Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|29 gennaio 2025| n. 2091.
Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
Massima: L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore, denunciabile con il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione ai sensi degli artt. 111, ottavo comma, Cost. e 362, primo comma, cod. proc. civ., è configurabile solo quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti applichino, non la norma esistente, ma una norma da essi creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non compete loro. E’ esclusa da tale fattispecie l’individuazione della regula iuris fatta attraverso l’interpretazione, pure estensiva od analogica, delle norme di riferimento, cosicché eventuali errori ermeneutici, anche se comportanti uno stravolgimento radicale della norma, non integrano la fattispecie di eccesso di potere giurisdizionale, ma si traducono in una legittimità del suo esercizio.
Ordinanza|29 gennaio 2025| n. 2091. Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
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Tag/parola chiave: Eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera legislativa – Corte dei Conti – Attività ermeneutica – Limiti – Esclusione eccesso di potere
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente Aggiunto
Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sezione
Dott. TRIA Lucia – Presidente di Sezione
Dott. GIUSTI Alberto – Presidente di Sezione
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere
Dott. CRUCITTI Roberta – Relatore
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al n. r. g. 1168-2024 proposto da:
Pe.Pi., rappresentato e difeso dall’avvocato GI.GR.;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 150/2023 della CORTE DEI CONTI – II SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO – ROMA, depositata il 29/05/2023. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2024 dal Consigliere ROBERTA CRUCITTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale PAOLA FILIPPI, il quale chiede che la Corte di Cassazione, a Sezioni unite, dichiari inammissibile il ricorso.
Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
FATTI DI CAUSA
La Procura presso la Corte dei Conti dell’Emilia Romagna citava in giudizio Pe.Pi., professore a tempo pieno presso la facoltà di ingegneria dell’Università di B, contestandogli di avere svolto tra il 1997 e il 2014, incarichi extra lavorativi di natura autonoma con caratteristiche di continuità e abitualità, senza darne comunicazione all’Università, tali da configurare l’esercizio di un’attività libero-professionale inibita e incompatibile con il ruolo di docente universitario a tempo pieno. Per la Procura il professore era incorso in una fattispecie di responsabilità erariale che lo obbligava a risarcire l’Ateneo in misura pari agli emolumenti ricevuti per tali incarichi, in applicazione dell’art. 53, commi 7 e 7 bis, del D.Lgs. n.165 del 2001.
La Sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con sentenza n. 291/2018, dichiarava la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per tutti gli emolumenti percepiti dal prof. Pe.Pi. anteriormente al 2012 o, in mancanza di un dato oggettivo, dai momento dell’emissione delle fatture di pagamento. Assolveva il convenuto, nel merito, in relazione a sole due fatture, le uniche non ritenute prescritte, ritenendo non sussistente l’elemento soggettivo.
Tale pronuncia, appellata dalla Procura regionale, veniva riformata dalla Sezione II centrale di appello che, con sentenza n. 165/2021, condannava Pe.Pi. al risarcimento del danno in favore dell’Università “(Omissis)” per un importo pari ad euro 8.800,00 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali per le due fatture non rientranti nella prescrizione; per tutti gli altri crediti dichiarava l’erroneità della pronuncia di intervenuta prescrizione e rimetteva la causa al primo giudice.
Il giudizio, riassunto dalla Procura regionale, veniva deciso con la sentenza n. 386/2021 con la quale, in accoglimento della domanda risarcitoria, Pe.Pi., riconosciuto responsabile, veniva condannato al pagamento di euro 293.656,94 comprensivi di rivalutazione monetaria.
La Corte dei Conti, Seconda Sezione Giurisdizionale Centrale di Appello, con sentenza n. 150/2023, depositata il 29 maggio 2023, in parziale accoglimento dell’appello proposto da Pe.Pi. e a parziale riforma della sentenza resa dalla Sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, rideterminava l’importo della condanna inflitta all’appellante in comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi, dalla data di deposito della sentenza al soddisfo, da versarsi in favore dell’Università di B “(Omissis)”. Poneva a carico dell’appellante le spese del giudizio.
Per quello che qui ancora rileva, in considerazione del capo di sentenza espressamente censurato in ricorso, la Corte dei conti, in parziale accoglimento dell’appello (quarto motivo) ha ritenuto provato che alcune fatture (del periodo 2007-2013) fossero relative a espletamento di consulenze tecniche di ufficio per il quale non era necessaria l’autorizzazione da parte dell’Amministrazione, e ha, quindi, espunto il relativo importo (pari a euro 115.965,38) dall’indebito richiesto. Quanto, invece, alle attività professionali antecedenti al 2006 (periodo 1997/2005), la Corte dei Conti ha ritenuto che il docente, sul quale incombeva l’onere, non avesse provato che gli emolumenti percepiti inerissero ad attività di consulente tecnico d’ufficio.
Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
Avverso la sentenza Pe.Pi. ha proposto ricorso innanzi a questa Corte articolando un unico motivo.
Il Procuratore generale presso la Corte dei Conti ha resistito con controricorso.
La Prima Presidente, ravvisata l’inammissibilità del ricorso, ha depositato in data 23 maggio 2024, proposta di definizione del ricorso ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ.
Il difensore del ricorrente, munito di nuova procura speciale, con atto depositato in data 1 luglio 2024 ha chiesto, ai sensi dell’art. 380 bis, comma 2, cod. proc. civ. la decisione della causa.
Il ricorso è stato, quindi, avviato, ex art. 380-bis. 1 cod. proc. civ., alla trattazione in camera di consiglio, in prossimità della quale il P.M., nella persona della Sostituta procuratore generale Paola Filippi, ha depositato le sue conclusioni scritte chiedendo che la Corte di cassazione a Sezioni Unite dichiari inammissibile il ricorso.
Il ricorrente ha depositato istanza di trattazione del ricorso in pubblica udienza, rigettata, fatte salve le eventuali diverse determinazioni del Collegio, dal Primo Presidente Aggiunto con provvedimento del 15.11.2024, e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare vanno confermate, siccome condivise dal Collegio, le ragioni già espresse dal Primo Presidente Aggiunto nel provvedimento del 15.11.2024 di rigetto dell’istanza presentata dal ricorrente di trattazione del procedimento in pubblica udienza.
Il ricorso, invero e per come si dirà meglio infra, non involge questioni che richiedano un intervento nomofilattico della Corte laddove, di contro, la trattazione dello stesso in camera di consiglio è predeterminata dallo stesso legislatore (art. 380 bis, ultimo comma, cod. proc. civ.) in ipotesi, quale quella in esame, di formulazione di proposta di definizione accelerata alla quale ha fatto seguito la richiesta di decisione del difensore del ricorrente.
2. Sempre, preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività sollevata dal controricorrente.
Il Procuratore generale presso la Corte dei conti, infatti, premesso che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 29 maggio 2023 e che il ricorso è stato notificato il 2 gennaio 2024, evidenzia che, laddove il termine semestrale previsto dall’art. 327 cod. proc. civ. fosse computato mediante l’espunzione tout court del periodo di sospensione feriale 1-31 agosto, la data di ultima notificazione risulterebbe essere il 29 dicembre 2023, rispetto alla quale la notificazione, effettuata il 2 gennaio 2024, sarebbe tardiva.
Secondo la Procura generale presso la Corte dei conti, vista la coincidenza del periodo di sospensione feriale con un mese del calendario, tale sistema di computo appare maggiormente coerente con la regola del calcolo nominatione dierum indicata da questa Corte.
2.1. L’eccezione non appare meritevole di accoglimento. La giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr., tra le altre; Cass. n. 15029 del 15/07/2020; Cass. n. 17640 del 25/08/2020) ha avuto modo di statuire che “nel computo dei termini processuali mensili o annuali, fra i quali è compreso quello di decadenza dall’impugnazione ex art. 327 cod. proc. civ., si osserva, a norma degli artt. 155, comma 2, c.p.c., e 2963, comma 4, c.c., il sistema della
computazione civile, non ex numero bensì ex nominatione dierum, nel senso che il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale; analogamente, si deve procedere quando il termine di decadenza interferisca con il periodo di sospensione feriale dei termini: in tal caso, infatti, al termine annuale di decadenza dal gravame, di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c., devono aggiungersi 46 giorni computati ex numeratione dierum, ai sensi del combinato disposto degli artt. 155, comma 1, c.p.c. e 1, comma 1, della L. n. 742 del 1969 (nella formula vigente ratione temporis), non dovendosi tener conto dei giorni compresi tra il primo agosto e il quindici settembre di ciascun anno per effetto della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. Pertanto, si verifica il doppio computo del periodo feriale nell’ipotesi in cui, dopo una prima sospensione, il termine iniziale non sia decorso interamente al sopraggiungere del nuovo periodo feriale”. Tali principi risultano a tutt’oggi ribaditi da questa Corte (cfr., in motivazione, Cass. 4/01/2024 n. 239; Cass. 3/01/2024 n. 118).
2.2. Applicando tali criteri di computo deriva che il termine ultimo per proporre impugnazione scadeva il giorno 30 dicembre 2023 (sabato), prorogato ex lege, essendo il lunedì festivo al 2 gennaio 2024, e che, quindi, il ricorso è tempestivo.
3. Procedendo, quindi, all’ esame del ricorso, con l’unico motivo – rubricato: Eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera riservata al legislatore con riguardo alla individuazione della fattispecie di responsabilità amministrativa applicabile allo svolgimento di incarichi retribuiti estranei ai compiti d’ufficio (art. 360 n. 1 c.p.c. con riferimento all’art. 53, co. 7-7bis D.Lgs. n. 165/2001 e all’art. 11, co. 5, lett. a) D.P.R. n. 382/1980 – il ricorrente lamenta l’eccesso di potere giurisdizionale, per sconfinamento nella sfera riservata al legislatore, con riguardo all’individuazione della fattispecie di responsabilità amministrativa, applicabile allo svolgimento di incarichi retribuiti estranei ai compiti d’ufficio, laddove la Corte dei conti aveva stabilito che la prova della compatibilità degli incarichi spettasse al ricorrente.
Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
In particolare, secondo la prospettazione difensiva, la Corte dei conti, per respingere parzialmente il ricorso, aveva enucleato una fattispecie diversa di illecito erariale di propria creazione, strutturalmente diversa da quella prevista dalla legge. Infatti, dopo avere riconosciuto che l’espletamento di perizie giudiziarie per i professori universitari è una attività libero-professionale perfettamente lecita che la legge permette di svolgere ex ante e in astratto con valutazione legale tipica e diretta efficacia abilitante (tanto che all’Amministrazione è sottratto qualsiasi potere di intermediazione a carattere autorizzatorio), la Corte di appello aveva ritenuto che spettava al docente dimostrare che gli incarichi svolti rientrassero tra quelli liberi e legittimi e che, in mancanza di tale prova, l’illecito contabile sussisteva, in quanto la questione circa la liceità dell’incarico svolto non rientra tra “gli elementi costitutivi” dell’illecito erariale (rientranti nell’onere probatorio a carico della Procura) ma tra le cause modificative o estintive di un diritto risarcitorio già perfezionatosi. Con tale statuizione, secondo il ricorrente, la Corte aveva dato vita ad un istituto di responsabilità amministrativa di propria invenzione radicalmente diversa da quella vigente nell’ordinamento positivo e che, come interpretata anche dalla giurisprudenza, si sostanzia nella fattispecie di svolgimento dell’incarico privato accompagnato all’elemento antigiuridico della violazione dell’obbligo di chiedere l’autorizzazione.
Nella memoria il ricorrente ha, altresì, esplicitato che, contrariamente a quanto ritenuto nella proposta di definizione accelerata, dal Procuratore generale e dalla Procura della Corte di Conti, con il ricorso, il cui contenuto sarebbe stato travisato, non si è inteso contestare una errata applicazione dell’art. 53, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001, non avendo neppure il giudice a quo fondato la condanna sulla violazione dell’obbligo di acquisire l’autorizzazione per l’attività extralavorativa svolta. Al contrario, avendo la Corte dei Conti espressamente affermato che, per l’espletamento delle perizie giudiziarie (attività liberalizzata) non fosse necessaria alcuna preventiva autorizzazione, l’ulteriore iter argomentativo svolto dal Giudice contabile (secondo cui per condannare un dipendente per illecito erariale sarebbe sufficiente allegare e dimostrare che una qualche attività extra lavorativa sia stata svolta perché il fatto che si tratti di un’attività liberamente esercitabile sarebbe un elemento estintivo dell’illecito ada provare a cura dell’incolpato) concreterebbe, secondo la prospettazione difensiva, una creazione, a opera della Corte dei conti, di una nuova fattispecie di illecito erariale, inesistente nell’ordinamento positivo, che si identificherebbe con la mera condotta di uno svolgimento di una attività extralavorativa indipendentemente dalla sua antigiuridicità.
3.1 Il ricorso è inammissibile. Le Sezioni Unite (v., ex multis, Cass., Sez. Un., 18 novembre 2015, n. 23542) hanno costantemente statuito che l’eccesso di potere giurisdizionale costituisce una categoria, di fonte giurisprudenziale, la quale si colloca sul crinale della distinzione tra il settimo comma e l’ottavo comma dell’art. 111 Cost., ossia là dove la generalità del sindacato di legittimità affidato alla Corte di cassazione si coniuga con il regime differenziato delle pronunce dei due giudici speciali di antica tradizione, Consiglio di Stato e Corte dei conti. Infatti, quando – secondo la regola generale dell’art. 111, settimo comma, Cost., rispetto alla quale quella dell’ottavo comma della medesima disposizione si atteggia ad eccezione – il sindacato di legittimità per violazione di legge può dispiegarsi a tutto campo, il canone dell’eccesso di potere giurisdizionale non ha, in linea di massima, autonomia concettuale e normativa rispetto alla violazione di legge. Il giudice ordinario (o speciale, ma diverso dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti) che, in ipotesi, eserciti un potere giurisdizionale che non ha, viola la legge tout court e la rilevanza di tale vizio, quale error in iudicando, trova la sua risposta di giustizia, per le parti in causa, nel sistema processuale delle impugnazioni, salvo che l’eccesso non ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello Stato (nel qual caso, ove ricorrano i presupposti di legittimazione soggettiva ed oggettiva, il potere leso può proporre ricorso per conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale).
L’eccesso di potere giurisdizionale acquista invece una sua autonomia là dove sia precluso il sindacato per violazione di legge ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost.
L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore, denunciabile con il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione ai sensi degli artt. 111, ottavo comma, Cost. e 362, primo comma, cod. proc. civ., è configurabile solo quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti applichino, non la norma esistente, ma una norma da essi creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non compete loro. Esula, pertanto, da tale fattispecie l’individuazione della regula iuris attraverso l’interpretazione, pure estensiva od analogica, delle norme di riferimento, cosicché eventuali errori ermeneutici, anche se comportanti uno stravolgimento radicale della norma, non investono la sussistenza o i limiti esterni del potere giurisdizionale, ma soltanto la legittimità del suo esercizio.
Nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, l’esame da parte della Corte di cassazione non si estende al controllo del cattivo esercizio della giurisdizione: non coinvolgendo il limite interno della giurisdizione, il sindacato non può cadere sugli errores in iudicando o in procedendo (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2023, n. 18539; Cass., Sez. Un., 22 settembre 2023, n. 27160).
Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
Non è ravvisabile una questione involgente la giurisdizione là dove si sia in presenza di una attività interpretativa – senza che assuma rilievo, a tali fini, l’esito dell’interpretazione -, nessun eccesso essendo configurabile le volte in cui emerga, con evidenza, che un’interpretazione sia stata svolta: questa – perché effettiva e non già perché condivisibile -, al tempo stesso in cui fa emergere l’inconsistenza dell’ipotesi di eccesso di potere, preclude alle Sezioni Unite il sindacato sui suoi risultati (Cass., Sez. Un., 20 giugno 2021, n. 18492; Cass., Sez. Un., 11 aprile 2024, n. 9766). Si è, cosi, da parte di queste Sezioni Unite, in più occasioni, ribadito che l’ipotesi di sconfinamento del giudice nella sfera legislativa è ipotesi eccezionale, in quanto – dovendosi postulare che il giudice applichi, non la norma esistente, ma una norma da lui creata – potrebbe ipotizzarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa, la quale in realtà non ha una funzione meramente meccanicistica, ma si sostanzia in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto (Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2004, n. 24175; Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2011, n. 2068; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2012, n. 22784).
Ripercorrendo la giurisprudenza precedente, come sopra riportata, queste Sezioni Unite (v. Cass., Sez. U., n. 18722 del 09/07/2024, in fattispecie similare a quella oggi in esame, relativa a sentenza della Corte dei conti in tema di responsabilità di un professore universitario per lo svolgimento di attività professionale esterna non autorizzata) hanno, di recente, ulteriormente ribadito che “l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore, denunziabile con il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost., si configura allorquando il giudice speciale applichi una norma da lui stesso creata, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, non già in relazione all’attività di interpretazione – sia pure estensiva o analogica – di una disposizione di legge, posto che eventuali errori ermeneutici, anche se comportanti uno stravolgimento radicale del senso della norma, non investono la sussistenza o i limiti esterni del potere giurisdizionale, ma soltanto la legittimità del suo esercizio”. In particolare, nell’ordinanza citata, le Sezioni Unite, richiamando ulteriormente i principi già affermati dalla sentenza delle stesse Sezioni Unite del 23 dicembre 2014 n. 27341 hanno, condivisibilmente, ribadito che: II confine oltre il quale l’interpretazione giudiziale trasmoda in attività creativa e, quindi, in un’invasione delle prerogative del legislatore, è segnato da quel limite di tolleranza, per la cui identificazione occorre tenere conto della capacità della norma giuridica di adeguare il proprio contenuto precettivo alle connotazioni, valenze e dimensioni che l’interesse con essa protetto assume nella coscienza sociale nel corso del tempo. Il confine è superato nei soli casi di radicale infedeltà del giudicante nei riguardi della disposizione di legge, realizzato attraverso il superamento del vincolo di soggezione alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), che si ha là dove il Consiglio di Stato o la Corte dei conti siano pervenuti all’approdo ermeneutico attingendolo fuori dal cerchio delle possibilità concesse dalla disposizione e dal suo sistema di riferimento. Non è tanto il dato della direzione del potere giurisdizionale al conseguimento di un fine non giurisdizionale a costituire il fondamento del vizio di eccesso di potere, perché ciò che rileva è il contenuto del giudizio stesso, eccedente i poteri della giurisdizione ed implicante esercizio di potere legislativo.
3.2 Calando questi principi nel caso di specie, deve escludersi che la censura sollevata dal ricorrente ricada nel perimetro dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera del legislatore.
Dal tenore del ricorso e, ancor più, della memoria illustrativa si evince che viene imputato al giudice contabile di avere creato una nuova fattispecie di illecito erariale, inesistente nell’ordinamento positivo, che si identifica con la mera condotta di svolgimento di una attività extralavorativa, indipendentemente dalla sua antigiuridicità e cioè indipendentemente dal fatto che si tratti di un’attività vietata, o invece, consentita con autorizzazione, o invece, totalmente lecita. In particolare, si contesta quale attività creativa del Giudice contabile, esorbitante nella sfera del legislatore, l’argomentazione secondo la quale la liceità o meno dell’attività extra lavorativa svolta sarebbe esterna agli elementi costitutivi dell’illecito che il P.M. deve provare ex art. 2697 c.c. essendo dequotata a causa di estinzione di un illecito già perfetto; con prova addossata al soggetto incolpato. La prospettazione difensiva viene, vieppiù, chiarita con le ragioni sottostanti la richiesta avanzata dal difensore del ricorrente di trattazione in pubblica udienza ossia la necessità di una pronuncia di massima sulla questione di particolare importanza costituita dal tema degli elementi costitutivi dell’illecito contabile – e cioè se in esso debba rientrare anche l’antigiuridicità della condotta od essa sia esterna e da provare a cura dell’incolpato.
3.3. Appare, quindi, evidente, dal tenore degli scritti difensivi (come sopra sintetizzati), che ciò che si contesta al Giudice contabile (e si richiede, anche a questa Corte, per giustificare l’istanza di trattazione in pubblica udienza) rimane strettamente entro i confini della deduzione di una mera, e asseritamente erronea, interpretazione di legge il cui sindacato, come sopra esposto, è precluso a questa Corte nei confronti delle decisioni dei giudici speciali.
La Corte dei conti, infatti, nel ritenere che la Procura contabile avesse dimostrato, attraverso le risultanze degli elementi probatori offerti quali le dichiarazioni dei redditi, che l’incolpato aveva prodotto reddito da lavoro autonomo per attività extraistituzionale incompatibile con il regime di pubblico impiego e che la prova che gli incarichi svolti fossero tra quelli ammessi in ragione dell’art. 11, comma 5, del D.P.R. n.382 del 1980 spettasse alla parte che aveva dedotto in giudizio tale fatto “impeditivo” al riconoscimento del diritto, si è mossa in un ambito che non è quello della creazione di norme inesistenti. Essa, come sopra delineato, ha deciso sulla base di sua interpretazione dei testi normativi di riferimento, anche in tema di riparto dell’onere probatorio.
3.4 II ricorso, quindi, per le ragioni sin qui svolte, pur evocando un eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera del legislatore, finisce, in sostanza, per dolersi di un error in iudicando del giudice di appello contabile. Stabilire se il denunciato errore di giudizio ricorra è operazione, come già detto, che fuoriesce dai limiti che la Costituzione e le norme del codice assegnano al sindacato della Corte di cassazione sulle pronunce della Corte dei conti. Ne consegue la declaratoria di inammissibilità.
4. La definizione del giudizio in conformità alla proposta ex art. 380- bis cod. proc. civ., comporta l’applicazione del terzo e del quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., come testualmente previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma cod. proc. civ.
Eccesso potere: giudice crea norma, non la applica.
Va, infatti, esclusa una interpretazione della norma che conduca ad automatismi non in linea con una lettura costituzionalmente compatibile del nuovo istituto, dovendo l’applicazione in concreto delle predette sanzioni rimanere affidata alla valutazione delle caratteristiche del caso di specie (v. Cass., Sez. U., 27/1272023 n. 36069) ma, nondimeno, nell’ipotesi in esame non si rinvengono ragioni (stante la complessiva tenuta del provvedimento della PDA rispetto alla motivazione necessaria per confermare l’inammissibilità del ricorso) per discostarsi dalla suddetta previsione legale con riguardo, però, alla sola sanzione in favore della Cassa delle ammende.
4.1. Stante la posizione di parte in senso soltanto formale non vi è, infatti, luogo a pronuncia sulle spese e sulla sanzione di cui al terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. in favore del Procuratore generale della Corte dei conti.
5. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della Cassa delle ammende, della somma di euro 2.000,00.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 26 novembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2025.
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