Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 gennaio 2024| n. 1319.

Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

Il rendiconto, ancorché per il disposto dell’art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poiché preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere tale divisione ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all’art. 345 c.p.c.

Ordinanza|12 gennaio 2024| n. 1319. Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

Data udienza 18 dicembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Dote – Fattispecie diretta a sostenere i pesi del matrimonio e non ad attuare una liberalità a favore del marito – Nullità dell’atto di disposizione dei beni dotali senza la preventiva autorizzazione del tribunale – Divisione ereditaria – Domanda distinta rispetto all’azione di rendiconto – Necessità di apposita istanza delle parti – Congruità della motivazione – Rigetto

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente

Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere

Dott. PIRARI Valeria – Relatore

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26738/2018 R.G. proposto da

Ba.De., rappresentato e difeso dall’avv. Gi.Pa..

– ricorrenti –

contro

BA.FE., PO.TU., in proprio e quale procuratrice generale dei figli Ba.Al. E BA.GI., e Ba.Ma., rappresentate e difese dagli avv.ti Do.An. Ma. e Lo,Sp.;

– controricorrenti –

BA.GI.

– intimata –

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro n. 1276/2017, depositata il 4/7/2017 e non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre 2023 dalla dott.ssa Valeria Pirari;

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RILEVATO CHE

1. Come risulta dalla sentenza impugnata e, per una migliore comprensione dei fatti di causa, anche dal ricorso introduttivo del presente giudizio, con atto di citazione, notificato tra i 3 ottobre e il 27 dicembre 2006, Ba.De. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Lamezia Terme, le sorelle Ba.Fe. e Ba.Ma., nonché gli eredi del fratello Ba.Gi., ossia la moglie Tu.Po. e i figli Ba.Al., Ba.Gi. e Ba.Gi., chiedendo che venisse dichiarato lo scioglimento della comunione relativa alla casa per civile abitazione, sita in L. T. N., via U. d. M. n. 23, costituita da un appartamento al primo piano, oltre a piano ammezzato, composto da 7 vani e sovrastante soffitta, di proprietà sua e di Ba.Fe. e 6Ba.Ma.; che, previo accertamento sulla divisibilità della parte abitativa attraverso la sua separazione dalla sovrastante soffitta, venisse disposta la sua divisione; che venissero determinate le quote di spettanza in misura proporzionale a quella derivante dagli acquisiti diritti di proprietà, ma computando sulle stesse sia le spettanze e le reintegrazioni a ciascuno dovute in dipendenza a) delle restituzioni da effettuare a favore degli eredi di Ba.Ag. in conseguenza del contratto dotale garantito da ipoteca e stipulato al momento del matrimonio tra i danti causa delle parti, e b) delle somme dovute all’attore dai convenuti per anticipazioni da lui effettuate e, per il ristoro dovutogli per la cessione delle attività commerciali di sua esclusiva spettanza; e che gli venisse assegnata la proprietà dell’intero immobile ovvero di una frazione di esso, con l’eventuale addebito di eccedenza, portando a conguaglio con quanto dovutogli dai convenuti, in solido tra loro, per il godimento ed uso del bene, con relativo arredamento, fruito dai predetti dalla morte di Ba.Ag., ossia dal 30 ottobre 1986, e per i fatti e i motivi richiamati nell’atto.

In particolare, premesso che il bene era stato donato ai quattro figli dal genitore Ba.Al.con rogito del 10 ottobre 1967 per le quote di 1/6 ciascuno in conto di legittima, quanto allo stesso attore e ai figli Giuseppe e Ba.Fe., e di 3/6 in conto di legittima e di disponibile, quanto a Ba.Ma., e che quest’ultima aveva acquistato dagli altri due comunisti la quota di 1/6 con rogito del 25 novembre 1996, il ricorrente aveva dedotto che, in occasione del matrimonio dei propri genitori, Ba.Al. e Ba.Ag., la madre di quest’ultima, Fe.De., aveva iscritto a favore del primo e in danno della figlia, ipoteca sull’immobile a convalida della garanzia prestata sulla somma versata a titolo di dote, ipoteca che, in seguito alla vendita del bene ad Ba.Al., avvenuta in data 12 marzo 1938, era stata dai due coniugi ristretta, benché permanesse l’obbligazione per l’importo intero con essa garantito, sicché andavano computati, a favore dei quattro condividenti, i crediti da loro vantati, in virtù delle necessarie restituzioni, sul valore dell’immobile della quota dotale, la quale risultava pari al 75 per cento del valore stesso. L’attore dedusse, inoltre, di vantare un diritto di credito nei confronti dei fratelli, fondato sugli esborsi e le vendite che aveva dovuto realizzare al fine di salvare il bene dividendo dalle azioni esecutive dei creditori del padre, trovatosi in più occasioni in una grave situazione debitoria, sul finanziamento erogato sia alla sorella Ba.Ma., onde evitarle l’esecuzione forzata sulla casa di abitazione da parte di istituto bancario, sia al fratello Gi., e sulle rendite mensili da lui garantite ai fratelli, sicché, quantunque le somme gli fossero state negli anni restituite, restava comunque il sacrificio da lui fatto, che avrebbe dovuto essere portato in detrazione sui valori immobiliari da attribuirsi nella divisione del bene.

Costituitisi in giudizio, Ba.Fe., Ba.Ma., Po.Tu., Ba.Al. e Ba.Gi. chiesero il rigetto delle domande e, in via riconvenzionale, che venisse assegnata a Ba.Ma. la quota di 1/6 intestata al germano Enrico dell’immobile in questione.

Con sentenza parziale n. 1295 dal 30 ottobre 2009, depositata il 10 dicembre 2009, il Tribunale di Lamezia Terme accertò e dichiarò lo scioglimento della comunione ordinaria vigente tra Ba.De. e Ba.Ma., avente ad oggetto l’immobile in L. T. N., via U. D. M., n. 23, rigettò le conclusioni rassegnate in citazione, disponendo che le quote di divisione fossero determinate con riferimento e in proporzione alle sole quote di proprietà, pari a 5/6 in capo alla convenuta Ba.Ma. e 1/6 in capo a Ba.De., dichiarò l’inammissibilità della domanda riconvenzionale spiegata da Ba.Ma., avente ad oggetto i miglioramenti apportati all’immobile dividendo, rimise la causa sul ruolo per la determinazione delle concrete modalità di divisione, gli eventuali conguagli e la definizione dell’eventuale compensazione tra le reciproche posizioni di debito – credito, e, definitivamente pronunciando, rigettò le domande attoree con riguardo al rapporto processuale tra Ba.De. e Ba.Fe., Ba.Al., Ba.Gi., Ba.Gi. e Po.Tu., e dichiarò la irripetibilità delle spese sostenute dall’attore, con riferimento al rapporto processuale tra quest’ultimo e la convenuta contumace Ba.Gi.

Il giudizio d’appello incardinato da Ba.De., nel quale si costituirono Ba.Fe., Ba.Ma. e Po.Tu., in proprio e quale procuratrice dei figli Ba.Al. e Ba.Gi., nel quale rimase invece contumace Ba.Gi., si concluse con la sentenza n. 1276/2017, pubblicata il 4 luglio 2017, con la quale la Corte d’appello di Catanzaro rigettò il gravame.

2. Contro la predetta sentenza Ba.De., propone ricorso per cassazione sulla base di sette motivi, illustrati anche con memoria. Si difendono con controricorso Ba.Fe., Po.Tu., in proprio e quale procuratrice generale dei figli Ba.Al. e Ba.Gi., e Ba.Ma., mentre è rimasta intimata Ba.Gi.

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CONSIDERATO CHE

1.1 Con il primo motivo di ricorso, si lamenta l’omesso esame dei motivi dell’impugnazione e la violazione, quindi, dell’art. 339 cod. proc. civ., nella parte in cui stabilisce il principio del doppio grado di giurisdizione, e la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non essersi la Corte di merito per nulla pronunciata sulle ragioni del gravame, limitandosi a stendere un frettoloso elenco dei motivi di gravame, cui aveva fatto seguito il richiamo alle argomentazioni della sentenza di primo grado.

1.2 Il motivo è inammissibile.

L’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sussistente sia quando il giudice trascuri di esaminare una domanda od una eccezione, sia quando sostituisca d’ufficio un’azione ad un’altra, a causa del travisamento dell’effettivo contenuto della domanda (Cass., Sez. 3, 6/7/2023, n. 19214), integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo – ovverosia della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello; pertanto, alla mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell’assunta omissione, consegue l’inammissibilità del motivo (Cass., Sez. L, 13/10/2022, n. 29952).

Nella specie, il ricorrente non ha lamentato, in realtà, l’omesso esame di motivi di appello, ma sostanzialmente l’insufficienza della motivazione, essendosi a suo dire i giudici di merito limitati a stilare un elenco delle censure e a dare risposta a ciascuna di esse, aderendo pedissequamente al giudizio già espresso in primo grado.

Ciò comporta l’inammissibilità del motivo, sia perché non è ravvisabile, già alla stregua della sua stessa formulazione, la dedotta omessa pronuncia, sia perché la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, e che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella ‘motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487).

Ne consegue l’inammissibilità del motivo.

2.1 Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 180, 182 e 183 cod. civ., nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 151 del 1975, applicabili al caso in esame in virtù del disposto di cui all’art. 227 della medesima legge, e dell’art. 1253 del medesimo codice, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dall’attuale ricorrente o rilevabile d’ufficio, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito omesso di considerare che con l’atto di vendita e di restrizione di ipoteca, stipulato il 12 marzo 1938 tra De.Fe. e i coniugi Ba.Ag. e Ba.Al., questi ultimi avevano inteso procedere ad un reimpiego della dote, già rilasciata dalla madre di Ba.Ag. al genero Ba.Al. con la costituzione di garanzia ipotecaria sull’immobile di sua proprietà, la quale aveva così cessato di essere costituita da una somma di denaro per conseguire la consistenza dell’immobile acquistato. Ad avviso del ricorrente, i giudici di merito avrebbero, pertanto, dovuto valutare con maggiore attenzione la sua tesi circa il valore disuguale incamerato, da ciascuno dei figli di Ba.Al., in seguito alla donazione della casa, costituente oggetto della dote, e il valore delle obbligazioni restitutorie acquisite in via successoria, in seguito alla morte della madre, per la restituzione della medesima dote. Infatti, alla morte del marito, avvenuta il 11 gennaio 1974, il cui patrimonio si era accresciuto dotis causa, i suoi eredi avrebbero dovuto restituire ad Ba.Ag., ai sensi dell’art. 187 cod. civ., nel testo vigente prima della riforme del 1975, l’immobile che ne era oggetto, in pari quota tra loro, e questo, a causa della donazione per quote impari, non era avvenuto, sicché avevano errato i giudici di merito allorché avevano affermato che il debito degli eredi di Ba.Al., avente ad oggetto la restituzione ad Ba.Ag. dell’immobile oggetto della dote, si era estinto per confusione alla morte di quest’ultima, avvenuta il 30 ottobre 1986, essendo i medesimi eredi subentrati nella titolarità, in pari quota, del credito.

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2.2 Il motivo, già reso difettoso dalla commistione tra critiche motivazionali e vizi di violazione di legge, è parimenti inammissibile.

Occorre, innanzitutto, evidenziare come l’istituto della dote, contemplato dagli artt. 177 e ss. cod. civ., nella versione antecedente alla riforma del diritto di famiglia intervenuta con la legge 19 maggio 1975, n. 151, e tuttora vigente per le doti costituite prima dell’entrata in vigore di tale legge (Cass., Sez. 1, 5/11/1982, n. 6094), come nella specie, consistesse nei beni che la moglie o altri apportava espressamente a questo titolo al marito per sostenere i pesi del matrimonio e che transitavano o meno in proprietà a quest’ultimo a seconda che fossero beni mobili o immobili, posto che, a mente dell’art. 182, primo comma, mentre la stima dei primi determinava l’acquisto della proprietà in capo al marito, salva dichiarazione contraria, trasmettendosi la proprietà per il semplice consenso legittimamente manifestato dalle parti, il trasferimento della proprietà dei secondi esigeva un ulteriore atto, ossia la specifica dichiarazione di trasferimento, in assenza della quale la costituzione in dote non era sufficiente ad operare il trasferimento e dette cose non diventavano di proprietà del marito (Cass., Sez. 2, 1/3/2007, n. 4866).

In sostanza, secondo il testo originario dell’art. 182, secondo comma, cod. civ. (poi sostituito dalla legge 19 maggio 1975, n. 151), se erano costituiti in dote beni immobili stimati, ma non vi era espressa dichiarazione che attribuisse la proprietà al marito, nei confronti di detti beni la costituzione in dote non poteva considerarsi sufficiente ad operarne il trasferimento, con la conseguenza che gli stessi non diventavano di proprietà del marito e rimanevano nella titolarità della moglie (Cass., Sez. 2, 1/3/2007, n. 4866).

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Peraltro, nella c.d. dote di specie, ossia quella costituita da immobili stimati al solo scopo di determinarne il valore e cioè taxationis e non venditionis causa, il marito aveva, sui frutti dotali, un vero e proprio diritto di proprietà, ancorché correlativo all’obbligo, a lui imposto dalla legge, di provvedere ai bisogni della famiglia (Cass., Sez. 1, 22/11/1971, n. 3369).

Il marito, durante il matrimonio, aveva la gestione dei beni dotali, di cui diveniva amministratore e, in caso di proprietà rimasta alla moglie, usufruttuario (in tal senso, Cass., Sez. 2, 11/11/1986, n. 6597) e, una volta sciolto il matrimonio, era tenuto a restituirli senza dilazione quando la moglie ne aveva conservato la proprietà oppure un anno dopo lo scioglimento del vincolo quando ne era divenuto proprietario, richiedendosi comunque, pur in presenza di tale obbligazione legale, la proposizione di specifica domanda nel giudizio avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo (Cass., Sez. 1, 15/11/1982, n. 6094).

Infatti, come pacificamente sostenuto da questa Corte, qualora le parti avessero voluto realizzare gli scopi dell’istituto dotale, andava escluso qualsiasi intento liberale della moglie nei confronti del futuro marito, essendo la dote diretta non già ad attuare una liberalità a favore di uno dei coniugi, bensì a sostenere i pesi del matrimonio, con precisi doveri di amministrazione, di impiego e di restituzione dei beni conferiti a carico del marito (Cass., Sez. 2, 20/5/1977, n. 2096).

La costituzione della dote, in quanto atto di trasmissione o trasferimento della proprietà o del godimento di beni destinati a sovvenire le esigenze della famiglia e a sostenere i pesi del matrimonio, determinava l’assoggettamento degli stessi al vincolo della inalienabilità e della inespropriabilità, sì da richiedere la forma scritta come tutte le convenzioni matrimoniali ex art. 162 cod. civ. (Cass., Sez. 2, 1/3/2007, n. 4866) e la trascrizione del relativo vincolo, siccome avente effetto costitutivo (Cass., Sez. 1, 4/5/1966, n. 1125), derivando dalla violazione di tali limiti la lesione di un interesse del marito, che poteva, perciò, spiegare autonomamente azione nei soli confronti di chi, sul fondamento di una alienazione contra legem, allegasse di avere diritto ad un’attribuzione patrimoniale, lesiva della dote (Cass., Sez. 2, 4/5/1966, n. 1125).

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Pertanto, con riguardo al bene dotale, nella disciplina degli artt. 187 – 190 (vecchio testo) cod. civ., la mancanza dell’autorizzazione del tribunale, prescritta per la vendita del bene medesimo, comportava la nullità (e non l’annullabilità) del contratto definitivo (Cass., Sez. U, 12/2/1985, n. 1167), a meno che le parti non avessero subordinato alla preventiva autorizzazione del tribunale il loro accordo e l’avessero poi conseguita (Cass., Sez. 2, 23/5/1975, n. 2047), richiedendosi comunque, anche quando l’alienazione dei beni dotali immobiliari fosse consentita dall’atto costitutivo senza autorizzazione del giudice, il consenso del marito, che doveva essere rilasciato secondo i requisiti di forma di cui agli artt. 1350 e 2721 cod. civ. (Cass., Sez. 1, 7/4/1971, n. 1034).

La nullità da cui era affetto l’atto di disposizione dei beni dotali senza la preventiva autorizzazione del tribunale, a norma degli artt. 187 e 190 cod. civ., era considerata, tuttavia, da questa corte sui generis, in quanto non poteva essere rilevata ex officio, ma solo su domanda della parte interessata o autorizzata dalla legge a proporla (nel caso, il marito oppure la moglie) (in tal senso, Cass., Sez. 2, 14/2/1962, n. 294).

Tutto ciò premesso, deve osservarsi come, nella specie, il ricorso non contenga alcun elemento atto a far comprendere quale fosse l’oggetto della dote, ora descritto in termini di somma di denaro, ora di sua modifica con successiva sua consistenza di immobile, né alcuna indicazione in merito al contenuto dell’atto di donazione in favore dei figli e alla partecipazione ad esso di uno o di entrambi i coniugi e soprattutto del marito, né alle prescrizioni decise dal tribunale con l’autorizzazione rilasciata, non avendo il ricorrente provveduto a riportare la trascrizione degli elementi essenziali di tali atti o a richiamare per relationem i relativi documenti, onde consentire a questa Corte di verificare per tabulas quale fosse l’oggetto di tali pattuizioni, se l’immobile fosse transitato nella proprietà del marito, se residuasse a suo carico l’obbligo restitutorio prescritto dalla legge (artt. 193 e 194 cod. civ.) e, infine, se vi fosse la definitiva dismissione della proprietà in favore dei figli decisa da entrambi i coniugi e autorizzata dal tribunale, in contrasto con il n. 6 dell’art. 366 cod. proc. civ., che impone di indicare specificamente gli atti processuali e i documenti sui quali il ricorso si fonda (vedi Cass., Sez. 5, 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. 5, 15/01/2019, n. 777), mediante la riproduzione diretta o indiretta del contenuto che sorregge la censura, precisando, in quest’ultimo caso, la parte del documento cui quest’ultima corrisponde (Cass., Sez. 5, 15/07/2015, n. 14784; Cass., Sez. 6 – 1, 27/07/2017, n. 18679) e i dati necessari all’individuazione della sua collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (vedi Cass., Sez. 5, 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. 5, 15/01/2019, n. 777).

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Consegue da quanto detto l’inammissibilità del motivo.

3. Con il terzo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2699, 2700 e 2702 cod. civ. in tema di efficacia dell’atto pubblico e della scrittura privata, dell’art. 2909 cod. civ. in tema di cosa giudicata, e dell’art. 1203 cod. civ., in tema di surrogazione legale, nella parte della sentenza in cui si escludeva che il pagamento effettuato dal ricorrente in favore della Banca Popolare di Nicastro fosse stato disposto al fine di saldare debiti al cui pagamento erano tenute in solido le parti e in cui si affermava che non vi era prova che il pagamento fosse stato effettuato con denaro proprio del Ba.De., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dall’attuale ricorrente o rilevabile d’ufficio, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.. Il ricorrente ha, sul punto, dedotto che, in seguito all’emissione di decreto ingiuntivo in favore della Banca Popolare di Nicastro contro i genitori, l’istituto di credito, in data 15 gennaio 1968, aveva effettuato iscrizione ipotecaria anche sull’immobile oggetto di dote e del presente giudizio e che, in seguito all’atto di donazione del 10 ottobre 1967, i donatari avevano, implicitamente, assunto l’impegno di restituire alla madre l’immobile in cui si concentrava la dote, sicché avrebbero dovuto far fronte alle garanzie reali gravanti sull’immobile non in parti uguali, ma in ragione delle diverse quote loro attribuite. I giudici di merito non avevano, invece, considerato che il debito vantato dalla banca fosse stato pagato dal solo ricorrente, come risultava dalla transazione documentata dai verbali del consiglio di amministrazione del medesimo istituto bancario prodotti in giudizio, e che perciò, in applicazione dell’art. 1203 cod. civ., gli andasse riconosciuto il diritto di ampliamento della sua quota nei limiti del debito da lui onorato e consacrato nella donazione del 10 ottobre 1967, oltre ad avere convalidato la sentenza di primo grado, benché non vi fosse prova del suo passaggio in giudicato.

4. Con il quarto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., nella parte in cui i giudici di merito avevano ritenuto non applicabile l’accrescimento della quota di eredità del ricorrente, e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dall’attuale ricorrente o rilevabile d’ufficio, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., per non avere i giudici di merito considerato che i crediti da lui vantati costituivano obbligazioni in solido contratte per la cosa comune, in quanto insorti al fine di salvare da azioni esecutive la casa dividenda, peraltro oggetto di comunione ordinaria e non ereditaria, come invece sostenuto dai giudici, e dalle esposizioni debitorie del padre.

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5. Il terzo e quarto motivo, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connessi, resi anch’essi difettosi dalla commistione tra critiche motivazionali e vizi di violazione di legge, sono altrettanto inammissibili.

Con riguardo al credito asseritamente proveniente dal pagamento, da parte del ricorrente, del debito contratto dai germani Ba. con la Banca popolare di Nicastro, i giudici di merito hanno fondato la decisione di rigetto sulla base di due ordini di motivi, escludendo, per un verso, che il pagamento effettuato dall’attore fosse stato disposto al fine di saldare debiti ereditari e, per altro verso, che vi fosse la prova che il pagamento fosse avvenuto con proventi propri, essendo stato, invece, dimostrato che il denaro appartenesse a Ba.Al., in quanto derivante da un credito recuperato da terzi.

Orbene, le doglianze proposte dal ricorrente risultano, all’evidenza, inammissibili in quanto volte ad un nuovo apprezzamento della prova documentale per accreditare innanzi a questa Corte di legittimità un nuovo e rinnovato giudizio in relazione alla provenienza delle somme utilizzate per pagare l’istituto di credito.

Peraltro, nonostante il lamentato vizio di omesso esame di fatto decisivo, ai sensi del novellato articolo 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., unico strumento attraverso il quale è possibile oggi sindacare, con ricorso per cassazione, il tessuto argomentativo di un provvedimento impugnato in sede di legittimità, laddove quest’ultimo dovesse omettere l’esame di un “fatto storico”, oggetto di discussione tra le parti e decisivo ai fini dell’adozione della decisione giudiziale (Cass., Sez.1, 12/5/2023, n. 13112), il ricorrente non ha esplicitato quale sarebbe il fatto storico omesso, tale essendo non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 cod.civ., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo” (Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761, Rv. 641174; cfr. anche Cass. Sez. 5, 05/02/2011, n. 2805, Rv. 616733) e, dunque, non le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass., Sez. 2, 31/3/2022, n. 10525), ciò che, invece, è accaduto nella specie.

Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

6. Col quinto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 723 cod. civ., nella parte in cui i giudici di merito avevano ritenuto che, in relazione agli incrementi delle quote, ad eventuali crediti per il pagamento dei frutti civili e a crediti per eventuali risarcimenti, andasse proposta una distinta ed autonoma domanda di rendiconto, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dell’attuale ricorrente o rilevabile d’ufficio, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.. Ad avviso del ricorrente, infatti, l’art. 723 cod. civ. non stabiliva una precisa modalità di rendiconto, né imponeva il ricorso alla procedura di cui all’art. 263 e ss. cod. civ., la cui adozione era meramente facoltativa e affidata alla scelta discrezionale del giudice di merito, e che il coerede, che avesse goduto in esclusiva dei beni ereditari, era obbligato in ogni caso al rendiconto e a corrispondere i frutti agli altri eredi dall’apertura della successione. Peraltro, l’obbligo del rendiconto doveva considerarsi, nella specie, implicito nella domanda proposta.

7. Col sesto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1115 cod. civ., nella parte in cui i giudici di merito avevano ritenuto che l’appellante avesse posto l’accento sulla circostanza che i debiti paterni andassero considerati quali debiti ereditari, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dall’attuale ricorrente o rilevabile d’ufficio, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.. Ad avviso del ricorrente, i giudici di merito avevano interpretato erroneamente la domanda proposta, nella quale non era stato affatto detto che i debiti paterni andavano considerati quali debiti ereditari, ma che le spese e le anticipazioni da lui effettuate riguardavano il bene comune acquisito dai quattro fratelli in virtù della donazione del 1967 ed erano state effettuate a titolo di pagamento di un debito solidale, per il quale, non avendo ottenuto il relativo rimborso, sussisteva il suo diritto a concorrere alla divisione per una maggiore quota. Pertanto, le relative cause, ancorché autonome e distinte dalla domanda di divisione, non potevano che essere a questa legate, siccome aventi ad oggetto un’obbligazione solidale contratta per la cosa comune e finalizzata al suo mantenimento libera da vincoli pregiudizievoli. Non era, dunque, condivisibile l’argomentazione dei giudici, secondo cui il rimborso della somma corrisposta alla Banca Popolare era già stata proposta in altro giudizio, in quanto la medesima questione avrebbe dovuto essere valutata anche ai fini della divisione, specie in presenza della prova che il debito era stato saldato dal solo ricorrente.

8. Il quinto e il sesto motivo, da trattare congiuntamente, anch’essi resi difettosi dalla commistione tra critiche motivazionali e vizi di violazione di legge, sono infondati.

In disparte l’inammissibilità della censura riportata al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. per gli stessi motivi indicati nel punto che precede, la questione sottoposta al vaglio di questa Corte attiene, in particolare, alle modalità con le quali la parte ha chiesto l’accrescimento della quota ex art. 1115 cod. civ. in ragione dei crediti vantati a titolo di frutti civili e per eventuali risarcimenti, che la corte d’appello ha rigettato sul presupposto che andasse proposta con una distinta e autonoma domanda di rendiconto.

Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

Come recentemente chiarito da questa Corte, nel caso in cui taluno dei condividenti affermi, ai sensi dell’art. 1115 cod. civ., di avere diritto ad un incremento della propria quota per aver pagato un debito in solido per la cosa comune senza ottenere alcun rimborso, non è possibile procedere all’assegnazione di immobili non divisibili senza aver prima accertato i rapporti di credito e di debito tra i condividenti, spiegandosi detta regola, applicabile anche alla comunione ereditaria, in considerazione di quanto prescrive l’ultimo comma della norma, secondo cui “il partecipante che ha pagato il debito in solido e non ha ottenuto i rimborso concorre nella divisione per una maggiore quota corrispondente al suo diritto verso gli altri condividenti” (Cass., Sez. 2, 6/10/2021, n. 27086).

Posto che “lo scopo della resa dei conti è quello di rendere definitivi e, quindi, liquidi debiti e crediti di ciascun condividente verso gli altri, determinati da eventuali atti di godimento separato di beni comuni o da eventuali atti di amministrazione compiuti nell’interesse comune” (Cass., Sez. 2, 6/10/2021, n. 27086 cit.), la ragione per la quale l’art. 723 cod. civ., nello stabilire l’ordine delle operazioni divisionali, esige che la resa del conto tra condividenti avvenga prima della “formazione dello stato attivo e passivo dell’eredità” risulta chiara da quanto dispone il secondo comma dell’art. 724 cod. civ., secondo cui ciascun coerede deve “imputare alla sua quota” non solo le somme di cui era debitore verso il defunto, ma anche “quelle di cui è debitore verso i coeredi in dipendenza dei rapporti di comunione”, cioè per debiti relativi alla gestione della comunione, mentre sono esclusi dall’imputazione i debiti che hanno una genesi diversa (in tal senso Cass., Sez. 2, 6/10/2021, n. 27086 cit. Vedi anche Cass., Sez. 2, 11/5/1967, n. 975; Cass., Sez. 2, 21/3/1977, n. 1100).

“Dal combinato disposto del secondo comma dell’art. 724 e del primo comma dell’art. 725 c.c. si evince”, poi, che “nel giudizio di divisione il giudice, prima della formazione delle singole porzioni, deve imputare alla quota del coerede le somme di danaro delle quali il medesimo sia debitore verso gli altri coeredi in dipendenza dei rapporti di comunione e poi disporre a favore dei condividenti che siano creditori a tale titolo, il prelievo di beni dalla massa in proporzione delle loro rispettive quote, ripartendo, infine, i beni ereditari residui tra i partecipanti alla comunione” (Cass., Sez. 2, 11/4/1987, n. 3617).

L’art. 1115 cod. civ. realizza un sistema simile a quello che avviene con il sistema dei prelevamenti, previsto dagli artt. 724 e 725 cod. civ. per il regolamento dei debiti dipendenti dalla comunione nella divisione ereditaria, in quanto attribuisce al partecipante che, tenuto in solido, abbia pagato un debito comune prima dello scioglimento, il diritto di regresso verso gli altri, il quale può essere esercitato anche prima della divisione a norma degli artt. 1101 e 1298 c.c. e, a fortiori, all’atto dello scioglimento, attraverso l’assegnazione di una porzione maggiore ai sensi del terzo comma della norma, sicché, se il debito eccede il valore della quota del debitore, l’imputazione ha luogo in modo ideale fino a concorrenza del valore della quota stessa ed in modo effettivo per la parte corrispondente all’eccedenza, che deve essere versata dal debitore (in tal senso Cass., Sez. 2, 6/10/2021, n. 27086).

Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

Ebbene, il rendiconto, ancorché per il disposto dell’art. 723 cod. proc. civ. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, in quanto preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone tuttavia in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere la divisione giudiziale ex art. 1111 cod. civ. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio di divisione, purché vi sia apposita istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo (Cass., Sez. 2, 4/2/2002, n. 1458; Cass., Sez. 2, 10/10/2018, n. 25120).

La resa dei conti, di cui all’art. 723 cod. civ., la cui ratio risiede nel fatto che chiunque svolga attività nell’interesse di altri deve portare a conoscenza di questi, secondo il principio della buona fede, gli atti posti in essere e, in particolare, quegli atti da cui scaturiscono partite di dare e avere, infatti, oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio e quindi finalizzata a calcolare, nella ripartizione dei frutti, le eventuali eccedenze attive o passive della gestione e a definire conseguentemente tutti i rapporti inerenti alla comunione, può anche costituire obbligo a sé stante, fondato, al pari di quanto può avvenire in qualsiasi stato di comunione, sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da alcuno dei partecipanti, in base ad assunzione volontaria o ad un mandato ad amministrare (Cass., Sez. 2, 16/7/2018, n. 18857. Anche Cass. 30/12/2011, n. 30552; Cass. 7/6/1993, n. 6358; Cass. 13/11/1984, n. 5720).

Ne consegue che l’azione di rendiconto può presentarsi distinta e autonoma rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, ancorché l’una e l’altra abbiano dato luogo a un unico giudizio, di modo che – tranne che per la comunanza di eventuali questioni pregiudiziali, attinenti, ad esempio, all’individuazione dei beni caduti in successione o all’identità delle quote dei coeredi, da risolvere incidenter tantum o con efficacia di giudicato (art. 34 cod. proc. civ.) – le due domande possono essere scisse e ciascuna può essere decisa separatamente senza reciproci condizionamenti (in questi termini, Cass., Sez. 2, 16/7/2018, n. 18857. Anche Cass., Sez. 2, 30/12/2011, n. 30552; Cass., Sez. 2, 4/6/2019, n. 15182, secondo cui la domanda riconvenzionale con la quale si intende chiedere il rendiconto deve essere proposta, a pena di inammissibilità, con la comparsa di risposta ai sensi dell’art. 167 cod. proc. civ.).

Nell’ambito del giudizio di divisione, dunque, il giudice non può disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, mentre resta meramente facoltativa la procedura di cui agli artt. 263 e seguenti cod. proc. civ., rientrando l’ammissione del rendiconto nei poteri discrezionali del giudice di merito, il quale può preferire il ricorso ad altri mezzi di prova (Cass., Sez. 2, 19/2/1997, n. 1509; Cass., Sez. 2, 9/1/1979, n. 115).

Alla stregua di tali principi, deve, pertanto, ritenersi che i giudici di merito non abbiano errato, allorché hanno affermato che i crediti per eventuali risarcimenti e quelli per i frutti prodotti non potessero dar luogo all’accrescimento della quota in assenza di un’autonoma e distinta istanza di rendiconto, non potendo la stessa considerarsi implicitamente proposta con la domanda di accrescimento della quota, e che non possa neppure rimettersi in discussione l’accertamento da essi compiuto in ordine alla provenienza del denaro dallo stesso de cuius e non dal ricorrente, siccome circostanza di carattere esclusivamente meritale.

Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

Ne consegue l’infondatezza della censura.

9. Col settimo motivo, infine, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1720 cod. civ., nonché dell’art. 342 cod. proc. civ., nella parte in cui i giudici di merito avevano ritenuto inammissibile, per essersi formato il giudicato, la doglianza relativa all’applicabilità al caso di specie delle norme sul mandato, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dall’attuale ricorrente o rilevabile d’ufficio, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., avendo l’appello avuto ad oggetto anche la contestazione della sentenza di primo grado relativamente alla mancata applicazione di tale disposizione, ciò che avrebbe imposto al giudice di secondo grado di valutarla.

10. Il motivo, già reso difettoso, come gli altri, dalla commistione tra critiche motivazionali e vizi di violazione di legge, è inammissibile.

Deve, infatti, trovare applicazione il principio secondo il quale, in tema di impugnazioni, qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (Cass., Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3951; Cass., Sez. 2, 30/3/2022, n. 10257).

Ebbene, il ricorrente, pur avendo i giudici di merito respinto il motivo d’appello, afferente all’applicabilità delle norme sul mandato, sotto il duplice profilo della sua inammissibilità, per essersi sul punto formato il giudicato, e della sua infondatezza, per essere condivisibile il percorso logico seguito dal Tribunale sul punto, si è limitato a censurare la sola prima parte della predetta argomentazione, senza intaccare, invece, il richiamo per relationem alla sentenza di primo grado che aveva ritenuto la doglianza infondata nel merito, ciò che comporta l’inammissibilità della censura.

11. In conclusione, dichiarata l’inammissibilità del primo, secondo terzo, quarto e settimo motivo e l’infondatezza del quinto e del sesto, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo sulla base degli atti, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.

Il rendiconto non si pone in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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