Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 18 aprile 2014, n. 9032

Svolgimento del processo

Con esposto depositato il 17-7-2009 l’avv. P.M.F. , del foro di Cagliari, riferiva al CO. A. di appartenenza:
che, unitamente all’avv. B.A.M. , egli era stato difensore di fiducia di quattro imputati nel proc. pen. R.G.N.R. 7401/2007, tra i quali si annoveravano i coniugi G.S. e M.S. , entrambi ristretti in custodia cautelare in carcere;
che al fine di ridimensionare la posizione della sig.ra G. nell’ambito di una vicenda di traffico di stupefacenti e, soprattutto, per scongiurare la possibile revoca della potestà genitoriale da parte del Tribunale dei Minori, egli aveva concordato con la collega codifensore e l’assistita di far sottoporre quest’ultima ad interrogatorio da parte del P.M. incaricato delle indagini;
che in effetti l’interrogatorio veniva espletato il 28-7-2008 alla presenza di entrambi i difensori;
che di lì a poco la sig.ra G. e gli altri tre assistiti gli comunicavano la revoca del mandato, incaricando in sua sostituzione l’avv. F.R. , che si affiancava così all’avv. B. ;
che, successivamente, nell’aprile del 2009 egli era stato ingiuriato e minacciato dalla sig.ra G. ;
che, per quanto riferitogli, una decina di giorni dopo, l’avv. F. , durante la propria arringa difensiva a tutela degli imputati già assistiti da esso esponente, aveva fatto esplicito riferimento al precedente difensore della sig.ra G. , pur non menzionandolo per nome, accusandolo di averla indotta, durante l’interrogatorio del 28-7-2008, ad autoaccusarsi ed a calunniare altre persone, circostanza da cui sarebbe discesa, a parere, dell’avv. F. , l’integrale inattendibilità delle risposte rese dalla G. ;
che tale ultimo fatto trovava riscontro anche nelle motivazioni della sentenza, resa a conclusione del processo con rito abbreviato, con cui il G.I.P. aveva condannato i suoi ex assistiti.
Informato dell’esposto dal C.O.A. l’avv. F. depositava memoria difensiva il successivo 6 novembre, confermando di aver ricevuto il mandato dalla G. sul finire del 2008 e precisando di essere stato informato dell’interrogatorio della G. da quest’ultima in occasione dell’intervenuta modifica, da lui richiesta, della misura di custodia cautelare e di aver appreso altresì in quell’occasione che “il precedente difensore le aveva riferito che solo percorrendo quella strada avrebbe potuto ottenere gli arresti domiciliari e, quindi, riabbracciare i suoi figli” (arresti domiciliari poi concessi soltanto il 10 ottobre, previa istanza di esso avv. F. e, secondo quest’ultimo, “per motivi ben diversi dalla collaborazione”).
L’incolpato aggiungeva di aver appreso dalla G. che la stessa, nutrendo forti dubbi sulla scelta processuale al punto da sentirsi riluttante a rispondere al P.M. e che, per tale ragione, era stato l’avv. P. a rivolgerle numerose domande, richiamandola “al rispetto della condotta concordata”.
Alla luce di quanto appreso e delle conferme ricevute dall’ascolto della registrazione dell’interrogatorio medesimo, preso altresì atto della decisione dell’assistita, assunta a conclusione dell’udienza preliminare, di essere giudicata allo stato degli atti, l’avv. F. osservava di aver dovuto eccepire l’inutilizzabilità del verbale di interrogatorio del 28-7-2008, atteso altresì che nessun avviso ex art. 199 c.p.p. era stato preventivamente formulato.
In tale contesto, pertanto, l’incolpato concludeva che le parole pronunciate durante l’arringa difensiva avrebbero dovuto essere ricondotte “alla normale dinamica del contraddittorio fra le parti e, in particolare, alla necessaria verifica circa la spontaneità della narrazione della sig.ra G. “, non essendo stata rivolta alcuna offesa all’avv. P. , e valendo comunque, al riguardo, l’esimente prevista dall’art. 598 c.p.p..
Il CO.A. di Cagliari con provvedimento notificato il 5-5-2011 deliberava di sottoporre a procedimento disciplinare l’avv. F. , contestandogli la violazione degli artt. 22 e 29 del codice deontologico forense con riferimento ai seguenti fatti:
“a) per aver attribuito all’avv. P.M.F. , al quale era succeduto nella difesa della sig.ra G.S. , la scelta dell’imputata di autoaccusarsi falsamente e calunniare altre persone, nel corso dell’udienza preliminare, svoltasi avanti il G.I.P. del proc. pen. n. 7401/2007 RNR- 4860/07 G.I.P., pendente nei confronti della sua assistita, nonché di altri;
b) per aver sostenuto nel corso della sua discussione che la medesima G.S. si era risolta a rendere tali dichiarazioni nel corso dell’interrogatorio sollecitato dai suoi difensori avv. P.M.F. e B.A.M. , “soltanto in seguito alle insistenti, pressanti e suggestive domande” del predetto avv. P.M.F. . In (omissis) “.
Esaurita l’istruttoria e ascoltati il P.M. e la difesa, il CO.A., con decisione in data 24-6-2011, dichiarava l’avv. F. responsabile degli addebiti contestatigli e lo condannava, per l’effetto, alla sanzione di mesi due di sospensione dall’esercizio della professione.
L’incolpato impugnava tempestivamente tale decisione, con una serie di doglianze ed eccezioni, con le quali, in sintesi, sosteneva che quelle dichiarazioni e considerazioni rese durante l’arringa del 16-4-2009, non avrebbero dovuto essere considerate lesive dei doveri di comportarsi correttamente e lealmente nei confronti del collega e di non denigrare l’attività professionale dello stesso, giacché in concreto le stesse erano giustificate dalla diversa strategia difensiva adottata rispetto al predecessore.
Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza depositata il 18-7-2013, respingeva il ricorso.
In sintesi, il C.N.F. rilevava che, in primo luogo, era pacifico che l’avv. F. aveva espresso un giudizio del tutto personale allorquando aveva esposto “valutazioni” sull’operato dell’avv. P. in termini di “pressioni”, di “suggestioni” e di “sollecitazioni” che sarebbero state esercitate sulla G. , e, secondariamente, poiché la precisa volontà della G. di confessare, ricordata dalla teste (e difensore di fiducia) avv. B. , era incontrovertibile, le valutazioni dell’avv. F. si erano concretizzate in una difesa che, da un lato, aveva ignorato la precedente e non ritrattata scelta processuale della cliente e, dall’altro, aveva esplicitamente attribuito la responsabilità della scelta anzidetta, da lui non condivisa, al precedente difensore.
In tal modo era stata infranta la regola generale dell’art. 22 del codice deontologico in ragione dei gratuiti riferimenti dell’avv. F. all’asserita influenza “a confessare” che l’avv. P. avrebbe esercitato sulla G. durante l’interrogatorio, e quella dell’art. 29 dello stesso codice per la valutazione denigratoria dell’operato dell’avv. P. , desumibile dall’affermazione secondo cui la G. avrebbe confessato “reati non commessi…su pressioni del precedente difensore”.
Infine il C.N.F. respingeva anche la richiesta subordinata di riduzione della pena a quella minima dell’avvertimento, considerato il disvalore intrinseco delle argomentazioni svolte dall’avv. F. nei confronti dell’operato dell’avv. P. , che comunque aveva portato il giudice a riconoscere alla G. le attenuanti generiche.
Per la cassazione di tale sentenza l’avv. F. ha proposto ricorso con tre motivi.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, il Consiglio Nazionale Forense e il Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione sono rimasti intimati.

Motivi della decisione

Preliminarmente il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti del Consiglio Nazionale Forense.
Infatti, come è stato affermato da queste Sezioni Unite e va qui ribadito, “nel giudizio di impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense dinanzi alla Corte di cassazione, contraddittori necessari – in quanto unici portatori dell’interesse a proporre impugnazione e a contrastare l’impugnazione proposta – sono unicamente il soggetto destinatario del provvedimento impugnato, il consiglio dell’ordine locale che ha deciso in primo grado in sede amministrativa ed il P.M. presso la Corte di cassazione, mentre tale qualità non può legittimamente riconoscersi al Consiglio Nazionale Forense, per la sua posizione di terzietà rispetto alla controversia, essendo l’organo che ha emesso la decisione impugnata” (v. Cass. S.U. 24-1-2013 n. 1716, Cass. S.U. 16-7-2008 n. 19513, Cass. S.U. 5-7-2006 n. 15289, Cass. S.U. 17-9-2004 n. 18771, Cass. S.U. 6-6- 2003 n. 9075, Cass. S.U. 27-3-2002 n. 4446).
Con il primo motivo, premessa la censurabilità delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense anche sotto il profilo del difetto di motivazione, riconducibile all’art. 360, comma primo, n. 5. c.p.c., richiamato dall’ultimo comma del medesimo articolo (nel testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40/2006), il ricorrente (richiamando Cass. S.U. 7-12-2006 n. 26182) lamenta la “assoluta assenza di motivazione” sul punto asseritamente decisivo (oggetto dell’ultimo motivo di doglianza del ricorso al C.N.F., riportato anche nella sentenza impugnata), concernente la considerazione del fatto che “proprio il GUP, che ebbe a percepire le espressioni oggetto del procedimento disciplinare, e che “a suo modo” sintetizzò in sentenza, non ritenne di dovere applicare le disposizioni dell’art. 105, comma 4, c.p.p.”, in tal modo non ravvisando “alcuna slealtà da parte dell’avv. F. , o tantomeno improbità, allorché quest’ultimo aveva illustrato nel corso della sua arringa le ragioni per le quali le dichiarazioni della G. dovevano ritenersi poco spontanee a causa del precedente difensore”.
In particolare il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, sul punto, pur avendo riferito specificamente sia la relativa decisione del C.O.A. sia la doglianza di esso ricorrente, nella successiva parte motivazionale ha omesso ogni specifica considerazione al riguardo.
Tale motivo (considerato che la sentenza impugnata è stata depositata il 18-7-2013) deve essere esaminato alla luce della nuova formulazione dell’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., prevista dall’art. 54, d.l. n. 83 del 2012 (conv. con mod. in l. n. 134 del 2012), di guisa che inconferente è il richiamo fatto dal ricorrente alla giurisprudenza riguardante la formulazione anteriore al citato d.l. e successiva al d.lgs. n. 40 del 2006.
Vanno pertanto definiti i limiti entro i quali il nuovo testo abbia ammesso la valutazione da parte del giudice di legittimità della motivazione del provvedimento innanzi a lui impugnato.
Orbene, il legislatore del 2012 ha riformulato il n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., riferendolo all’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ritornando, quasi letteralmente, al testo originario del codice di rito del 1940, che prevedeva quale motivo di ricorso in cassazione, l’”omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Appare immediatamente evidente che l’unica differenza testuale è l’utilizzo della preposizione “circa” da parte del legislatore del 2012, rispetto all’utilizzo della preposizione “di” da parte del legislatore del 1940: ma è una “differenza testuale” irrilevante, trattandosi, dell’uso di una forma linguistica scorretta (un solecismo, come talvolta suoi dirsi), che non ha forza di mutare in nulla il senso della disposizione del codice di rito del 2012, rispetto alla disposizione del codice di rito del 1940.
Nella riformulazione del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., scompare ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (che pur cambia in buona misura d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. La ratio legis è chiaramente espressa dai lavori parlamentari, laddove si afferma che la riformulazione del n. 5) dell’art. 360 è “mirata…..a evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris”.
In questa prospettiva, volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Ritorna così pienamente attuale la giurisprudenza delle Sezioni Unite sul vizio di motivazione ex art. 111 Cost., come formatasi anteriormente alla riforma del decreto legislativo numero 40 del 2006: il vizio si converte in violazione di legge nei soli casi di omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile, sempre che il vizio fosse testuale.
Nel quadro di tale orientamento le Sezioni Unite (sent. n. 5888 del 1992) avevano sottolineato che la garanzia costituzionale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali dovesse essere correlata alla garanzia costituzionale del vaglio di legalità della Corte di cassazione, funzionale “ad assicurare l’uniformità dell’interpretazione ed applicazione del diritto oggettivo a tutela dell’uguaglianza dei cittadini”. Esse avevano, quindi, stabilito che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante atteneva solo all’esistenza della motivazione in sé, prescindente dal confronto con le risultanze processuali, e si esauriva nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
Le Sezioni Unite evidenziavano, altresì, che “il vizio logico della motivazione, la lacuna o l’aporia che si assumono inficiarla sino al punto di renderne apparente il supporto argomentativo, devono essere desumibili dallo stesso tessuto argomentativo attraverso cui essa si sviluppa, e devono comunque essere attinenti ad una quaestio facti (dato che in ordine alla quaestio juris non è nemmeno configurabile un vizio di motivazione). In coerenza con la natura di tale controllo, da svolgere tendenzialmente ab intrinseco, il vizio afferente alla motivazione, sotto i profili della inesistenza, della manifesta e irriducibile contraddittorietà o della mera apparenza, deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, sì da comportare la nullità di esso; mentre al compito assegnato alla Corte di Cassazione dalla Costituzione resta estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti, la quale implichi un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito”.
Siffatte conclusioni che erano state costantemente riaffermate nella giurisprudenza di legittimità sino alle modifiche al testo dell’art. 360 cod. proc. civ. introdotte con la riforma del 2006, appaiono oggi nuovamente legittimate dalla riformulazione dello stesso testo adottate con la riforma del 2012, che ha l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.
In proposito dovrà tenersi conto di quanto questa Corte ha già precisato in ordine alla “mancanza della motivazione”, con riferimento al requisito della sentenza di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ.: tale “mancanza” si configura quando la motivazione “manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” (Cass. n. 20112 del 2009).
Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.
Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.
Si può quindi affermare il seguente principio di diritto:
a) La riformulazione dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., disposta con l’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
b) Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
c) L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
d) La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come ” e il “quando ” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
Orbene, nel caso in esame, il Collegio osserva che il fatto dedotto (consistente nella circostanza che il giudice penale non aveva riferito al Consiglio dell’Ordine alcuna violazione da parte del difensore dei doveri di lealtà e probità) costituisce una risultanza istruttoria, che, peraltro, è stata chiaramente esaminata dal C.N.F., il quale, sul punto, in sostanza ha rigettato la doglianza del ricorrente (tant’è che quest’ultimo denuncia – non solo formalmente, ma anche sostanzialmente – un’omessa motivazione, proprio sul chiaro presupposto di tale rigetto).
A ben vedere, quindi, il vizio di motivazione lamentato cade sulla valutazione di tale risultanza istruttoria.
Del resto, il C.N.F. ha richiamato specificamente la decisione del C.O.A. in ordine alla rilevata diversità, quantomeno in parte, delle rispettive valutazioni ex art. 105 c. 4 c.p.p. ed ex art. 22 e 29 del codice deontologico (riguardanti in particolare i rapporti con i colleghi), ed, in sostanza, ha confermato, anche sul punto, la decisione del Consiglio territoriale.
Infine neppure potrebbe riconoscersi la decisività del fatto dedotto, giacché lo stesso non può assumere alcuna rilevanza determinante in merito all’esito del giudizio disciplinare.
Il vizio denunciato non può, quindi, ritenersi sussumibile nella nuova formulazione dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. come sopra delineato.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 22 e 29 del codice deontologico in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c..
In particolare il ricorrente sull’asserita violazione dell’art. 29, afferma che, dalle espressioni del teste dr. A. “emerge in primo luogo come l’avv. F. non abbia esposto una opinione sul comportamento del collega, bensì abbia descritto una circostanza fattuale rilevata dal GUP, e cioè che l’avv. “come l’asserzione sull’operato del collega non fosse in alcun modo denigratoria, non avendo utilizzato questi espressioni dirette a danneggiare l’avv. P. “.
Inoltre, secondo il ricorrente, il C.N.F. avrebbe fatto applicazione dell’art. 29 del codice deontologico non nella formulazione in vigore (che parla di “apprezzamenti denigratori sull’attività professionale di un collega”), bensì in quella precedente (che parlava di semplici “apprezzamenti negativi”).
Per quanto riguarda, poi, l’art. 22, il ricorrente evidenzia che dall’istruttoria è emerso che “egli ha attribuito all’avv. P. solamente di avere sollecitato la collaborazione della G. con domande insistenti nel corso dell’interrogatorio”, il tutto nell’ambito dell’esercizio del diritto di difesa.
Tale motivo in parte è inammissibile e in parte è infondato.
Innanzitutto va rilevato che, in base all’indirizzo prevalente dettato da queste Sezioni Unite, che va qui ribadito, “in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità” (v. Cass. S.U.20-12-2007 n. 26810, cfr. Cass. S.U. 23-3-2004 n. 5776, Cass. S.U. 20-12-2007 n. 26810, Cass. S.U. 7-7-2009 n. 15852, Cass. S.U. 13-6-2011 n. 12903).
Tanto premesso, in primo luogo del tutto infondato è l’assunto secondo cui il C.N.F. avrebbe applicato nella fattispecie il codice deontologico precedente, giacché tutta la motivazione relativa alla violazione dell’art. 29 è chiaramente ed espressamente fondata e sviluppata sul dato normativo degli “apprezzamenti denigratori” (e non soltanto “negativi”) nei confronti dell’operato dell’avv. P. (vedi pagine 7, 8 e 9 della sentenza).
Per il resto le censure, seppure denuncino violazione degli art. 22 e 29 del codice deontologico, in realtà non imputano alla sentenza impugnata alcuna erronea interpretazione di tali norme integrative e neppure indicano specificamente quali siano le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata asseritamente in contrasto con le dette norme, limitandosi ad assumere un apprezzamento delle risultanze istruttorie diverso da quello compiuto dal C.N.F. ed, in sostanza, a sollecitare inammissibilmente in questa sede un riesame del merito.
Al riguardo ripetutamente queste Sezioni Unite hanno affermato che in tema di impugnazioni delle decisioni del C.N.F. in materia disciplinare “l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in sede di legittimità, salvo che si traducano in palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito” (v. Cass. S.U. 7-3-2005 n. 4802, Cass. S.U. 23-3-2007 n. 7103) e (deve aggiungersi) salva la garanzia del “minimo costituzionale”, come sopra delineato, del sindacato sulla motivazione in sede di legittimità.
Tale sindacato, a ben vedere, in effetti, è in qualche modo invocato con il terzo motivo, sotto il profilo della ragionevolezza e della comprensibilità della motivazione.
Con tale ultimo motivo, infatti il ricorrente lamenta che la motivazione “risulta così scarna da non essere sufficiente” a fare comprendere le ragioni per le quali le parole di esso avv. F. “dovrebbero considerarsi sleali, scorrette e denigratorie”.
Anche tale motivo non merita accoglimento, in base ai principi sopra enunciati, in quanto, in sostanza, il ricorrente lamenta una asserita insufficienza della motivazione, come tale non denunciabile in questa sede.
Peraltro la sentenza impugnata ha attentamente esaminato e valutato tutte le risultanze istruttorie, fornendo una congrua e completa motivazione, senz’altro ragionevole, sia in ordine alla violazione dell’obbligo di correttezza e lealtà, sia in relazione alla violazione del dovere di astenersi dall’esprimere apprezzamenti denigratori sull’attività professionale del collega, analizzando attentamente sia il comportamento tenuto sia le espressioni adottate.
Infine, certamente non può censurarsi in questa sede la sanzione inflitta sotto il profilo della adeguatezza e della asserita severità (e tanto meno potrebbe ridursi la sanzione stessa), in quanto, come è stato costantemente affermato da queste Sezioni Unite e va qui ribadito “in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, il potere di applicare la sanzione adeguata alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale è riservato agli organi disciplinari; pertanto, la determinazione della sanzione inflitta all’incolpato dal Consiglio Nazionale Forense non è censurabile in sede di legittimità, salvo il caso di assenza di motivazione” (v. Cass. S.U. 1-8- 2012 n. 13791, Cass. S.U. 26-5-2011 n. 11564, Cass. S.U. 23-1-2004 n. 1229, Cass. S.U. 13-1-2003 n. 326) – caso che chiaramente non ricorre nella fattispecie, avendo il C.N.F. espressamente respinto la domanda subordinata di riduzione della sanzione sulla base non solo dei precedenti rinvenibili nella giurisprudenza dello stesso C.N.F., ma anche del rilievo del “disvalore intrinseco delle argomentazioni svolte dall’avv. F. nei confronti dell’operato dell’avv. P. “, la cui strategia difensiva “così indebitamente personalizzata ed anche criticata dall’incolpato, aveva comunque portato il Giudice ad una favorevole valutazione del comportamento processuale della G. , così da riconoscerle, pur in relazione a fatti oggettivamente gravi, le attenuanti generiche.
Il ricorso va pertanto respinto nei confronti del C.O.A. di Cagliari e del Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione.
Infine, in mancanza di attività difensiva da parte degli intimati non deve provvedersi sulle spese, mentre, trattandosi di ricorso notificato successivamente al termine previsto dall’art. 1, comma 18, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della citata legge n. 228 del 2012.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del C.N.F., rigetta il ricorso nei confronti degli altri intimati, nulla per le spese; da atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.

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