Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 27 aprile 2016, n. 8397

Svolgimento del processo

La corte d’appello di Roma, con sentenza in data 4-72014, confermava la decisione con la quale il tribunale di Roma aveva accolto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e all’immagine proposta da C.G. contro RTI – Reti televisive italiane s.p.a. (d’ora innanzi solo RTI), concessionaria della rete televisiva (…), in relazione alla natura diffamatoria di alcune dichiarazioni di S.V. rese nel corso della trasmissione televisiva “(omissis)”, andata in onda nei giorni (omissis) .
Le dichiarazioni erano consistite nell’accusa a C. di aver fabbricato, nella sua qualità di magistrato inquirente, prove false volte a comprovare un incontro tra l’avv. B. e l’on. Be.Si. altrimenti indimostrabile, e di aver umiliato persone detenute, come Ca.Ga. , fino a farle morire.
Per quanto rileva in questa sede, la corte d’appello riteneva che il danno non patrimoniale, ravvisabile alla stregua di danno conseguenza della lesione di diritti inviolabili della persona, potesse essere provato anche tramite presunzioni, attesa la natura immateriale del bene cui correlare il pregiudizio all’immagine e alla reputazione. Per cui dovevasi considerare sufficiente l’allegazione, da parte del danneggiato, di circostanze idonee a fondare la presunzione, onde operare l’inferenza secondo ragionevole probabilità.
Tale allegazione era stata puntualmente fornita dall’attore, il quale aveva offerto una ricostruzione fattuale completa in relazione alle dichiarazioni diffamatorie di S. ; sicché correttamente il primo giudice aveva utilizzato, ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226 cod. civ., i parametri della gravità delle insinuazioni, della qualifica professionale della persona offesa, della notorietà della stessa, della specifica correlazione tra la condotta illecita insinuata e la funzione giudiziaria all’epoca svolta da C. e della particolare pervasività del mezzo televisivo.
Avverso la sentenza d’appello, non notificata, RTI ha proposto ricorso per cassazione sorretto da due motivi. L’intimato ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato una memoria.

Motivi della decisione

I. – Col primo motivo la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento, ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per extrapetizione e per omessa pronuncia su un motivo d’appello.
L’extrapetizione starebbe nel fatto che la pronuncia di condanna è stata resa nonostante che nessuna specifica voce di danno fosse stata allegata in causa.
L’omessa pronuncia starebbe nel fatto di avere la corte mancato di provvedere sulla relativa eccezione, posta a base di un apposito motivo di appello avverso la sentenza di primo grado.
– Il motivo va disatteso sotto entrambi i profili ed è bene partire dal secondo, che secondo logica assume valore prioritario.
Si osserva che il fondamento della censura di omessa pronuncia è contraddetto dalla circostanza che trattavasi di questione processuale, involgente il corrispondente asserito vizio della sentenza di primo grado.
Di contro il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo nel caso di mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di questioni di merito, e non già nel caso di mancato esame di eccezioni di rito (cfr. Sez. 3^ n. 1701-09, quanto alla eccezione di inammissibilità dell’appello; Sez. 3^ n. 3667-06, quanto alla questione di competenza territoriale).
Difatti, se il giudice omette di esaminare una questione processuale potenzialmente tale da determinare una nullità, sussiste non già una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sotto il profilo della omissione di pronuncia, che giustappunto attiene alla decisione di merito della causa, bensì una nullità della decisione, propria o derivata, se e in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice medesimo alla questione sollevata dalla parte.
Ciò comporta l’inammissibilità della censura.
Oltre tutto può osservarsi che il vizio di omissione di pronuncia sarebbe necessariamente escluso dal rigetto implicito che, secondo il consolidato insegnamento di questa corte, si ha quando nel provvedimento viene accolta una tesi incompatibile con esso (per tutte Sez. 1^ n. 10696-07).
Invero la pronuncia si misura sull’oggetto della devoluzione, non sulle singole argomentazioni che lo sostengono.
Sicché tale sarebbe la situazione che caratterizza i profili denunciati dalla ricorrente, posto che l’impugnata sentenza, confermando la statuizione di risarcimento, ha implicitamente ritenuto assolto l’onere di allegazione e di prova in ordine al danno risarcibile.
III. L’extrapetizione, in cui sarebbe incorso il giudice d’appello per aver confermato la statuizione detta, non sussiste.
Che il danno non patrimoniale sia declinabile alla stregua di danno conseguenza è cosa del tutto pacifica.
Sicché è ovvio che una simile caratterizzazione del danno postula l’adempimento dell’onere di allegazione cui correlare, poi, l’onere della prova.
Tuttavia è abbastanza evidente che parte ricorrente mistifica la nozione di allegazione, la quale rimanda direttamente al principio di effettività del contraddittorio.
Poiché l’onere di allegazione costituisce salvaguardia del contraddittorio, consegue che l’allegazione consiste nell’affermazione dei fatti rilevanti posti a fondamento della pretesa, nella specie risarcitoria; vale a dire delle circostanze considerate tali dalle norme inerenti.
In caso di azione di risarcimento dei danni non patrimoniali da fatto illecito, l’onere di allegazione è adempiuto mediante la puntuale descrizione della condotta che sia da considerare fonte di responsabilità e del concreto tipo di pregiudizio lamentato, con l’aggiunta degli elementi per il computo dell’equivalente monetario su base necessariamente equitativa (v. Sez. un. n. 2697308).
Invero rispetto ai danni non patrimoniali la funzione ripristinatoria, in sé e per sé rigorosamente considerata, opera come semplice ratio (secondo parte della dottrina, peraltro, neppure esclusiva) del risarcimento per equivalente.
IV. La sentenza impugnata ha, nella specie, affermato esser stata “puntualmente fornita” dall’attore la ricostruzione fattuale relativa alle dichiarazioni diffamatorie rese da S. , onde indurre il giudice a utilizzare, ai fini della liquidazione e in base all’art. 1226 cod. civ., i parametri della gravità delle insinuazioni e della qualifica personale dell’offeso, essendo stato l’attore accusato pubblicamente di aver fabbricato prove false.
In questi termini non era affatto necessaria l’indicazione di specifiche voci di danno aggiuntive a quella richiesta per la lesione dell’immagine.
È difatti pacificamente configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida sui diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l’immagine.
Per cui, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi e se dimostrato, soprattutto il danno non patrimoniale costituito – come danno conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali essa abbia a interagire.
Il che è quanto puntualmente considerato dalla corte d’appello nel riferimento alla allegata e provata “specifica correlazione tra la condotta illecita insinuata e la funzione giudiziaria all’epoca svolta dal C. “.
Invero la diffamazione postula una liquidazione del danno non patrimoniale necessariamente operata con criteri equitativi, il ricorso ai quali è insito nella natura stessa del danno e nella funzione del risarcimento, realizzato mediante la dazione di una somma di denaro compensativa di un pregiudizio di tipo non economico (v. per la diffamazione a mezzo stampa, ma con principio chiaramente estensibile anche alla diffamazione a mezzo di trasmissione televisiva, Sez. 3^ n. 25739-14, n. 17395-07).
V. – Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2059 e 2697 cod. civ., la ricorrente censura la sentenza per aver accertato la sussistenza dei danni non patrimoniali in difetto di qualsiasi prova, non avendo il giudice il potere di liquidare in via equitativa un danno per eludere la necessità di prova e per esonerare la parte dall’onere probatorio sulla stessa gravante.
Il secondo motivo è inammissibile perché inteso a rimettere in discussione il merito della controversia, avendo il giudice d’appello affermato esistente la prova del danno in ragione di elementi presuntivi.
Tali elementi sono stati correttamente dedotti dalla gravità delle insinuazioni, dalla qualifica professionale dell’offeso, dalla sua notorietà e dalla particolare pervasività del mezzo televisivo.
VI. – Il ricorso di RTI è dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *