento dell’Iva di cui al Decreto Legislativo n. 74/200, articolo 10 ter, pertanto, l’unica via percorribile per dare attuazione al diritto convenzionale di ne bis in idem e’ necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimita’ costituzionale per violazione dell’articolo 117 Cost., comma 1, (in relazione all’articolo 4 Prot. 7 CEDU.
Il Giudice di merito, quindi, avrebbe dovuto constatare la non possibilita’ di interpretare l’articolo 649 c.p.p., in senso conforme alla norma convenzionale e sollevare questione di legittimita’ costituzionale per violazione dell’articolo 117 Cost., comma 1, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 Cedu nella parte in cui non prevede l’applicabilita’ della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta’ fondamentali e dei relativi Protocolli.
2.5. Peraltro, va rilevato che, come emerge dalla sentenza impugnata, non vi e’ prova della definitivita’ dell’accertamento tributario.
Il difetto di prova della definitivita’ dell’irrogazione della sanzione amministrativa, rendono del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio e, pertanto, non puo’ sollevarsi d’ufficio questione di legittimita’ costituzionale.
2.6. Va, poi, rilevato che il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche nel diritto dell’Unione Europea, sulla base della espressa previsione dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE,) norma pure richiamata dal Giudice di merito a fondamento della decisione assunta.
Alla luce del rilevato difetto di prova in ordine alla definitivita’ dell’irrogazione della sanzione amministrativa, peraltro, neppure puo’ considerarsi d’ufficio in questa sede rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 267 TFUE in relazione all’articolo 50 CDFUE, in considerazione del fatto che, pur rientrando la normativa in materia dell’IVA rientra nel campo attuativo del diritto UE, esso rende del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio (Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Rv. 264809, cit.).
2.7. Va, infine, rilevato che, durante la redazione della motivazione della presente sentenza, e’ stata depositata – in data 12.5.2016 – la sentenza della Corte Costituzionale n. 102 dell’8.3.2016, relativa a questioni, formulate dalla Quinta Sezione Penale e dalla Sezione Tributaria di questa Suprema Corte, inerenti il rispetto del principio del ne bis in idem come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in casi di cosiddetto “doppio binario” sanzionatorio, cioe’ in casi nei quali la legislazione nazionale prevede un doppio livello di tutela, penale e amministrativo, con riferimento al settore degli abusi di mercato.
La Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate, per irrilevanza e perplessita’ della motivazione, ha, da un lato, rilevato che “in base alla consolidata giurisprudenza europea, il divieto di ne bis in idem ha carattere processuale e non sostanziale…”, e, dall’altro, ha evidenziato “che spetta innanzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU”.
3. In definitiva, la sentenza impugnata e’ viziata da erronea applicazione dell’articolo 649 c.p.p., e ne consegue l’annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Torino ai sensi del disposto dell’articolo 569 c.p.p., comma 4, dando atto che il P.G. ha impugnato la sentenza soltanto in relazione ai capi a) e c) e che, pertanto, l’annullamento e’ limitato a detti capi.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Torino.

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