Corte di Cassazione, civile, Sentenza|28 gennaio 2025| n. 1923.
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
Massima: In tema di risarcimento del danno da illecito anticoncorrenziale, il termine di prescrizione della relativa azione comincia a decorrere dal momento in cui il titolare sia stato adeguatamente informato o si possa pretendere ragionevolmente e secondo l’ordinaria diligenza che lo sia stato, non solo dell’altrui violazione, ma anche dell’esistenza di un possibile danno ingiusto, il cui accertamento va compiuto senza alcun automatismo, ma sulla base delle condizioni ricavabili dal caso concreto.
Sentenza|28 gennaio 2025| n. 1923. Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
Integrale
Tag/parola chiave: Concorrenza (diritto civile) – In genere concorrenza sleale – Condotta illecita – Risarcimento – Prescrizione – Decorrenza – Individuazione.
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARULLI Marco – Presidente
Dott. DAL MORO Alessandra – Consigliere
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere Relatore
Dott. GARRI Guglielmo – Consigliere
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 29496 R.G. anno 2021
proposto da:
Te.It. Spa, rappresentata e difesa dagli avvocati Lu.Ar., Ma.D., Fr.Ga., Gi.Fa., St.Ve. e St.Gr., domiciliata presso gli avvocati Ma.D. e Gi.Fa.;
ricorrente
contro
CO.30. Spa, rappresentata e difesa dall’avvocato Eu.Mo.;
controricorrente
avverso la sentenza n. 2650/2021 depositata il 13 aprile 2021 della Corte di appello di Roma.
Udita la relazione svolta all’udienza del 30 ottobre 2024 dal consigliere relatore Massimo Falabella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del sostituto procuratore generale Giovanni Battista Nardecchia;
udite le difese delle parti.
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
FATTI DI CAUSA
1. – KP.It. Spa- da qui in avanti KP., oggi CO.30. Spa – ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Roma Te.It. Spa deducendo: che operava nel settore delle comunicazioni elettroniche quale (Omissis) (other licence operator); che svolgeva attività diretta all’acquisto di servizi di accesso all’ingrosso alla rete Te. a banda larga per fornire servizi al dettaglio di trasmissione dati alla clientela business; che con provvedimento del (Omissis), reso in esito al procedimento (Omissis), l’AGCM (Autorità garante della concorrenza e del mercato) aveva contestato a Te. illeciti anticompetitivi posti in essere nel triennio 2009-2011 per aver essa comunicato agli altri (Omissis) un numero ingiustificatamente elevato di KO, o rifiuti di attivazione dei servizi all’ingrosso, mediante predisposizione di un processo di evasione degli ordini più complesso, più oneroso e in ogni caso meno efficiente rispetto a quello previsto per le divisioni commerciali della stessa società; che essa KP. aveva dedotto di aver acquistato servizi di accesso alla rete Te. in detto periodo, subendo un numero elevato di rifiuti di attivazione. La società attrice ha quindi giudizialmente domandato il risarcimento dei danni quantificato in Euro 37.000.000,00.
Te. si è costituita e ha resistito alle domande attrici.
È stata disposta consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare la misura percentuale dei rifiuti di attivazione subiti dall’istante nell’arco temporale oggetto di indagine da parte dell’Autorità garante e allo scopo, altresì, di appurare il danno emergente e il lucro cessante dedotti dall’attrice e il loro nesso di causalità con gli illeciti accertati dall’AGCM, oltre che di pervenire alla quantificazione del pregiudizio patrimoniale
occorso.
Il Tribunale di Roma ha accolto parzialmente le domande attrici dichiarando che le condotte contestate costituivano abuso di posizione dominante, oltre che comportamenti illeciti ex artt. 2598 e 2043 c.c.; ha quindi emesso statuizione inibitoria in danno di Te. e condannato la stessa al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 377.084,00 per danno emergente e in Euro 8.000.000,00 per lucro cessante, oltre interessi e rivalutazione; ha pure disposto la pubblicazione del dispositivo della sentenza su due quotidiani a diffusione nazionale.
2. – Te.It. ha impugnato detta pronuncia e il gravame è stato solo parzialmente accolto dalla Corte di appello di Roma; in particolare, il Giudice distrettuale ha rideterminato il lucro cessante nella minor somma di Euro 5.621.494,80, oltre interessi e rivalutazione.
3. – Avverso la pronuncia della Corte di Roma Te.It. ha proposto un ricorso per cassazione articolato in otto motivi. L’impugnazione è stata resistita da CO.30..
L’impugnazione, dapprincipio avviata alla trattazione camerale, è stata successivamente destinata alla pubblica udienza. Sono state depositate memorie. Il Pubblico Ministero ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
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RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Deve premettersi essere inammissibile la produzione ex art. 372 c.p.c., da parte di Te., del documento denominato “risposta richiesta di assistenza in relazione al giudizio iscritto al n. R.G. 26599/2020”. Il documento, infatti, non riguarda la nullità della sentenza impugnata (quella derivante dai vizi propri della sentenza e, in via riflessa, da vizi radicali del procedimento: per tutte, Cass. 20 ottobre 2023, n. 29221), né l’ammissibilità del ricorso (e cioè la proponibilità, procedibilità e proseguibilità del ricorso medesimo: cfr. Cass. 29 febbraio 2016, n. 3934) e tantomeno il maturare di un giudicato (ipotesi, quest’ultima, in presenza della quale la giurisprudenza di questa Corte pure ammette la produzione documentale: così, ad esempio, Cass. 20 febbraio 2020, n. 4415, dalla cui massima si evince chiaramente che la produzione non può mai riguardare documenti nuovi relativi alla fondatezza nel merito della pretesa).
2. – Col primo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver la Corte di appello deciso il primo motivo di appello di Te. nella parte riguardante l’assenza del nesso causale e dei presunti danni lamentati ex adverso e, comunque, degli artt. 111 Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c. per difetto di motivazione, sempre in relazione a nesso causale e danno. Si deduce che con il primo mezzo di gravame l’odierna ricorrente aveva chiesto alla Corte di appello di accertare, in riforma della sentenza di primo grado, l’insussistenza di una condotta discriminatoria negli specifici confronti di KP. e, indipendentemente dall’accertamento di detta condotta, l’assenza di danno e l’assenza di nesso causale. La Corte di merito si sarebbe invece pronunciata sulle sole doglianze di Te. dirette a negare la condotta discriminatoria, omettendo di statuire sugli altri temi appena indicati. Inoltre, indipendentemente dal menzionato vizio di omessa pronuncia, la sentenza, ad avviso della società istante, dovrebbe ritenersi nulla in quanto la risposta al primo motivo di appello risulterebbe priva di motivazione in relazione alle suddette questioni.
Col secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 1223, 2697 e 2729 c.c., per aver la Corte di merito erroneamente interpretato e applicato i principi in materia di onere della prova e di presunzione in relazione al nesso causale. Si lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto che dall’accertamento di una condotta discriminatoria nei confronti di un determinato concorrente discenderebbe automaticamente una presunzione di sussistenza del nesso causale: presunzione che opererebbe indipendentemente dal tipo di danno che viene concretamente in questione (perdita di clienti o aumento dei costi). Si deduce che, in tal modo, la sentenza violerebbe il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, a tenore del quale nel private enforcement antitrust l’attore ha l’onere di allegare e provare il nesso causale e il danno asseritamente subito. Secondo la ricorrente, inoltre, il Giudice di appello avrebbe impropriamente ritenuto che gli indici statistici fossero sufficienti per accertare il nesso causale e il danno, nonostante: che, in termini generali, i KO possano essere determinati da fattori causali diversi dalle condotte contestate; che Te. avesse dedotto numerosi elementi di prova dell’assenza di nesso causale; che gli stessi dati statistici allegati smentissero la sussistenza di una perdita di clienti. Viene infine rilevato che la Corte di appello avrebbe applicato il ragionamento presuntivo a un quadro indiziario privo delle condizioni previste dalla legge.
Il terzo motivo di impugnazione prospetta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver il Giudice distrettuale erroneamente interpretato e applicato i principi in materia di onere di allegazione in relazione al nesso causale e al danno. Ci si duole che la Corte di appello abbia ritenuto sufficiente che KP. contestasse in maniera generica e indifferenziata i KO comunicatile da Te. senza precisare e delimitare tale difesa attraverso l’individuazione dei KO non giustificati. Si assume che le deduzioni generiche non sono sufficienti a soddisfare l’onere di allegazione gravante sulla parte che agisce in giudizio.
Il quarto motivo di ricorso censura la sentenza impugnata per l’omesso esame dei fatti allegati da Te. che escludevano il nesso causale. Viene rilevato che per dimostrare l’assenza di nesso causale tra le condotte contestate e la pretesa perdita di clienti Te. aveva dedotto quanto segue: KP. aveva attivato, in percentuale, più clienti delle divisioni interne della stessa ricorrente; KP. aveva beneficiato di tempi di lavorazione analoghi a quelli di Te., se non più brevi; non vi era correlazione tra opposizione di KO e andamento della quota
di mercato degli (Omissis); l’andamento della quota degli (Omissis) era stato influenzato da altri fattori, incluse alcune importanti innovazioni regolamentari; KP. non aveva dovuto assumere personale aggiuntivo, pagare straordinari o sostenere altri costi addizionali, rispetto a quelli che avrebbe comunque sostenuto in assenza delle condotte contestate; svariati KO erano stati determinati da errori o comportamenti di KP. e dei suoi clienti; la lavorazione di un ordinativo richiedeva tempi molto contenuti.
3. – I quattro motivi sopra riassunti si prestano a una trattazione congiunta, investendo, da diverse angolazioni, il tema relativo al danno derivante dall’illecito concorrenziale accertato dall’AGCM e al nesso causale intercorrente tra tale illecito e il pregiudizio patrimoniale di cui è stato domandato il risarcimento.
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4. – In proposito, occorre muovere dalle considerazioni svolte, sul punto, dalla Corte di appello nella pronuncia impugnata.
Il Giudice distrettuale ha in sintesi osservato che non era anzitutto consentito porre in discussione la condotta illecita accertata in sede amministrativa e i relativi presupposti di fatto, ossia la posizione dominante di Te. nel mercato all’ingrosso a banda larga in modalità bitstream e l’abuso di tale posizione. Il Giudice distrettuale ha in particolare evidenziato come dall’istruttoria svolta dall’AGCM era emerso che Te. aveva “posto in essere un trattamento sostanzialmente divergente, e quindi ritenuto discriminatorio dall’Autorità, a seconda della provenienza delle richieste di erogazione di servizi all’ingrosso dalle divisioni interne di Te. ovvero dagli (Omissis)”: infatti, per tali divisioni la procedura prevedeva che esse interagissero direttamente con la funzione aziendale denominata (Omissis) costituita nel 2008 all’interno della direzione (Omissis) di Te. e che i loro ordinativi, nel caso di indisponibilità di risorse, fossero posti in sospensione in attesa che le risorse stesse si liberassero, mentre per gli operatori alternativi era previsto che essi dovessero interagire con la funzione aziendale (Omissis) e che le richieste dei medesimi in quei casi “ricevessero invece un KO immediato, per effetto del quale (gli (Omissis)) erano costretti a procedere all’emissione di un nuovo ordinativo e a dare avvio a una nuova ed ulteriore procedura di richiesta di accesso”.
Ha rilevato ancora la Corte merito che, secondo quanto rilevato dall’AGCM, tale condotta determinava che per gli (Omissis) i tempi di lavorazione risultassero ingiustificatamente più estesi rispetto a quelli impegnati dalle divisioni interne di Te., ostacolando, così, la capacità dei detti soggetti “di operare in condizioni di sostanziale parità con la società Te. e, quindi, di poter conquistare parte dei clienti già serviti” da questa. Si legge, ancora, nella sentenza impugnata, che, in conseguenza, nell’ambito dell’accertamento condotto dall’AGCM, l’analisi quantitativa del tasso di insuccesso degli ordinativi di lavoro ha avuto rilievo consistente ma non esclusivo al fine di valutare la condotta di Te., essendosi posto l’accento, quale elemento sintomatico della discriminazione, sul diverso trattamento formale tra processo di delivery interno ed esterno, e cioè su di un processo di evasione degli ordini provenienti rispettivamente degli (Omissis) e dalle divisioni interne di Te. che era espressione di una gestione immotivatamente differenziata; sul punto è stato richiamato il passaggio della sentenza del Consiglio di Stato n. 2479 del 15 maggio 2015, che ha definito, in sede di appello, il giudizio di impugnativa del provvedimento dell’AGCM : passaggio ove è affermato che l’Autorità garante era “partita, nel suo metodo, certamente, dal numero eccessivamente più elevato e perciò significativo dei KO nei confronti degli (Omissis)”, ma ha ” altresì concentrato l’attenzione sulle ingiustificate differenze qualitative tra i due processi”.
La Corte di appello ha spiegato, quindi, che la considerazione, da parte del c.t.u., di un tasso di insuccesso diverso da quello riguardante i c.d. KO netti (e cioè i KO che, riguardando le “richieste elementari”, si erano tradotti nel definitivo rifiuto di attivazione) e concernente, di contro, i c.d. KO lordi (e cioè i rifiuti che avevano riguardato tutti gli ordini di lavoro, indipendentemente dall’esito conclusivo della procedura di attivazione) trovava giustificazione “nei termini in cui l’abuso (era) stato accertato”: in proposito è stato fatto riferimento al rilievo, espresso nel provvedimento dell’AGCM, secondo cui “il numero elevato di KO opposti agli (Omissis), a prescindere dal livello di soddisfacimento effettivo delle richieste di servizio al dettaglio, avrebbe ritardato e reso più farraginoso il processo di attivazione dei nuovi clienti e avrebbe rallentato e reso più costosa l’espansione della base clienti dei concorrenti”. Proprio muovendo dalla ricognizione del consulente d’ufficio, riguardante sia i KO netti che i KO lordi, la Corte di merito ha quindi affermato che Te. aveva riservato a KP. un trattamento discriminatorio potenzialmente produttivo di danni, equivalente a quello riservato agli altri (Omissis).
Quanto alla prova del nesso causale, il Giudice distrettuale ha osservato che esso poteva ricavarsi da presunzioni e che sul punto andava conferito rilievo alle risultanze del provvedimento dell’AGCM, alla circostanza per cui KP., pure estranea al procedimento amministrativo avanti all’Autorità antitrust, era concorrente di Te. (vale a dire dell’impresa in posizione di dominanza di cui era stata accertato l’abuso) e alla discriminazione subita dall’appellata con riguardo ai KO subiti, avendo particolarmente riguardo alla “differenziazione della procedura di delivery rispetto a quella che Te.It. (aveva) riservato alle proprie divisioni interne”. In punto di danno la Corte di appello ha poi richiamato l’accertamento del c.t.u., secondo cui il complesso processo di attivazione aveva ostacolato l’acquisizione di clientela attuale e potenziale, con possibile vantaggio per le divisioni commerciali della ricorrente, e il contenuto del provvedimento dell’AGCM, secondo cui, “avendo Te. reso più difficoltoso ed oneroso l’accesso alla rete per i concorrenti, le quote di mercato di questi ultimi sono aumentate meno di quanto avrebbero potuto fare in uno scenario alternativo nel quale l’abuso non fosse stato posto in essere”. Dopodiché, assumendo come riferimento lo scenario economico del Regno Unito relativo ai servizi a banda larga, la Corte di merito ha evidenziato come la presenza delle condotte anticompetitive in Italia avesse determinato una minor crescita delle quote di mercato degli (Omissis) italiani rispetto a quelli inglesi: il differenziale di crescita è stato poi “tradotto in numero di accessi mancati per gli (Omissis) per ciascuno degli anni interessati e indi, individuato, sulla base delle quote di mercato detenute da KP., il numero di accessi mancati riferibili ad essa, lo si è moltiplicato per il margine di profitto unitario”.
5. – Ora, come è ben noto, nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 33, comma 2, della L. n. 287 del 1990 per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, i provvedimenti assunti dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato e le decisioni del giudice amministrativo, che eventualmente abbiano confermato o riformato quei provvedimenti, costituiscono prova privilegiata in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso (per tutte: Cass. 5 luglio 2019, n. 18176; Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640).
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
Spetta invece a chi si assume danneggiato da tale comportamento illecito fornire la prova del pregiudizio patrimoniale lamentato e del nesso di causalità tra la condotta e il danno. È da osservare, al riguardo, che, in assenza di normativa dell’Unione europea applicabile ratione temporis, spetta all’ordinamento giuridico interno di ogni singolo Stato membro stabilire le modalità di esercizio del diritto di agire per il risarcimento del danno risultante da un abuso di posizione dominante vietato dall’articolo 102 TFUE, a condizione, tuttavia, che siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività (Corte giust. 28 marzo 2019, C-637/17, Cogeco Communications, 42, ove il richiamo a Corte giust. 5 giugno 2014, C 557/12, Kone e a., 24). Va fatta quindi applicazione dei principi del diritto nazionale che regolano l’illecito extracontrattuale, dovendosi sottolineare, in proposito, che il danno cagionato mediante abuso di posizione dominante non è in re ipsa, ma, in quanto conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, deve essere autonomamente provato secondo i principi generali in tema di responsabilità aquiliana (Cass. 10 settembre 2013, n. 20695).
6. – Ciò detto, la Corte di appello ha in sintesi accertato che dalla richiamata condotta discriminatoria, incidente sui procedimenti di attivazione posta in essere da Te., era dipeso un aggravio delle condizioni di attivazione da parte dell’odierna controricorrente, che si era poi tradotta nella perdita della quota di mercato che la stessa avrebbe potuto acquisire nel campo dei servizi di telefonia offerti.
La sequenza logica del ragionamento del Giudice distrettuale in punto di nesso causale è ben chiara: essa muove dalla condotta discriminatoria di Te., che si era tradotta nell’opposizione di un numero di KO maggiore di quello relativo ai KO subiti dalle divisioni interne della ricorrente (nella sentenza impugnata, a pag. 4, è evocato l’accertamento del Tribunale, secondo cui le percentuali di KO su richieste elementari e ordinativi di lavoro di KP. erano superiori non solo a quelle di Te. ma anche a quelle registrate dagli (Omissis)) e conferisce rilievo ai danni per perdita di clientela “che secondo una valutazione di regolarità causale (erano) riconducibili alla condotta discriminatoria” (così il provvedimento impugnato, a pag. 23).
È escluso, dunque, che la Corte di appello abbia mancato di pronunciarsi sul nesso causale e sul danno.
7. – Deve parimenti negarsi che su tali temi sia da ravvisare il vizio di motivazione oggi deducibile in sede di legittimità: vale a dire quell’anomalia motivazionale che si traduce in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, la quale risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 3 marzo 2022, n. 7090; Cass. 25 settembre 2018, n. 22598). Con particolare riguardo al nesso causale tra l’illecito concorrenziale e il pregiudizio lamentato, occorre del resto ricordare che esso ben può essere accertato in termini probabilistici o presuntivi (Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305) e che, in linea generale, spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366, la quale precisa, poi, che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; cfr. pure: Cass. 26 febbraio 2020, n. 5279; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961). Ebbene, l’argomentare della Corte di merito non prospetta una tale incongruità.
Va aggiunto, sempre con riguardo al denunciato vizio motivazionale, che onde assolvere all’onere di adeguatezza della motivazione, il giudice di appello non è tenuto ad esaminare tutte le allegazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga concisamente le ragioni della decisione, così da doversi ritenere implicitamente rigettate le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. 9 febbraio 2021, n. 3126; Cass. 2 dicembre 2014, n. 25509).
8. – Non coglie nel segno, poi, quanto dedotto in ricorso con riguardo alla consistenza numerica dei KO ingiustificati e alla mancata allegazione, da parte di KP., di tali immotivati rifiuti di attivazione. Si è visto, infatti, che l’illecito produttivo del danno risulta essere funzione della condotta discriminatoria posta in atto da Te. con l’adozione di procedure di attivazione che risultavano penalizzanti per l’odierna controricorrente. Come è stato ribadito dal Consiglio di Stato, la condotta di ostacolo tenuta da Te. è consistita nelle differenze strutturali della gestione dei due servizi di attivazione tra gli (Omissis) e le sue divisioni commerciali, e rappresentata da più fattori: dalla intermediazione della divisione (Omissis) nella gestione del servizio di attivazione dei soli operatori esterni; dalla previsione, nella fase iniziale di acquisizione delle richieste degli (Omissis), di una operazione di verifica formale “con buona probabilità di interruzione sul nascere dell’iter in caso di mancata rispondenza alle regole di compilazione”, mentre nell’ambito del processo interno le simmetriche attività di controllo erano affidate alle stesse divisioni commerciali che risolvevano attraverso i cali center gli errori formali nella compilazione dell’ordine e potevano modificare lo stesso nella fase di predisposizione; dalla circostanza per cui, nei casi di indisponibilità di rete, per gli (Omissis) si attivava direttamente il KO, mentre per le divisioni interne operava la sospensione della pratica; dal mancato aggiornamento delle banche dati di Te., evenienza, pure idonea a determinare un maggior numero di richieste che si concludevano negativamente con i KO; dalla circostanza per cui la sospensione del procedimento (operante per le sole divisioni interne di Te.) si manteneva la priorità dell’ordinativo, mentre in presenza del KO era necessario presentare una nuova richiesta di attivazione (Cons. St. 15 maggio 2015, n. 2479, cit., par. 9.2).
Appare evidente, in tale scenario, segnato da discriminazioni idonee a tradursi in una maggiore difficoltà di accesso all’infrastruttura da parte degli (Omissis) e in una correlativa loro perdita di quote di mercato, che le singole motivazioni dei KO siano prive di decisività: e tanto spiega come non possa conferirsi rilievo al tema della carenza di un’allegazione attorea in tal senso (pur dovendosi dare atto, per completezza, che sul piano probatorio il c.t.u. ha comunque dato conto di un “andamento non fisiologico di tali KO”).
D’altro canto, proprio perché il danno si è originato dalle condotte discriminatorie adottate nella gestione dei processi di attivazione, non appare censurabile nemmeno la considerazione, da parte dei Giudici di merito, dei KO lordi, incidenti su ordini di lavoro opposti da Te. a KP.: in buona sostanza tali rifiuti sono stati reputati comunque idonei a rendere più difficoltoso il processo di attivazione, indipendentemente dall’esito finale della richiesta.
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
9. – I primi tre motivi vanno quindi respinti.
10. – Il quarto è inammissibile.
La ricorrente ha formulato una censura di omesso esame di fatto decisivo dando rilievo a proprie deduzioni di cui la Corte di appello non avrebbe tenuto conto. Al di là della controvertibile decisività delle richiamate deduzioni, si osserva che il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. concerne “fatti storici” che chi impugna deve indicare anche nel dato, testuale o extratestuale, da cui risultino esistenti (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415), non essendo quindi sufficiente enunciare il “come” e il “quando” essi siano stati oggetto di discussione processuale. Trattandosi di fatti documentati in giudizio, era in particolare necessario che degli scritti comprovanti i fatti stessi fosse trascritto il contenuto, o che dei documenti in questione fossero riprodotti i passaggi essenziali (Cass. 19 aprile 2022, n. 12481); occorreva altresì specificare in quale sede processuale i documenti medesimi fossero stati prodotti (Cass. 10 dicembre 2020, n. 28184).
Va aggiunto che il Tribunale e la Corte di merito hanno riconosciuto entrambe esistenti il nesso causale: ora, nell’ipotesi di “doppia conforme” ex art. 348-ter, comma 5, c.p.c., è onere del ricorrente indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e del rigetto dell’appello, dimostrando che sono tra loro diverse (Cass. 20 settembre 2023, n. 26934; Cass. 28 febbraio 2023 n. 5947): ciò è mancato.
11. – Col quinto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2600, 2697 e 2729 c.c., per aver la Corte del merito erroneamente interpretato e applicato i principi dell’onere della prova nella responsabilità extracontrattuale in relazione all’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano. Viene rilevato che l’art. 2043 c.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., pone sul presunto danneggiato l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, incluso l’elemento soggettivo; è inoltre dedotto che erroneamente, a supporto delle proprie conclusioni, la Corte di appello avesse richiamato l’art. 2600 c.c.: tale norma non sarebbe applicabile nel caso di specie e sarebbe stata travisata nella sua concreta portata.
12. – Il motivo va disatteso.
Sul punto, occorre distinguere il rilievo che riveste la colpa ai fini dell’accertamento dell’illecito concorrenziale dalla dimensione che tale elemento assume nella diversa prospettiva di una condanna risarcitoria.
Sotto il primo profilo si deve avvertire che per constatare lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante ai fini dell’applicazione dell’articolo 102 TFUE, non è necessario dimostrare l’esistenza di un intento anticoncorrenziale in capo all’impresa in posizione dominante: tale intento costituisce solo una delle numerose circostanze di fatto che possono essere prese in considerazione per accertare l’abuso di posizione dominante (Corte giust. UE 19 aprile 2012, Tomra Systems e altri/Commissione, C-549/10, 20 e 21): l’autorità garante della concorrenza non è dunque tenuta a dimostrare l’intento dell’impresa in questione di escludere i propri concorrenti ricorrendo a mezzi o risorse diversi da quelli su cui si impernia una concorrenza basata sui meriti (Corte giust. UE 12 maggio 2022, ENEL, C-377/20, 64).
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
Sotto il secondo profilo, non vi sono invece ragioni per credere che l’illecito antitrust si sottragga alla regola per cui il risarcimento del danno aquiliano esige il dolo o la colpa del danneggiante, giusta l’art. 2043 c.c..
Ora, la ricorrente deplora l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui all’illecito antitrust sarebbe applicabile la presunzione posta dall’art. 2600 c.c..
Omette però di conferire il giusto rilievo a un ulteriore argomento speso dalla Corte distrettuale, che assurge ad autonoma ratio decidendi del terzo motivo di appello, con cui era stata posta la questione dell’elemento soggettivo dell’illecito dedotto in causa. Ha osservato il Giudice del gravame che la colpa veniva in rilievo “quale violazione di doveri di condotta correlati a rischio specifico di cagionare un danno” e che il principio di equivalence of output, di regolamentazione di settore, non giustificava la farraginosità insita della procedura verso l’esterno che era stata riscontrata dall’Autorità antitrust. La Corte di merito ha dunque di fatto reputato colpevole la condotta di Te., che aveva fatto uso della propria discrezionalità modulando il procedimento di attivazione attraverso scelte che si erano rivelate discriminatorie in danno degli (Omissis): e tale conclusione si accorda con l’accertamento del Consiglio di Stato il quale, nella sentenza n. 2479 del 2015 (par. 9.3), aveva escluso che le soluzioni adottate da Te. fossero imposte da normative di settore e aveva distinto, in proposito, la cornice regolatoria e i criteri di comportamento assunti dall’impresa dominante, “in cui possono annidarsi, nella situazione concreta, condotte con effetti comunque escludenti, sia pure comprese in quel quadro”. Resta solo da osservare che il richiamato accertamento della Corte territoriale investe un profilo di fatto che sfugge, come tale, al sindacato di legittimità.
13. – Il sesto mezzo oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 1227, 2043, 2697 e 2729 c.c., nonché degli artt. 47 e 49 del D.Lgs. n. 259/2003, e delle relative delibere attuative, per aver la Corte territoriale condannato Te. a risarcire presunti danni causati da condotte doverose e aver erroneamente interpretato e applicato i principi in tema di onere della prova in relazione all’an e al quantum del presunto danno. Si lamenta, in proposito, che la Corte di appello abbia mancato di considerare, ai fini risarcitori, la motivazione dei KO opposti, utilizzato un benchmark errato e sovrastimato il preteso danno, incorrendo in plurimi errori di quantificazione dello stesso.
14. – La società ricorrente contesta anzitutto la sentenza impugnata per aver la stessa ritenuto che i KO fossero “uno strumento in quanto tale illecito e idoneo a causare un danno ingiusto”; rileva che la comunicazione di KO è imposta dalle misure regolamentari dettate dall’AGCom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e che, ove siano giustificati dalle circostanze previste dalla regolamentazione di settore, i detti KO non possono determinare l’insorgere di una responsabilità aquiliana. La censura investe il criterio di liquidazione del danno basato sulla considerazione degli “ordinativi aggiuntivi”, ossia degli ordinativi di lavoro inviati da controparte a seguito di un KO, indipendentemente dalle ragioni che avevano portato al rifiuto di attivazione.
In realtà, come si è visto, quel che rileva, sul piano risarcitorio, è la condotta discriminatoria posta in atto da Te., che si traduceva in rifiuti di attivazione e quindi in una maggiore difficoltà di accesso all’infrastruttura da parte di KP.. Per come formulata, dunque, la doglianza si mostra non concludente: la Corte di appello non aveva alcun motivo di distinguere i KO in base alle motivazioni del rifiuto, giacché il danno era riconducibile all’adozione di procedure di attivazione discriminatorie nei confronti degli (Omissis); i KO entravano in gioco quale risultato della condotta illecita, non quale fatto costitutivo della stessa.
Per quanto in precedenza rilevato, poi, non merita condivisione nemmeno l’ulteriore censura con cui si impugna la valorizzazione, da parte della Corte di appello, dei KO intermedi (su singoli ordinativi di lavoro).
15. – La ricorrente deduce, poi, che la Corte di appello avrebbe utilizzato un benchmark inappropriato, che aveva portato a sovrastimare il danno.
Occorre qui ricordare che il Giudice distrettuale ha assunto come scenario ipotetico da confrontare con il dato reale non lo stesso mercato italiano in un’epoca differente, ma altro mercato geografico, quello del Regno Unito. La Corte di merito, a fronte delle eccezioni dell’odierna ricorrente per cui non sarebbe stato possibile individuare lo scenario controfattuale con riferimento a un diverso mercato geografico per un periodo temporale differente, ha osservato che le linee guida della Commissione europea non pongono un limite temporale di riferimento, richiedendo solo che il mercato sia sufficientemente simile, evidenziando che la scelta adottata in sede di merito era “ragionevolmente fondata sulla circostanza che nel 2003-2006 le quote di mercato iniziali degli (Omissis) inglesi erano sovrapponibili a quelli degli (Omissis) sul mercato italiano”, confutando, poi, i rilievi di Te. quanto all’assenza di analogie tra il mercato reale e quello ipotetico, assunto come controfattuale (rilievi basati sulla congiuntura negativa di mercato innescata dalla crisi finanziaria del 2008 e sulle diverse regolamentazioni di settore operanti, rispettivamente, in Italia e nel Regno Unito).
Ora, la società ricorrente non fa questione della mancata osservanza delle richiamate linee guida (contenute nella guida pratica sulla quantificazione del danno nelle azioni di risarcimento fondate sulla violazione dell’articolo 101 o 102 del TFUE, che è un documento di lavoro dei servizi della Commissione e non contiene norme giuridiche) e nemmeno spiega come un ipotetico scostamento dalle stesse possa tradursi in una violazione o falsa applicazione delle prescrizioni di legge richiamate nella rubrica del motivo. Deve rammentarsi, in proposito.
che l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4, c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare non solo le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, ma di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745; Cass. 6 luglio 2021, n. 18998). Le deduzioni svolte, carenti di indicazioni nel senso indicato, si risolvono, quindi, in semplici contestazioni che investono l’accertamento di fatto della Corre di merito e che sono, come tali, inammissibili avanti al Giudice di legittimità.
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
16. – Quest’ultima conclusione si impone per l’ulteriore censura formulata nel motivo, attinente al “danno da trascinamento”, e cioè al pregiudizio determinatosi nel periodo successivo a quello dell’infrazione, il quale è stato insindacabilmente accertato in sede di merito, in conformità, oltretutto, al disposto delle richiamate linee guida, puntualmente evocate nella sentenza impugnata.
17. – La società istante si duole pure della valutazione circa il margine di profitto che ogni linea telefonica avrebbe generato in caso di attivazione (c.d. AMPU). La sentenza è censurata per aver la Corte di appello riconosciuto valenza probatoria a una certificazione proveniente dal collegio sindacale dell’odierna controricorrente (e cioè da un organo interno della parte che se ne era avvalsa) e per il mancato apprezzamento della contestazione, da parte di Te., delle allegazioni avversarie.
In realtà, il Giudice distrettuale ha osservato che il c.t.u. aveva “individuato, sulla base di dati tratti dal collegio sindacale dalla contabilità della società danneggiata, un margine di profitto giudicato attendibile” rispetto a quello esposto in altra relazione di stima: margine di profitto che i consulenti tecnici di parte di Te. avevano “criticato solo con riferimento alla mancata inclusione di ipotetici costi non considerati, dei quali non hanno saputo indicare la concreta incidenza”. Come è evidente, allora, la Corte territoriale, non ha affatto conferito valore probatorio a un documento della parte da cui lo stesso proveniva, ma ha piuttosto valorizzato l’accertamento del consulente tecnico che aveva reputato attendibile la stima di alcuni dati contabili, certificati dal collegio sindacale della società oggi controricorrente, così pervenendo a una stima del margine di profitto che i consulenti tecnici di parte erano stati in grado di criticare solo genericamente. Si è quindi, anche qui, in presenza di un accertamento di fatto che sfugge al sindacato di legittimità: accertamento che si pretende oltretutto di confutare senza prestare osservanza al principio di autosufficienza, visto che il motivo non reca traccia delle indicazioni pertinenti ai documenti in esso richiamati. La ricorrente fa pure menzione della propria contestazione, in primo grado, dei dati di cui qui si dibatte: ma la deduzione non è concludente, in quanto era stato il Tribunale, e non la Corte di appello, a valorizzare il tema della mancata contestazione, da parte di Te., della certificazione rilasciata dal collegio sindacale. Sotto tale profilo la censura manca dunque di aderenza alla ratio decidendi dell’impugnata pronuncia. Merita aggiungere che nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3680).
18. – Altra doglianza concerne la stima dell’incremento dei costi patito dalla controricorrente: stima operata dal consulente tecnico d’ufficio sulla base della documentazione acquisita.
La ricorrente pone, al riguardo, diverse questioni di cui la Corte distrettuale non si è occupata, senza chiarire se le stesse fossero state sollevate in sede di merito e, segnatamente, in appello. Ciò posto, ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (per tutte: Cass. 1 luglio 2024, n. 18018; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430).
19. – Col settimo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2934, 2935 e 2947 c.c., per aver la Corte di appello erroneamente interpretato e applicato i principi in tema di computo del termine di prescrizione. Si lamenta che il Giudice distrettuale abbia respinto l’eccezione di prescrizione sollevata da Te., affermando che il dies a quo del termine di prescrizione non potrebbe precedere la data di pubblicazione del provvedimento dell’Autorità garante. Si osserva che il termine di prescrizione va fatto decorrere dal momento in cui l’illecito può essere percepito nei suoi elementi essenziali e non da quando la presunta vittima abbia avuto piena conoscenza di tutte le circostanze fattuali. Ci si duole che la Corte territoriale abbia ancorato la decorrenza del termine prescrizionale alla data di pubblicazione del nominato provvedimento sul presupposto che solo in quel momento KP. avrebbe avuto accesso ai dati delle divisioni interne di TI. e, quindi, avrebbe potuto confrontarli con i propri. Si rileva che la stessa KP., nel corso della causa, aveva sempre
individuato l’elemento centrale del presunto abuso nel profilo strutturale, legato all’adozione di un processo di delivery differenziato tra (Omissis) e divisioni interne di TI., e che, poiché la presenza di processi differenziati di attivazione delle linee era circostanza nota a tutti gli operatori, la corretta applicazione degli artt. 2935 e 2947 c.c. avrebbe dovuto indurre la Corte di appello a ritenere che KP. aveva percepito (o avrebbe potuto percepire) l’illecito di TI. ben prima della pubblicazione del Provvedimento (Omissis).
Con l’ottavo motivo di ricorso si denuncia per cassazione la violazione degli artt. 111 Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., per difetto di motivazione in relazione al computo del termine di prescrizione. Secondo la ricorrente la risoluzione della questione sulla prescrizione risulterebbe basata su di una motivazione meramente apparente: la sentenza non spiegherebbe, infatti, perché il confronto con i tassi di KO delle divisioni commerciali di Te. sarebbe stato ritenuto indispensabile per percepire il presunto abuso di quest’ultima.
20. – I due motivi di ricorso aggrediscono la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l’eccezione di prescrizione: la Corte di merito ha infatti escluso che la detta prescrizione decorresse dal momento dell’avvio del procedimento amministrativo avanti all’Autorità antitrust. Ha rilevato il Giudice distrettuale che pur essendo KP. un operatore professionale attivo nello stesso mercato in cui operava Te., e cioè un soggetto da cui poteva ragionevolmente attendersi la conoscenza delle dinamiche che interessavano quel mercato, “la peculiarità dell’illecito in esame che va colta nell’eccesso di KO in danno degli (Omissis), frutto di un procedimento di delivery integrante una discriminazione interno-esterno, non può che essere apprezzata attraverso il confronto delle percentuali di insuccessi” in capo ai vari operatori e a Te.. In tal senso, secondo la Corte di appello, pur in presenza della pubblicità dell’avvio dell’istruttoria antitrust, l’attuale controricorrente – soggetto che non aveva preso parte al procedimento amministrativo – non era stato in grado di avvedersi della lesività della condotta posta in atto da Te. “in assenza di dati complessivi cui comparare quelli propri” e in mancanza di una “conoscenza delle diverse concrete modalità del processo di delivery riservato alle divisioni interne”.
21. – Ora, il danno di cui si fa questione nella presente sede rientra tra quelli comunemente denominati lungolatenti, i quali sono caratterizzati dalla presenza di un segmento temporale, di significativa – e perciò non trascurabile – entità, che separa l’insorgenza del danno dalla sua percezione. La lungolatenza del danno fa sì che il titolare del diritto possa dirsi in stato di inerzia, rispetto all’esercizio del diritto risarcitorio, solo a partire dal momento in cui sia adeguatamente edotto delle circostanze dell’illecito concorrenziale: sicché l’azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia (così Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305). Ai fini della decorrenza del termine, quindi, non rileva il momento in cui l’agente compie l’illecito o quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, quanto, piuttosto, il momento in cui la condotta ed il conseguente danno si manifestano all’esterno, divenendo oggettivamente percepibili e riconoscibili (Cass. 6 dicembre 2011, n. 26188; nello stesso senso, cfr. Cass. 5 luglio 2019, n. 18176).
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
Venendo in questione un danno antitrust, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria coincide col momento in cui il titolare sia stato adeguatamente informato – o si possa pretendere ragionevolmente, e secondo l’ordinaria diligenza, che lo sia stato – non solo dell’altrui violazione ma anche dell’esistenza di un possibile danno ingiusto (Cass. 3 aprile 2020, n. 7677; Cass. 19 ottobre 2022, n. 30783, in motivazione). E così, nell’ipotesi in cui a vantare la pretesa risarcitoria da illecito antitrust, che segua un provvedimento decisorio di accertamento dell’illecito e di applicazione delle sanzioni dell’AGCM, sia un’impresa concorrente, che opera nel medesimo settore di quella dominante e dalla quale può ragionevolmente presumersi, secondo la regola della diligenza, che essa osservi e vigili sulle condotte delle altre imprese, miranti ad escluderla dalla competizione, il dies a quo della prescrizione può essere anticipato, rispetto alla data di pubblicazione del provvedimento sanzionatorio, alla data di avvio dell’istruttoria dinanzi all’AGCM, quale momento in cui può ragionevolmente desumersi che l’impresa abbia avuto conoscenza della condotta oggetto dell’istruttoria antitrust e dei suoi effetti anticoncorrenziali, in termini di danno ingiusto, essendo essa stata evidenziata all’esterno con tutti i connotati che ne determinano l’illiceità (così in motivazione Cass. 3 aprile 2020, n. 7677, cit.; cfr. pure la cit. Cass. 19 ottobre 2022, n. 30783).
Ciò non significa, però, che il termine prescrizionale del diritto al risarcimento del danno dell’illecito antitrust posto in essere ai danni di un operatore economico attivo nel medesimo mercato in cui si colloca l’autore della condotta contra ius debba in ogni caso farsi decorrere dall’avvio, nei confronti di quest’ultimo, del procedimento avanti all’AGCM. Occorre, infatti, pur sempre, che il danneggiato abbia avuto precisa percezione del danno da lui sofferto in dipendenza dell’attività illecita del concorrente. In tal senso vanno esclusi rigidi automatismi: l’individuazione del dies a quo della prescrizione non può che dipendere dall’apprezzamento delle singole fattispecie che di volta in volta vengono in questione; come rilevato da questa Corte, l’accertamento quanto alla decorrenza della prescrizione va condotta caso per caso (Cass. 5 luglio 2019, n. 18176, cit., in motivazione; cfr. pure Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305, in tema di intese restrittive, secondo cui l’accertamento circa il momento in cui il danneggiato ha compiuta percezione del danno appartiene al potere del giudice di merito,
insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e coerentemente motivato).
La decisione assunta dalla Corte di appello non prospetta, dunque, i vizi lamentati col settimo motivo di ricorso, posto che, per quanto detto, i principi enunciati da questa Corte non escludono che la prescrizione possa decorrere da un momento successivo all’avvio del procedimento antitrust.
22. – Resta da verificare il ricorrere, o meno, del vizio di apparenza di motivazione denunciato con l’ottavo motivo.
La motivazione è apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. 23 maggio 2019, n. 13977).
Ebbene, nel caso in esame il contenuto delle argomentazioni della Corte di appello è pienamente intellegibile. La detta Corte ha infatti attribuito rilievo a elementi che, al momento dell’instaurazione del procedimento antritrust, sfuggivano alla conoscenza di KP. (le modalità di svolgimento del delivery riservato alle divisioni commerciali di Te., il numero dei KO che riguardavano queste ultime): elementi necessari per comparare, anche sul piano delle concrete implicazioni, i due procedimenti (quello interno e quello esterno) e per avere, in conseguenza, completa percezione del fatto illecito dannoso, e cioè della pregiudizievole discriminazione interno-esterno imputata a Te..
Anche l’ottavo motivo deve essere allora disatteso.
23. – In conclusione, il ricorso è respinto.
24. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
Illecito concorrenza: prescrizione da conoscenza danno
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, in data 30 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2025.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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