Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 5 marzo 2014, n. 5087
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione del 19 luglio 1997, B.F. , premesso di essere unico erede dello zio B.F. senior, fu M. , deceduto il (omissis) , nel cui asse ereditario era compresa un’azienda farmaceutica in (…), da lui gestita in via provvisoria in forza di autorizzazione prefettizia 25 novembre 1951, espose che la sorella Br.El. , conseguita la laurea in farmacia, aveva cominciato a collaborare nella medesima farmacia, fino a quando ne aveva rivendicato la proprietà esclusiva in virtù della donazione per atto pubblico 12 novembre 1957 dal loro padre Br.Ar. , fratello del defunto F. , estromettendolo dalla gestione. Egli citò in giudizio davanti al tribunale di Torre Annunziata gli eredi della sorella El. , P.G. e A. e chiese che fosse dichiarata la nullità della donazione e fosse accertata la sua qualità di unico titolare della farmacia, con condanna dei convenuti al pagamento di quanto riscosso nell’esercizio dell’azienda, oltre al risarcimento dei danni.
I convenuti, costituitisi, eccepirono che dopo la morte dell’originario titolare, B.M. , la farmacia, che sotto il profilo amministrativo era intestata a Fr. senior, era stata gestita dai fratelli vita natural durante, come previsto dalla legislazione del tempo; alla morte di Fr. senior, dopo breve intervallo per l’autorizzazione provvisoria a favore del suo erede F. iunior, Ar. , sebbene non farmacista, avrebbe ricevuto l’autorizzazione prefettizia a continuare vita natural durante la farmacia a norma dell’art. 368 del t.u. leggi sanitarie r.d. n. 1265 del 1934, e il 12 novembre 1957 aveva donato l’azienda alla figlia El. , laureata in farmacia a differenza del fratello, come era consentito dall’art. 369 primo co. r.d. n. 1265 del 1934. El. , ottenuto il riconoscimento del trapasso della titolarità dal medico provinciale, aveva esercitato l’impresa per oltre trent’anni comportandosi quale unica proprietaria, e nel 1988 aveva ceduto l’esercizio alla figlia, dottoressa P.A. . I convenuti eccepirono quindi l’usucapione dell’azienda farmaceutica.
2. Con sentenza 30 novembre 2001, il Tribunale dichiarò la nullità della donazione 12 novembre 1957 limitatamente alla quota del 50% spettante al fratello e coerede del donante, Br.Fr. senior; e l’usucapione ventennale della stessa quota da parte di Br.El. . In motivazione il tribunale precisò che, in base alla disciplina anteriore alla legge 2 aprile 1968 n. 475, la titolarità del servizio pubblico, inerente al rapporto con la pubblica amministrazione, poteva essere disgiunta dalla proprietà dei beni dell’azienda farmaceutica, che poteva essere trasferita indipendentemente dall’autorizzazione all’esercizio della farmacia; sicché nel 1957 Br.Ar. , comproprietario dei beni della farmacia per successione dal padre M. , ben poteva trasferire alla figlia El. la quota del 50% dei beni aziendali, nonostante l’avvenuto rilascio di autorizzazione a favore dell’altro figlio F. con decreto 25 novembre 1951.
La sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza 7 settembre 2007.
3. Contro questa sentenza B.E. , succeduto in corso di causa all’attore, ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Resistono con controricorso P.G. e A. . A seguito del decesso di P.G. , P.A. si è costituita con nuovo difensore anche quale erede del fratello G. .
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
La seconda sezione della corte, con ordinanza 16 maggio 2013, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione, per la particolare rilevanza della questione, sulla quale non vi sono precedenti in termini, della possibilità di usucapire l’azienda.
Il ricorso è stato quindi rimesso a queste sezioni unite perché ustione di massima di particolare importanza.
Motivi della decisione
4. Il ricorso è portato all’esame delle sezioni unite della corte essendo stata ravvisata nell’usucapibilità dell’azienda una questione di massima di particolare importanza.
Nella fattispecie di causa, peraltro, tale questione è connessa con l’altra, derivante dalla speciale natura dell’azienda di cui si controverte, che è una farmacia, come tale sottoposta a regime di autorizzazione amministrativa: questione che forma l’oggetto del primo motivo di ricorso.
5. Con il primo motivo, infatti, il ricorrente censura per violazione degli artt. 25 della legge 468 del 22 maggio 1913, 368 e 369 del r.d. n. 1265 del 27 luglio 1934 e 769 ss. c.c. l’affermazione del giudice di merito, che la titolarità della farmacia non comportasse necessariamente la proprietà del complesso dei beni costituenti l’azienda, potendo il diritto dominicale su tali beni essere trasferito indipendentemente dall’autorizzazione all’esercizio della farmacia.
Premesso che nella fattispecie si trattava di farmacia legittima a norma dell’art. 25 della legge 22 maggio 1913, n. 468 – vale a dire, autorizzata secondo le norme anteriori alla legge 22 dicembre 1888, n. 5849, e per la quale l’art. 368 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 riconosceva al titolare il diritto di continuare, vita durante, l’esercizio della farmacia – si deduce che a B.F. iunior era stata riconosciuta l’autorizzazione alla gestione provvisoria della farmacia, e il padre Br.Ar. non aveva alcun titolo per donare i beni della farmacia, posto che la qualità di coerede dei beni materiali concernenti l’universalità di beni mobili aggregata per l’esercizio della farmacia non è titolo per la disponibilità dell’azienda farmaceutica, che suppone il provvedimento della pubblica amministrazione insuscettibile di trasferimento. Si pone il quesito se la donazione 12 novembre 1957 di Br.Ar. alla figlia El. della quota di comproprietà dei beni costituenti l’azienda farmaceutica comprendesse anche il trasferimento del titolo legittimante l’esercizio dell’attività farmaceutica.
6. Al quesito deve darsi risposta negativa.
In linea di principio, infatti, occorre distinguere l’autorizzazione all’esercizio della farmacia, che è atto pubblico, non trasferibile a norma dell’art. 112 t.u. sanitario, e poi dell’art. 12 L. 475/1968, dall’azienda farmaceutica che è il complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa farmaceutica. È bensì vero che la legislazione dello Stato unitario, dopo aver affermato che l’esercizio della farmacia è sottoposto ad autorizzazione prefettizia e non è cedibile, ha mostrato, nel corso di un complesso svolgimento, la volontà di pervenire al risultato di rendere l’esercizio autorizzato della farmacia giuridicamente indissociabile dalla titolarità dell’azienda farmaceutica. Significativi, a questo riguardo, sono, nel tempo, la previsione dell’art. 110 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 t.u. leggi sanitarie, per la quale l’autorizzazione all’esercizio di una farmacia, che non sia di nuova istituzione, importa l’obbligo nel concessionario di rilevare dal precedente titolare o dai suoi eredi gli arredi, le provviste e le dotazioni attinenti all’esercizio farmaceutico, contenuti nella farmacia e nei locali annessi, nonché di corrispondere allo stesso titolare o ai suoi eredi un’indennità di avviamento; e ancor più quella dell’art. 12 della più recente legge 2 aprile 1968 n. 475, per cui il trasferimento della titolarità delle farmacie, a tutti gli effetti di legge, non è ritenuto valido se insieme col diritto di esercizio della farmacia non venga trasferita anche l’azienda commerciale che vi è connessa, pena la decadenza.
7. È del pari noto, tuttavia, che nel perseguire quest’obiettivo il legislatore ha tenuto conto delle posizioni di diritto anteriormente consolidatesi, e trasmesse dagli originari proprietari, e che questo si è dimostrato un ostacolo al raggiungimento di una perfetta coincidenza soggettiva del regime amministrativo con quello commerciale e civilistico della farmacia. Sin dall’inizio, infatti, al regime ordinario delle farmacie è stata introdotta una deroga per le farmacie “legittime”, tali essendo considerate, nella loro sede alla data della pubblicazione della legge 22 maggio 1913 n. 468, le farmacie autorizzate secondo le norme anteriori alla legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (art. 25 L. n. 468/1913 cit.): ai titolari delle quali fu riconosciuto, per sé e per i loro eredi e aventi causa, il diritto all’esercizio delle farmacie rispettive (art. 30 L. n. 468/1913 cit.; poi art. 368 R.D. 1934, n. 1265/1934, T.U. leggi sanitarie). In tal modo, ferma restando la necessità dell’autorizzazione prefettizia della farmacia, e della presenza di un farmacista iscritto all’albo nella farmacia autorizzata, poteva verificarsi il caso – ed è quanto è avvenuto nella fattispecie oggi all’esame della corte – che proprietari in comunione della farmacia fossero, quali eredi mortis causa del precedente titolare di una farmacia “legittima”, più soggetti, sebbene l’autorizzazione prefettizia fosse rilasciata – e potesse esserlo – soltanto in capo ad uno di essi. Di qui la possibilità che la medesima azienda farmaceutica fosse oggetto di legittime pretese anche da parte di soggetti diversi dal titolare autorizzato. Tale dissociazione è dunque fisiologica nel caso di vicende successorie analoghe a quella oggetto della presente controversia. Del resto, anche la legge 2 aprile 1968, n. 475 (posteriore alla successione in morte di Br.Fr. senior) prevede che, nel caso di morte del titolare, gli eredi possano entro un anno effettuare il trapasso della titolarità della farmacia a norma dei commi precedenti a favore di farmacista iscritto nell’albo professionale, che abbia conseguito la titolarità o che sia risultato idoneo in un precedente concorso: “durante tale periodo gli eredi hanno diritto di continuare l’esercizio in via provvisoria sotto la responsabilità di un direttore” (art. 12 ult. co. legge cit.).
8. Nella fattispecie di causa, essendo deceduto uno dei due fratelli che avevano la gestione della farmacia legittima, non per questo l’altro era stato espropriato della sua quota paritaria sull’azienda farmaceutica. Trovava dunque applicazione la regola dettata dall’art. 369 t.u. san., per cui le farmacie legittime potevano essere trasferite (pro quota) dal loro (con)titolare, per una volta tanto, per atto tra vivi o per successione, a condizione che il trapasso della farmacia fosse fatto a favore di farmacista iscritto nell’albo professionale. E come il defunto aveva trasmesso ereditariamente la sua quota all’originario attore di questa controversia (peraltro non farmacista, e come tale autorizzato alla gestione della farmacia solo in via provvisoria, “fino al completamento degli studi farmaceutici”, secondo la previsione dell’art. 369, penultimo co. t.u. san.), così il fratello era legittimato a donare l’azienda farmaceutica, nei limiti della sua quota (per la quota eccedente, tuttavia, l’atto di disposizione, secondo i principi generali, non è nullo, bensì soltanto inefficace), alla figlia farmacista iscritta all’albo, com’è stato correttamente ritenuto dalla corte territoriale nell’impugnata sentenza, conseguentemente immune dal vizio di legittimità denunciato.
9. I rilievi che precedono confermano la conclusione, alla quale queste sezioni unite erano già pervenute nell’unico precedente che risulti, che l’assoggettamento delle farmacie a regime pubblicistico, con riguardo sia alla preventiva autorizzazione sia al successivo controllo da parte dell’amministrazione sulla relativa attività, nonché l’inderogabile principio della coincidenza della qualità di titolare con quella di gestore della farmacia (legge 2 aprile 1968 n. 475 e d.P.R. 21 agosto 1971 n. 1275), non escludono la configurabilità di posizioni di diritto soggettivo di persone diverse dal titolare – gestore, né il potere giurisdizionale del giudice ordinario di disporre il sequestro, giudiziario o conservativo, di una farmacia (essi comportano soltanto che il concreto esercizio di tale potere non può interferire su quella disciplina e su quel principio, con la conseguenza, in particolare, che la custodia dell’azienda deve essere affidata allo stesso destinatario della misura cautelare, ovvero, se affidata a un estraneo, deve tradursi in una mera sorveglianza che non privi il titolare della farmacia dell’esercizio dell’impresa e della disponibilità dei beni e dei mezzi a ciò occorrenti: Cass. Sez. un. 17 gennaio 1986 n. 274).
10. Il motivo deve pertanto essere respinto in applicazione del principio di diritto per il quale, in tema di farmacie legittime, a norma dell’art. 25 della legge 22 maggio 1913 n. 468 e 368 del r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, l’assoggettamento delle farmacie a regime pubblicistico, con riguardo sia alla preventiva autorizzazione sia al successivo controllo da parte dell’amministrazione sulla relativa attività, nonché l’inderogabile principio della coincidenza della qualità di titolare con quella di gestore della farmacia, non escludono la configurabilità di posizioni di diritto soggettivo di persone diverse dal titolare – gestore, e, in particolare, non comportano la nullità degli acquisti derivativi mortis causa o inter vivos che abbiano il loro fondamento nella previsione dell’art. 369 del r.d. n. 1265 del 1934 citato.
11. Con il secondo motivo si denuncia un vizio di motivazione per avere la corte d’appello omesso ogni riferimento all’esito della consulenza tecnica d’ufficio da essa disposta per accertare gli utili conseguiti dall’azienda farmaceutica nel periodo in contestazione, nonché gli importi dovuti all’esponente.
12. Il motivo è inammissibile, vertendo su questione di determinazione del quantum della domanda attrice, non esaminata dal giudice di merito perché assorbita dal rigetto della domanda medesima in punto di an debeatur.
13. Con il terzo motivo si censura per violazione di norme di diritto (artt. 2555 e ss. e 1158 e ss. c.c.; 25 legge n. 468 del 1913, e 368 e 369 r.d. n. 1265 del 1934) l’affermazione dell’intervenuta usucapione dell’azienda farmaceutica in favore dei convenuti. Si nega che l’azienda possa essere considerata alla stregua di un’universalità di beni, non essendo riconducibile in tale nozione la complessa varietà di rapporti giuridici inerenti al suo esercizio. Si sostiene inoltre che manca la prova dell’interversione del possesso da parte di Br.El. , che aveva esercitato il possesso dell’azienda farmaceutica in qualità di direttore responsabile, in regime di società di fatto con B.F. . Si pone il quesito se i beni costituenti l’azienda farmaceutica fossero usucapibili ex art. 1160 c.c., e se in virtù del possesso da parte del ricorrente dell’autorizzazione all’esercizio della farmacia a questi spettino le quote di utili connessi all’attività farmaceutica.
14. La possibilità di acquistare l’azienda per usucapione è questione strettamente connessa a quella, più generale, della natura dell’azienda, oggetto in dottrina di un dibattito molto risalente nel tempo e mai sopito. Il codice civile del 1942 ha introdotto nell’ordinamento una disciplina dell’azienda, della quale ha dato per la prima volta anche una definizione, con l’intento di disciplinare alcuni – almeno – dei problemi dibattuti in relazione alla sua natura giuridica. È noto che la scelta così operata non ha avuto l’effetto di porre termine al dibattito; e tuttavia, anche per la soluzione del problema oggi sottoposto all’esame delle Sezioni unite della corte, dal testo del codice l’interprete deve muovere, e, per cominciare, proprio da quella definizione.
15. L’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzato per l’esercizio dell’impresa. Il coordinamento di questa definizione, dettata nel Libro quinto del codice civile, con la classificazione dei beni, contenuta negli artt. 810 – 817 c.c. è tradizionalmente ritenuto un banco di prova di qualsiasi concezione dell’azienda. Si osserva infatti che la classificazione dei beni giuridici, nel codice civile, non consentirebbe di qualificare l’azienda – intesa come bene unitario, a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista – come bene mobile, o immobile o anche – se non con qualche importante adattamento – come universalità di beni nella definizione dell’art. 816 c.c. (tesi, questa, prevalente invece nella giurisprudenza di legittimità, ma sul punto si dovrà tornare), che suppone non solo la natura mobiliare di tutti i beni ma altresì la loro appartenenza all’unico proprietario. Queste considerazioni, peraltro, potrebbero indurre anche soltanto alla conclusione che l’art. 2555 c.c. – quantunque avulso dalla disciplina generale dei beni del Libro terzo del codice – costituisce la fonte prima della qualificazione dell’azienda come bene oggetto di diritti, in quanto universalità di beni (in conformità della generica dizione dell’art. 670 c.p.c.), o che, almeno, proprio questa fosse la volutas legis.
Il riconoscimento che l’azienda, come oggetto di diritti, costituisce un bene giuridico non sarebbe sufficiente – si è anche osservato – per considerarla una cosa, che sola può essere oggetto di possesso (e quindi di usucapione) nella definizione dell’art. 1140 c.c.; sicché la considerazione delle cose che compongono l’azienda, con la riconduzione – eventualmente analogica – di questa a un’universitas rerum sarebbe un passaggio indispensabile per l’ammissione del suo possesso. Che al dibattito sul punto possa assegnarsi un ruolo decisivo nella decisione circa l’ammissibilità del possesso dell’azienda non pare tuttavia sostenibile al collegio, oltre che per le ragioni di seguito illustrate a proposito della disciplina generale dell’azienda, già solo per il rilievo, che si legge anche nelle trattazioni tradizionali della materia, che la stessa nozione di cosa non è naturalistica, ma economico-sociale, sicché non sarebbe illogico trattare come cosa tutti quei possibili oggetti di rapporti giuridici che non hanno natura corporea.
Ora, se non può escludersi la configurabilità di un bene costituito da una cosa immateriale, come nei casi comunemente citati di proprietà intellettuale, non sembra che vi sarebbero insormontabili ostacoli di diritto positivo al riconoscimento di una “cosa” (l’azienda) costituita da un “complesso organizzato di beni”, conformemente all’indicazione dell’art. 2555 c.c.
Il fatto che l’art. 1140 c.c. restringa il possesso (e quindi l’usucapione) alla “cosa” non implica necessariamente neppure l’esclusione categorica della cosa immateriale, quale sarebbe, secondo un’opinione dottrinale, il “complesso organizzato di beni”, distinto dagli stessi beni singolarmente considerati, e inteso come “organizzazione”, e precisamente come frutto di attività dell’uomo. Del resto, la complessa storia della concezione del possesso, dalle fonti romanistiche agli ordinamenti moderni, e del suo oggetto o, più precisamente, del modo di intendere la “cosa” che ne può costituire oggetto non sembra autorizzare affermazioni dogmatiche troppo categoriche, fermo restando che il ritorno ad una dilatazione della nozione della cosa che può essere oggetto di possesso, sino ad includervi i diritti o i rapporti giuridici, sarebbe sicuramente incompatibile con la formula del codice civile. Che il “complesso dei beni organizzati” debba essere inteso come un’universalità di beni, o come cosa immateriale o altrimenti non sembra dunque un punto decisivo per affermare o negare la sua qualità di cosa, suscettibile di possesso.
16. È più consistente il rilievo che, nella definizione dell’art. 2555 c.c., l’elemento unificatore della pluralità dei beni – indicato nell’organizzazione per l’esercizio dell’impresa – è ancorato a un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’impresa): l’attività, come tale, è certamente un’espressione del soggetto, che trascende la categoria dei beni giuridici e non può essere oggetto di possesso. È necessario allora, per chi debba misurarsi con la disciplina vigente dell’azienda, riconoscere che l’art. 2555 c.c. esprime una valutazione dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l’attività d’impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di “cosa”, oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti. Sono ben noti del resto, anche alla casistica, i problemi posti da tutte quelle fattispecie nelle quali vi è dissociazione, almeno provvisoria, tra proprietà dell’azienda ed esercizio dell’impresa, come avviene tipicamente nella successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, e anche nell’affitto o nell’usufrutto di azienda, senza che per questa sola ragione l’azienda stessa si disintegri, o anche soltanto perda la sua identità per diventare un’azienda diversa. In questi casi l’azienda è nella disponibilità del proprietario come res, senza che da parte sua vi sia esercizio di attività d’impresa.
17. Ciò che sembra decisivo, per il tema in discussione, è dunque proprio l’oggettività dell’azienda, considerata unitariamente quale oggetto di diritti: punto sul quale occorre riconoscere che il dibattito è sempre stato particolarmente vivace, e tal è rimasto anche dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942. Negli artt. 2555 – 2562 c.c., infatti, sono disciplinate in modo – solo parzialmente, del resto – unitario alcune fattispecie che non esauriscono la fenomenologia dell’azienda, lasciando aperta la discussione su tutte le fattispecie non regolate. Per queste, la considerazione unitaria dell’azienda sembra riproporre il tema della sussunzione del bene azienda in una delle categorie del Libro terzo del codice civile, che renderebbe per ciò stesso applicabile tutta la relativa disciplina civilistica, e che solleciti quindi una precisa opzione nell’annoso dibattito.
A questo riguardo si è già accennato al fatto che nella giurisprudenza della corte è ricorrente l’affermazione che l’azienda è equiparabile a un’universitas rerum regolata dall’art. 816 c.c. (si vedano, tra le molte, Cass. 13 luglio 1973 n. 2031, 7 ottobre 1975 n. 3178, 22 marzo 1980 n. 1939, 15 gennaio 2003 n. 502).
Questi precedenti, peraltro, se depongono univocamente per un’impostazione unitaria dell’azienda nella giurisprudenza della corte, riguardano tutti fattispecie di acquisto a titolo derivativo (quando non questioni di natura esclusivamente tributaria), per le quali esiste già una disciplina di diritto positivo, sicché la qualificazione giuridica dell’azienda ha il valore di spiegazione teorica ma non di vera e propria ratio deciderteli, come avverrebbe invece se da questa definizione si volesse dedurre la diretta applicabilità dell’art. 1160 c.c. all’usucapione dell’azienda.
18. Il collegio è dell’avviso che un’opzione di tipo teorico su questo problema non sia indispensabile per la soluzione del problema della configurabilità del possesso e dell’usucapione dell’azienda, potendo a questo riguardo pervenirsi a una soluzione, coerente con l’ordinamento, che prescinda dall’alternativa tra le due contrapposte teorie. Si ritiene pienamente valida, a questo proposito, l’indicazione – offerta da un esponente molto autorevole della stessa teoria atomistica – che il riconoscimento legislativo dell’unità economica dell’azienda importa implicito accoglimento di tutte le soluzioni unitarie, che non siano escluse da disciplina espressa contraria; e che, in questa prospettiva, norme (2558, 2559, 2560, 2112), dettate per gli acquisti derivativi, diventano applicabili per analogia agli acquisti a titolo originario, qual è appunto l’usucapione.
19. Il problema di causa si risolve, allora, nell’accertare se non vi siano, nel codice civile, diposizioni incompatibili con l’affermazione che l’azienda è suscettibile di possesso, che per ciò stesso sia utile all’usucapione.
La risposta negativa al quesito è imposta dal riconoscimento che, al contrario, un tale possesso è supposto in diverse disposizioni.
Va innanzi tutto considerata la definizione del possesso, nell’art. 1140 c.c., come potere sulla cosa, che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Il possesso è dunque configurabile sempre che, rispetto allo stesso bene, sia ipotizzabile la proprietà o un altro diritto reale, al cui esercizio corrisponda l’attività del possessore. Che l’azienda possa essere oggetto di proprietà o di usufrutto è peraltro espressamente sancito dagli artt. 2556, comma primo e 2561 c.c.. È dunque pienamente giustificata l’affermazione che colui il quale esercita sull’azienda un’attività corrispondente a quella di un proprietario o di un usufruttuario la possiede, e, nel concorso degli altri requisiti di legge, la usucapisce. Il possesso è qui riferibile esclusivamente al “complesso dei beni” unitariamente considerato, e non già ai singoli beni, che come è noto non appartengono necessariamente al titolare dell’azienda, e seguono le regole di circolazione loro proprie.
Il possesso dell’azienda, inoltre, è specificamente ed espressamente considerato nell’art. 670 c.p.c., che ammette il sequestro delle aziende – o di “altre universalità di beni” – quando ne sia controversa (la proprietà o) il possesso. Ora, la previsione di una controversia sulla proprietà dell’azienda – sia essa o no un’universalità di beni – si ricollega evidentemente al dettato dell’art. 2556 comma primo; mentre l’ammissione di una controversia sul possesso dell’azienda discende dal collegamento di principio tra possesso ed esercizio di fatto di diritti reali stabilito dall’art. 1140 c.c..
Il complesso di questi disposizioni non consente di dubitare che, nell’intento del legislatore, l’azienda debba essere considerata unitariamente sia sotto il profilo della proprietà (o dell’usufrutto; e con l’ovvia precisazione, anche in questo caso, che la proprietà del “complesso organizzato” non è proprietà dei singoli beni), e sia sotto quello del possesso.
20. Il principio di diritto applicabile nella fattispecie è pertanto che, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, l’azienda, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito.
21. L’applicazione del principio appena enunciato alla fattispecie di causa dimostra la correttezza giuridica della soluzione impressa alla vertenza dal giudice di merito. Né ha consistenza la censura che sarebbe stato eluso il passaggio costituito dalla necessità dell’interversione di un possesso originariamente comune. La giurisprudenza di questa corte, infatti, esclude la necessità dell’interversione del titolo, ex art. 1164 c.c., nel caso di compossesso, essendo in tal caso sufficiente che la parte abbia posseduto per il tempo necessario a usucapire, animo domini, in modo esclusivo e incompatibile con la possibilità di fatto di un godimento comune (Cass. 28 settembre 1973 n. 2430 e succ. conf.; da ultimo 25 marzo 2009 n. 7221). Nella fattispecie in esame è certo, perché fa parte delle premesse in fatto dell’azione intrapresa da B.F. , che questi fu estromesso dalla farmacia dal 12 novembre 1957, vale a dire dalla donazione del padre Ar. a favore della figlia El. , la quale proseguì nel possesso solitario e indisturbato della farmacia per più di venti anni, termine massimo stabilito dalla legge per l’usucapione anche nel caso di universalità di beni mobili (art. 1160 c.c.).
22. In conclusione il ricorso è respinto. La mancanza di precedenti sulle questioni affrontate giustifica la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità
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