Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 12 settembre 2017, n. 41588. I delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo

I delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex L. 2 ottobre 1967, n. 895, artt. 2, 4 e 7, non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 23, commi 1, 3 e 4.

CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA 12 settembre 2017, n.41588

Pres. Canzio – est. Montagni

Svolgimento del processo

L.M.S., a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Catania indicata in epigrafe con la quale è stata confermata la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Ragusa, resa all’esito di giudizio abbreviato, di condanna dell’imputato in riferimento al delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 23, commi 1 e 4) e di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (L. 2 ottobre 1967, n. 895, art. 4, comma 1, e art. 7, comma 1).

Nel censire i motivi di doglianza dedotti dalla difesa in ordine all’affermazione di responsabilità, la Corte di appello ha affermato che non vi può essere assorbimento dei reati di detenzione e porto di arma comune da sparo in quelli, rispettivamente, di detenzione e porto di arma clandestina, secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale, essendo diversi sia gli elementi strutturali delle fattispecie, sia gli interessi protetti dalle norme incriminatrici.

Il ricorrente, con unico motivo, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione al ritenuto concorso formale tra i due reati in contestazione. L’esponente rileva che il concorso di reati è ipotizzabile tra l’illegittima detenzione dell’arma e l’illegittimo porto della stessa ma non anche tra le fattispecie del porto in luogo pubblico dell’arma clandestina e del porto illegale in luogo pubblico della medesima arma, di talchè la contestazione relativa al porto in luogo pubblico dell’arma clandestina, in base al principio di specialità, deve essere selezionata come l’unica applicabile.

Con ordinanza in data 3 aprile 2017 la Prima Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite rilevando la necessità di prevenire un potenziale contrasto interpretativo rispetto al seguente quesito: se il delitto di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo (L. n. 895 del 1967, artt. 4 e 7) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4) siano tra loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo.

La giurisprudenza di legittimità esclude la possibilità di ritenere assorbito il secondo reato nel primo, per la diversità ontologica tra le due fattispecie penali. La Prima Sezione osserva che non risulta giustificata l’esclusione del rapporto di specialità tra norme incriminatrici, regolato dall’art. 15 cod. pen., avuto riguardo all’elemento specializzante e individualizzante della clandestinità dell’arma, previsto dalla fattispecie di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, rispetto all’ipotesi generale relativa al porto illegale di un’arma comune da sparo, L. n. 895 del 1967, ex artt. 4 e 7. Pertanto, il reato di porto illecito di arma comune da sparo dovrebbe ritenersi assorbito nel reato di porto di arma clandestina.

Il Primo Presidente, con decreto del 9 maggio 2017, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

L’Avvocato generale ha depositato memoria, nella quale afferma che il delitto di porto di arma comune da sparo clandestina (L. n. 110 del 1975, ex art. 23) assorbe, per specialità, il delitto di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (L. n. 897 del 1967, ex artt. 4 e 7). Osserva che il consolidato orientamento giurisprudenziale si basa sulla differenza dell’interesse protetto dalle norme incriminatrici, mentre alla stregua dell’insegnamento delle Sezioni Unite, al fine di valutare la sussistenza di un rapporto di specialità, occorre effettuare un raffronto strutturale tra le fattispecie astratte.

Sulla scorta di tali rilievi, l’Avvocato generale considera che tra le due fattispecie in esame è ravvisabile l’identità di materia che l’art. 15 cod. pen. individua come presupposto per l’applicazione del principio di specialità, di talchè la fattispecie di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, caratterizzata dall’elemento aggiuntivo specializzante della clandestinità dell’arma, include la fattispecie di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo L. n. 895 del 1967, ex art. 4.

Motivi della decisione

La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è la seguente:

‘Se il delitto di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo (L. n. 895 del 1967, artt. 4 e 7) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4) sono tra loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo’.

La giurisprudenza di legittimità risulta consolidata nell’escludere l’assorbimento dei reati di detenzione e di porto illegali di una arma comune da sparo, rispettivamente, in quelli di detenzione e porto di arma clandestina.

Invero, la Corte di cassazione, sin dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, ha affermato che la L. 14 ottobre 1974, n. 497, artt. 10 e 12 (che hanno sostituito la L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4), relativi alla detenzione e al porto di armi comuni da sparo, e la L. n. 110 del 1975, artt. 2 e 23, relativi al porto in luogo pubblico di armi comuni da sparo considerate clandestine, concorrono, giacchè tutelano beni giuridici diversi (Sez. 2, n. 1026 del 16/10/1978, dep. 1979, Bertoli, Rv. 140961), ovvero sono diversi gli interessi rispettivamente protetti. La L. n. 497 del 1974, art. 14 soddisfa l’esigenza di porre l’autorità in grado di conoscere con tempestività l’esistenza di armi, i luoghi ove esse si trovano e le persone che le posseggono, mentre la L. n. 110 del 1975, art. 23 è dettato per escludere, in modo assoluto e senza possibilità di deroghe od autorizzazioni, la presenza nel territorio dello Stato di armi prive di segni o contrassegni di identificazione e tutela quindi l’interesse della pubblica amministrazione a che tutte le armi esistenti sul territorio nazionale siano controllate e munite dei prescritti segni di identificazione (Sez. 1, n. 5224 del 21/12/1982, dep. 1983, Delli Calici, Rv. 159363). Si è precisato che tra i reati di detenzione e porto di armi comuni da sparo e i reati previsti dalla L. n. 110 del 1975, art. 23, relativi alle armi comuni da sparo considerate clandestine, non si verifica alcun assorbimento, in quanto le norme rispettivamente indicate per i predetti reati tutelano un bene giuridico diverso (Sez. 1, n. 4862 del 16/02/1988, Mecca, Rv. 178198). Si è pure osservato che l’impossibilità dell’assorbimento discende dalla diversità della condotta posta in essere dall’agente (Sez. 1, n. 1833 del 04/11/1993, Marini, Rv. 196516). Si tratta di orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, anche per quanto riguarda le ragioni ritenute ostative all’assorbimento dei reati (Sez. 6, n. 45903 del 16/10/2013, Iengo, Rv. 257386; Sez. 1, n. 5567 del 28/09/2011, dep. 2012, Deragna, Rv. 251821; Sez. 3, n. 11251 del 17/01/2008, Lusini, Rv. 239004; Sez. 1, n. 4436 del 22/06/1999, Lobina, Rv. 214026; Sez. 1, n. 7442 del 10/05/1995, De Lucia, Rv. 201926).

Il quesito pone nuovamente all’esame delle Sezioni Unite il tema relativo al rapporto intercorrente tra fattispecie incriminatrici. Il caso in esame involge, infatti, il problema relativo alla selezione delle fattispecie penali astrattamente applicabili in regime di concorso formale, a fronte della realizzazione di un’unica condotta materiale.

La sollecitazione della Sezione rimettente impone al Collegio di sottoporre a verifica le ragioni in forza delle quali il delitto di porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 4 e 7 e il delitto di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo considerata clandestina, L. n. 110 del 1975, ex art. 23, commi 1 e 4, realizzano ipotesi di concorso formale di reati. Per coerenza sistemica, l’indagine viene estesa al rapporto intercorrente fra le omologhe fattispecie di detenzione illegale di armi comuni da sparo (L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 7) e di detenzione di armi comuni da sparo clandestine (L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 3).

Il tema di indagine è tutto interno alla categoria delle armi comuni da sparo. Se pure la nozione di clandestinità sia, in astratto, riferibile a qualsiasi tipo di arma, anche da guerra, la categoria di arma clandestina è definita dalla L. n. 110 del 1975, art. 23, comma 1, in riferimento alle armi comuni da sparo non catalogate o sprovviste dei segni identificativi previsti della medesima L. n. 110 del 1975, art. 11.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite risulta consolidata nel rilevare che l’unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme è da rinvenirsi nel principio di specialità ex art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232302, ove si osserva che i diversi criteri della sussidiarietà e della sussunzione sono da ritenersi tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità).

E’ il principio di specialità, pertanto, che assurge a criterio euristico di riferimento.

Il principio di specialità definito dall’art. 15 cod. pen. consente alla legge speciale di derogare a quella generale, nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la ‘stessa materia’. Sul punto, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicchè l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.). In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale. Il presupposto della convergenza di norme, necessario perchè risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 15 cod. pen., risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato.

L’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per ‘stessa materia’ deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, cit.).

In applicazione dei richiamati principi, la Corte regolatrice, nella sua massima espressione, ha rilevato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perchè l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra l’art. 581 cod. pen. (percosse) e art. 572 cod. pen. (maltrattamenti in famiglia), ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui all’art. 605 cod. pen. (sequestro di persona) e art. 630 cod. pen. (sequestro di persona a scopo di estorsione). L’identità di materia è, invece, da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722).

Sul rapporto tra fattispecie incriminatrici è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 200 del 2016), la quale si è soffermata sul tema della comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale nei confronti del medesimo soggetto, ai fini delle operatività del divieto di cui all’art. 649 c.p.p.. Il ragionamento, non di meno, involge il tema del rapporto strutturale tra fattispecie di reato, secondo il principio di specialità, se pure colto nella dimensione dinamica del fenomeno, derivante dalla instaurazione di un secondo giudizio, per lo stesso fatto e a carico del medesimo imputato. Nella sentenza richiamata si osserva che soltanto qualora il giudice abbia escluso che tra le norme incriminatrici viga un rapporto di specialità (ex artt. 15 e 84 c.p.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, è dato attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, se pure il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico.

Il Giudice delle leggi si è in primo luogo soffermato sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, ove è stabilito: ‘Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato’. La Corte Costituzionale, richiamando la sentenza della Grande Camera del 10/02/2009 Zolotukhin c. Russia, ha considerato che la CEDU individua la portata dell’effetto preclusivo, rispetto alla celebrazione di un secondo giudizio, sulla base del più favorevole criterio dell’idem factum. Ciò posto, la Corte Costituzionale ha rilevato che la CEDU impone certamente agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, senza peraltro collocare quest’ultimo nella sfera della sola azione o omissione posta in essere dall’agente e trascurando l’evento naturalistico verificatosi per effetto della condotta ed il relativo nesso di causalità. Delineata, così, la garanzia convenzionale del divieto di bis in idem, la Corte Costituzionale ha escluso che una interpretazione dell’art. 649 c.p.p., svincolata dalla sola condotta, ed estesa all’oggetto fisico di essa o all’evento in senso naturalistico, realizzi un contrasto con il vincolo derivante dalla CEDU. Ed ha richiamato l’insegnamento espresso dalle Sezioni Unite, in base al quale l’identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), ribadendone la compatibilità con la richiamata giurisprudenza Europea. La Corte Costituzionale si è poi soffermata sulla ulteriore questione, riguardante la regola enucleata dal diritto vivente, in base alla quale non trova applicazione il principio del ne bis in idem ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio; ed ha chiarito che, anche il tal caso, il giudice del merito non è esonerato dall’indagine relativa alla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 c.p.p.. In conclusione, la Corte Costituzionale ha precisato che le valutazioni ora richiamate non impongono di applicare il divieto del bis in idem per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione od omissione. L’autorità giudiziaria, infatti, nel verificare l’ambito di operatività della preclusione di cui all’art. 649 c.p.p., deve porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione; con la precisazione che, a tale scopo, non esercita alcuna influenza l’esistenza di un concorso formale dei reati.

Con la sentenza n. 200 del 2016 è stata quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Preme sottolineare che la Corte Costituzionale ha chiarito che, anche alla luce dei principi convenzionali che regolano la materia, la nozione di fatto di reato, nella delineata prospettiva, è l’accadimento materiale ‘affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi’. Con la precisazione che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto non possono comportare il riemergere dell’idem legale, giacchè esse non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico.

Le argomentazioni espresse dalla Corte Costituzionale, nel delineare la nozione di idem factum, si collocano nell’alveo del richiamato orientamento espresso dalle Sezioni Unite nell’interpretazione dell’art. 15 c.p., in base al quale il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici da porre in comparazione non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità; e attualizzano tale insegnamento, in conformità ai limiti imposti dalla cornice convenzionale.

L’argomento di ordine sistematico, posto alla base della tesi che afferma la sussistenza del concorso, poggia sul rilievo che i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, ex L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7, e di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo clandestina di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1, 3 e 4, tutelano, rispettivamente, diversi beni giuridici.

Si tratta di un criterio che non può, ad oggi, ritenersi conducente.

La concezione naturalistica del fatto di reato, come da ultimo sviluppata dalla Corte Costituzionale, in riferimento all’ambito di operatività dell’art. 649 c.p.p., ha messo in chiaro principi di garanzia che devono assistere l’interprete, nella valutazione sulla identità del fatto oggetto delle diverse norme incriminatrici poste a raffronto. Il giudizio sulla medesimezza del fatto di reato deve essere affrancato dalle mutevoli implicazioni derivanti dall’inquadramento giuridico delle fattispecie, giacchè diversamente riemergerebbe il criterio dell’idem legale, bandito dall’ordinamento nel senso indicato dal Giudice delle leggi. Deve, allora, ribadirsi che il fatto penalmente rilevante involge l’accadimento storicamente verificatosi, tenuto anche conto dell’oggetto fisico su cui è caduta l’azione umana.

6.1 Si introduce così l’esame del secondo argomento – che invero risulta espresso in termini assertivi, nelle sentenze esaminate – in base al quale l’impossibilità dell’assorbimento tra le fattispecie in esame discende dalla diversità della condotta realizzata dal soggetto agente.

Come detto, al fine di verificare l’eventuale operatività del principio di specialità ex art. 15 c.p., occorre porre in comparazione gli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato, astrattamente configurate. Ebbene, non pare revocabile in dubbio che la condotta materiale oggetto delle coppie di reato prese in considerazione – la detenzione di arma comune da sparo rispetto alla detenzione di arma clandestina; il porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo rispetto al porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina – risulta naturalisticamente identica e differisce, unicamente, per il dato relativo alla clandestinità dell’arma oggetto di detenzione ovvero di porto. Rileva, pertanto, il Collegio che anche l’argomento in esame, che è stato opposto alla operatività del principio di specialità, non può essere condiviso.

6.2 Va peraltro rimarcato che la valutazione che si viene compiendo involge il tema della operatività del principio di specialità ex art. 15 c.p., tra la L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7 e la L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1, 3 e 4, qualora venga realizzata dal soggetto agente l’unica condotta naturalistica, data dalla detenzione o dal porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un’arma comune da sparo clandestina. Resta, cioè, impregiudicata la possibilità di ritenere sussistente, in concreto, il concorso tra i diversi reati citati, qualora l’agente ponga in essere una pluralità di condotte, nell’ambito di una progressione criminosa, nella quale alla detenzione o al porto illegali di un’arma comune da sparo faccia seguito la fisica alterazione della medesima arma, che venga resa clandestina in un secondo momento.

Le considerazioni sin qui svolte conducono ad escludere il concorso formale, rispettivamente, tra i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7 e quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1, 3 e 4.

L’identità della condotta materiale, sul piano storico-naturalistico, oggetto delle richiamate norme incriminatrici, induce infatti a rilevare che il dato della clandestinità dell’arma integra un elemento specializzante per aggiunta unilaterale. I reati di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1, 3 e 4, costituiscono ipotesi criminose speciali, rispetto a quelle di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7, giacchè contengono tutti gli elementi costitutivi della condotta – detenzione e porto di un’arma comune da sparo – e, in più, quale elemento specializzante, il dato della clandestinità dell’arma comune da sparo, che risulta non catalogata o sprovvista dei segni identificativi previsti dalla L. n. 110 del 1975, art. 11.

Si osserva che non risulta configurabile un rapporto di specialità reciproca fra le fattispecie in esame, atteso che le disposizioni di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 3 e 4, non ripetono l’avverbio ‘illegalmente’ impiegato dal legislatore per definire le condotte illecite di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4, relative alla detenzione ed al porto di armi non clandestine. Ciò in quanto, l’arma clandestina non è mai legalmente detenibile, nè può essere legalmente portata in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Conseguentemente, sfugge la giuridica configurabilità dei reati di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7, qualora la condotta abbia ad oggetto un’arma comune da sparo clandestina, posto che l’elemento della clandestinità esclude in termini la configurabilità stessa dell’uso legale dell’arma. Invero, proprio la possibilità di detenere o di portare in luogo pubblico o aperto al pubblico armi comuni da sparo, nel rispetto delle norme di pubblica sicurezza, di converso, costituisce il presupposto logico delle condotte incriminate dalle citate norme della L. n. 895 del 1967, qualificate dall’illegalità della detenzione o del porto.

Pertanto, in base al principio di specialità, nei casi di detenzione e di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un’arma comune da sparo clandestina devono trovare applicazione le specifiche fattispecie di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1, 3 e 4, dedicate rispettivamente alla detenzione (comma 3) ed al porto (comma quarto 4) delle armi clandestine, e non le generali previsioni sulla detenzione ed il porto illegali delle armi comuni da sparo, di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7.

7.1 L’approdo interpretativo risulta coerente con l’impianto della L. n. 895 del 1967.

La L. n. 895 del 1967, art. 4, comma 2, nel prevedere specifiche circostanze aggravanti, derivanti dal concorso di più persone o dai luoghi nei quali la condotta viene realizzata, inserisce la clausola di sussidiarietà ‘salvo che il porto d’arma costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica per il reato commesso’. Detta clausola di riserva, funzionale a scongiurare la superfetazione delle contestazioni e delle sanzioni, impone l’applicazione della sola norma incriminatrice di cui il porto dell’arma costituisce elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica, pure a fronte della ricorrenza degli elementi costitutivi delle richiamate aggravanti, di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 4, comma 2. Nel caso di specie, già il primo giudice ha escluso la circostanza aggravante originariamente contestata del fatto commesso nelle immediate vicinanze dei luoghi destinati al pubblico trasporto – ex L. n. 895 del 1967, art. 4, comma 2, lett. c), – sul presupposto che il porto dell’arma clandestina integra il reato di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4, (l’imputato era stato sorpreso mentre stava per accedere con l’arma clandestina ad un’area aeroportuale). Oltre a verificare la configurabilità delle aggravanti di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 4, comma 2, in applicazione della clausola di riserva espressa ora richiamata, l’interprete deve non di meno verificare se le stesse fattispecie di detenzione e porto di armi comuni da sparo, di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7, risultino recessive rispetto ad altre ipotesi di reato, secondo la regola generale posta dall’art. 15 c.p..

Deve, quindi, procedersi al confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurabili, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le diverse fattispecie di reato regolanti la stessa materia. E la razionalità complessiva del sistema sanzionatorio è garantita dalla valorizzazione degli elementi integranti le fattispecie, anche circostanziali, pur non autonomamente applicabili, posto che nel momento della quantificazione della pena il giudice è chiamato a considerare la gravità del reato, secondo le specifiche modalità dell’azione.

Tutto ciò premesso, la risposta al quesito sottoposto ad esame è la seguente:

‘I delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex L. 2 ottobre 1967, n. 895, artt. 2, 4 e 7, non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 23, commi 1, 3 e 4’.

Soffermandosi ora sul ricorso proposto dall’imputato, giova ricordare che, secondo quanto accertato in sede di merito, L.M.S., sottoposto a controllo dagli ufficiali di polizia giudiziaria in servizio di vigilanza aeroportuale, venne trovato in possesso di un’arma a salve modificata, considerata clandestina.

L.M. aveva modificato la pistola a salve, di libera detenzione, rendendola idonea all’impiego di munizioni letali, evenienza che ha comportato la qualificazione dell’arma come clandestina. Al prevenuto non è stato altrimenti contestato il reato di detenzione illegale di arma comune da sparo, giacchè la condotta aveva originariamente ad oggetto una pistola a salve, nè quello di detenzione di arma clandestina; ed il tema relativo alla applicazione del principio di specialità, nel caso di specie, riguarda il rapporto tra il reato di porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, ex L. 2 ottobre 1967, n. 895, artt. 4 e 7, richiamato al capo B) della rubrica, e quello di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina, di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 23, commi 1 e 4, di cui al capo A) dell’imputazione, come evidenziato dalla Corte di appello di Catania.

L’applicazione dei principi di diritto sopra enunciati conduce all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, relativamente al reato di porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 4, comma 1 e art. 7 (capo B), da ritenersi assorbito in quello di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina, di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 23, commi 1 e 4, (capo A).

Per l’effetto, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), va eliminato il segmento di pena applicato a titolo di continuazione (mesi dieci di reclusione ed Euro 2.200 di multa, che, ridotti di un terzo per la scelta del rito, risultano pari a mesi sei, giorni venti di reclusione ed Euro 1466,67 di multa) e rideterminata la pena, per il residuo reato di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4, (capo A), in anni due, mesi nove, giorni dieci di reclusione ed Euro 3.330 di multa.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 4, comma 1 e art. 7 (capo B), che esclude, e, per l’effetto, ridetermina la pena per il residuo reato di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4, (capo A) in anni due, mesi nove, giorni dieci di reclusione ed Euro 3.330 di multa.

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