Legittima la sanzione dell’avvertimento per l’avvocato che chiede la condanna alle spese dell’avvocato della controparte in solido con il cliente, anche in assenza di mala fede e colpa grave.
Sentenza 16 novembre 2017, n. 27200
Data udienza 10 ottobre 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f.
Dott. DI AMATO Sergio – Presidente di Sez.
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere
Dott. MANNA Antonio – Consigliere
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9415/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI REGGIO EMILIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 10/2017 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 09/03/2017;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1. A seguito dell’esposto presentato dall’avv. (OMISSIS) in data 4 ottobre 2011, l’avv. (OMISSIS) venne sottoposto a giudizio disciplinare, davanti al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Reggio Emilia, con l’incolpazione di cui al R.Decreto Legge 27 novembre 1933, n. 1578, articoli 12 e 38, in riferimento all’articolo 22, primo capoverso, ed all’articolo 23, primo capoverso, del codice deontologico forense, per non aver mantenuto nei confronti del collega suindicato un comportamento ispirato a correttezza. In particolare, la scorrettezza venne individuata nell’aver chiesto, in sede di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la condanna dell’avv. (OMISSIS) al risarcimento dei danni di cui all’articolo 96 cod. proc. civ. in solido con il proprio assistito, addebitando la colpa esclusivamente al collega la cui correttezza, invece, era stata dimostrata nel prosieguo del processo.
Il C.O.A. ritenne l’avv. (OMISSIS) responsabile di tale accusa e gli inflisse la sanzione dell’avvertimento.
2. La pronuncia e’ stata impugnata dal professionista ed il Consiglio nazionale forense, con sentenza del 9 marzo 2017, ha rigettato il ricorso, confermando la responsabilita’ dell’incolpato e la relativa sanzione.
Ha premesso il C.N.F. che le violazioni deontologiche contestate all’avv. (OMISSIS) erano da ritenere corrispondenti, nel nuovo codice deontologico forense, alla previsione dell’articolo 46, in base al quale l’avvocato “deve ispirare la propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza”, precetto la cui violazione e’ punita con la sanzione dell’avvertimento. Alla luce di tale previsione, il dovere di difesa ha sempre la prevalenza, pur nel tentativo costante di salvaguardare il rapporto di colleganza.
Nel caso di specie, pacifica la circostanza che l’avv. (OMISSIS) aveva chiesto la condanna dell’avv. (OMISSIS), in solido con il suo cliente, ai sensi dell’articolo 96 cit., tale richiesta costituiva di per se’ illecito disciplinare, poiche’ la “totale assenza di mala fede e colpa grave” dell’avv. (OMISSIS) era emersa sia nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo nel corso del quale la richiesta di condanna era stata avanzata che nel successivo grado di appello, nei quali l’avv. (OMISSIS) era risultato vittorioso. Dovevano percio’ ritenersi “del tutto gratuite ed ingiustificate le pesanti critiche” rivolte nei confronti del collega.
Da tale valutazione il C.N.F. ha tratto l’ulteriore conseguenza per cui correttamente il C.O.A. aveva escluso di poter applicare nella fattispecie una “lettura estensiva” degli articoli 94 e 96 cod. proc. civ. tale da consentire la condanna in solido dell’avvocato con il proprio cliente.
3. Contro la sentenza del C.N.F. propone ricorso l’avv. (OMISSIS) con atto affidato a due motivi.
Gli intimati non hanno svolto attivita’ difensiva in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Rilevano le Sezioni Unite, preliminarmente, che il ricorso, che risulta notificato anche al C.N.F., e’ in parte qua inammissibile, posto che il C.N.F. non e’ parte del procedimento, bensi’ e’ il giudice la cui pronuncia e’ impugnata in questa sede.
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione degli articoli 24 e 111 Cost., dell’articolo 112 cod. proc. civ., del Regio Decreto 22 gennaio 1934, n. 37, articolo 48, in relazione alla L. 21 dicembre 2012, n. 247, articolo 59, per difetto di correlazione tra incolpazione e decisione.
Osserva il ricorrente che sia il Regio Decreto n. 37 del 1934, articolo 48 sia la L. n. 247 del 2012, articolo 59 ribadiscono il principio per cui all’incolpato deve essere mossa una contestazione dell’addebito precisa e circostanziata, a salvaguardia del suo diritto di difesa. Nella specie, l’atto di incolpazione faceva riferimento al R.Decreto Legge n. 1578 del 1933, articoli 12 e 38, in riferimento agli articoli 22 e 23 del codice deontologico forense allora vigente, per non aver tenuto un comportamento ispirato a correttezza e lealta’. Il C.N.F., ritenendo che la condotta in questione potesse essere ricompresa nella previsione dell’articolo 46 del nuovo codice deontologico forense, avrebbe omesso di considerare che questa disposizione non fa alcun riferimento al dovere di agire con correttezza e lealta’, che e’ invece previsto dall’articolo 9 del vigente codice deontologico; in tal modo, percio’ sarebbe stato violato il principio di corrispondenza tra l’incolpazione e la decisione, con conseguente nullita’ della sentenza.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione della L. n. 247 del 2012, articolo 65 in riferimento alla successione delle leggi nel tempo ed all’applicazione di quella piu’ favorevole, nonche’ del vigente codice deontologico nella parte in cui prevede la tipizzazione degli illeciti e la predeterminazione delle sanzioni applicabili.
Osserva il ricorrente che l’articolo 65 cit. prevede che, nel passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento forense, l’entrata in vigore del nuovo codice deontologico ha determinato la cessazione di efficacia delle disposizioni precedenti, con applicazione delle norme nuove anche ai procedimenti disciplinari in corso, se piu’ favorevoli all’incolpato (c.d. principio del favor rei). Le norme contenute nel titolo primo del nuovo codice deontologico non prevedono l’irrogazione di alcuna sanzione disciplinare; pertanto, poiche’ la lesione dei doveri di correttezza e lealta’ viene menzionata solo nel titolo primo cit., da tanto conseguirebbe che nessuna sanzione disciplinare poteva essere posta a carico del ricorrente.
3. La trattazione dei due motivi, benche’ essi pongano questioni differenti, puo’ avvenire in modo unitario, poiche’ le censure sono tra loro intimamente connesse.
3.1. E’ opportuno premettere che l’odierno procedimento disciplinare si colloca, per cosi’ dire, a cavallo tra il precedente e l’odierno codice deontologico forense. Mentre, infatti, la vicenda che ha dato luogo alla sanzione si e’ verificata nel 2011, la delibera del C.O.A. di Reggio Emilia e’ del 16 settembre 2013 e quella del C.N.F. e’ del 9 marzo 2017, quando il nuovo codice deontologico era ormai entrato in vigore (la pubblicazione, infatti, e’ avvenuta nella Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 2014 e l’articolo 73 del codice stesso ne prevede l’entrata in vigore sessanta giorni dopo tale pubblicazione). Da tale cronologia deriva che, come correttamente e’ stato posto in luce dal ricorrente, alla vicenda in esame deve trovare applicazione il principio, piu’ volte affermato nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, per cui le norme del nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti in corso, se piu’ favorevoli per l’incolpato, in conformita’ al disposto della L. 31 dicembre 2012, n. 247, articolo 65, comma 5, (v. la sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023, seguita, fra le altre, dall’ordinanza 27 ottobre 2015, n. 21829, e dalla sentenza 20 settembre 2016, n. 18394).
3.2. Tanto premesso, il primo motivo di ricorso non e’ fondato.
Il ricorrente censura la mancata correlazione tra incolpazione e decisione, ma tale eventualita’ non e’ configurabile nel caso in esame. Come queste Sezioni Unite hanno gia’ affermato nella sentenza 4 febbraio 2005, n. 2197 – con un principio piu’ volte ripreso in relazione al procedimento disciplinare riguardante i magistrati – nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, e pure nella fase amministrativa che si svolge dinanzi al locale Consiglio dell’ordine, vige, come naturale corollario del principio del contraddittorio e della garanzia del diritto di difesa, il divieto di emettere decisioni a sorpresa. Non e’ cioe’ consentito porre a base della decisione con cui si dichiari la responsabilita’ disciplinare un’ipotesi di illecito diversa da quella originariamente contestata con il decreto di citazione dinanzi al Consiglio dell’ordine, e senza che, in relazione alla nuova ipotesi di illecito, vi sia stata, per l’incolpato, la possibilita’ di svolgere alcuna attivita’ difensiva.
E’, quindi, nel principio del contraddittorio, che si collega con la garanzia costituzionale del giusto processo, che trova fondamento la necessita’ che l’incolpato abbia la possibilita’ di interloquire e di difendersi in relazione all’accusa disciplinare mossa nei suoi confronti.
Proprio questo, pero’, dimostra l’infondatezza del motivo in esame. Nella vicenda odierna, infatti, il capo di incolpazione e’ rimasto sempre il medesimo, mentre si e’ modificato il quadro normativo di riferimento, perche’ il codice deontologico e’ cambiato durante il corso del processo, ma il fatto e l’accusa sono rimasti i medesimi. Non sussiste, percio’, difetto di correlazione tra incolpazione e decisione, ma solo un problema di inquadramento giuridico del comportamento tenuto dall’avv. (OMISSIS) nel passaggio dalle precedenti norme a quelle oggi vigenti.
3.3. Da quanto affermato fin qui deriva che la vera questione consiste nello stabilire se possa dirsi – come sostiene il secondo motivo di ricorso, che si va adesso ad esaminare – che nel nuovo sistema la violazione dei doveri di correttezza e lealta’ non possa dare luogo alla sanzione dell’avvertimento. In altri termini, poiche’ il C.O.A. di Reggio Emilia aveva contestato la violazione del dovere di correttezza, mentre il C.N.F. ha inquadrato il fatto nell’articolo 46, cioe’ violazione del rapporto di colleganza, occorre stabilire se tale inquadramento sia corretto alla luce del principio del favor rei.
Ritengono queste Sezioni Unite che la decisione del C.N.F. sia corretta.
Come risulta dalla sentenza impugnata, all’avv. (OMISSIS) venne contestata la violazione degli articoli 22 e 23 del codice deontologico previgente, in relazione al R.Decreto Legge n. 1578 del 1933, articoli 12 e 38, “per non aver mantenuto nei confronti del collega (OMISSIS) un comportamento ispirato a correttezza”. Il C.N.F. ha individuato una corrispondenza tra tale contestazione disciplinare e l’articolo 46 del nuovo codice deontologico, che prevede l’obbligo dell’avvocato di ispirare la propria condotta “all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza”. Nel sistema delineato dal nuovo codice deontologico la violazione dei doveri di probita’, dignita’, decoro e indipendenza e’ prevista dall’articolo 9, mentre il successivo articolo 20 stabilisce che la violazione dei doveri di cui ai precedenti articoli (dunque, anche dell’articolo 9) costituisce illecito disciplinare nelle ipotesi di cui ai titoli 2, 3, 4, 5 e 6 del codice, cioe’ in presenza di previsioni specifiche. Ne consegue che e’ del tutto ragionevole la ricostruzione operata nella sentenza impugnata secondo cui la previsione dell’articolo 46 – dove, a proposito dei doveri dell’avvocato nel processo (cioe’ nel caso in esame), si stabilisce che il professionista deve osservare il dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza – trova corrispondenza in quella a suo tempo contestata all’avv. (OMISSIS), poiche’ la violazione del rapporto di colleganza puo’ costituire una concreta esplicazione della violazione del piu’ vasto ambito della lealta’ e correttezza professionale.
Cio’ comporta la legittimita’ della sanzione dell’avvertimento in concreto inflitta.
3.4. Si impone, in conclusione, un’ultima considerazione.
La Corte rileva che non puo’ essere oggetto di esame in questa sede l’ulteriore questione, posta dal difensore del ricorrente nel corso dell’udienza di discussione, riguardante il problema del merito dell’accusa disciplinare. Il difensore, infatti, ha sostenuto che non si potrebbe considerare violazione del rapporto di colleganza la richiesta di condanna di un collega, ai sensi dell’articolo 96 cod. proc. civ., in solido con la parte da lui assistita. Si tratta, pero’, di un profilo estraneo al ricorso, in quanto posto per la prima volta in sede di discussione e, quindi, inammissibile.
4. Il ricorso, pertanto, e’ rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attivita’ difensiva da parte degli intimati.
Sussistono tuttavia le condizioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
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