Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 16 novembre 2017, n. 27199. Cosa deve contenere l’atto d’appello: chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice

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La pronuncia delle Sezioni Unite appena richiamata, quindi, teorizzo’, pur in assenza di un’espressa previsione nel tessuto normativo allora vigente, l’inammissibilita’ dell’atto di appello redatto in forme non rispettose dell’articolo 342 del codice di rito.
3.3. La giurisprudenza degli anni successivi si attenne in sostanza sempre a tale orientamento delle Sezioni Unite, confermando che la sanzione conseguente al mancato rispetto degli articoli 342 e 434 c.p.c., e’ quella dell’inammissibilita’.
Fu detto, ad esempio, che “il requisito della specificita’ dei motivi di appello postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che le sorreggono”, per cui e’ indispensabile “che l’atto di appello contenga sempre tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione” (sentenza 30 luglio 2001, n. 10401); con la conseguenza che la mancanza di specificita’ conduce all’inammissibilita’ dell’appello (sentenze 21 gennaio 2004, n. 967).
Orientamento, questo, che e’ stato confermato da molte altre pronunce le quali, con diversita’ di accenti, hanno posto in luce che l’appello e’ una revisio prioris instantiae e non un novum iudicium, e che la necessita’ dell’indicazione, da parte dell’appellante, delle argomentazioni da contrapporre a quelle contenute nella sentenza di primo grado serve proprio ad incanalare entro precisi confini il compito del giudice dell’impugnazione, consentendo di comprendere con certezza il contenuto delle censure. Tutto questo, pero’, senza inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, le sentenze 31 maggio 2006, n. 12984, 18 aprile 2007, n. 9244, 17 dicembre 2010, n. 25588, 23 ottobre 2014, n. 22502, 27 settembre 2016, n. 18932, e 23 febbraio 2017, n. 4695; tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze di queste Sezioni Unite 25 novembre 2008, n. 28057, e 9 novembre 2011, n. 23299).
4. La modifica normativa del 2012 e la giurisprudenza successiva.
4.1. Con il Decreto Legge n. 83 del 2012, come si e’ visto, il legislatore e’ intervenuto riscrivendo il testo degli articoli 342 e 434 del codice di rito.
Il testo oggi vigente, applicabile agli atti di appello proposti successivamente alla data dell’11 settembre 2012, non contiene piu’ il riferimento all’esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici di impugnazione presente nel testo precedente, ma dispone che “la motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilita’: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
L’ordinanza interlocutoria ha ricordato che l’interpretazione dei citati articoli non e’ stata costante nella giurisprudenza di legittimita’.
Mentre, infatti, alcune sentenze, pur richiedendo all’appellante di “individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum”, hanno escluso che il nuovo testo normativo imponga alla parte di compiere le proprie deduzioni in una determinata forma, magari ricalcando la decisione impugnata ma con diverso contenuto, altre sentenze hanno richiesto all’appellante una specificita’ ben maggiore, rilevando che l’impugnazione deve, per non essere inammissibile, offrire una “ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice”. Altre pronunce hanno invece letto le suindicate disposizioni nel senso che la parte appellante deve affiancare alla parte volitiva dell’impugnazione anche una parte argomentativa, “che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”.
4.2. Rilevano queste Sezioni Unite, innanzitutto, che la giurisprudenza di legittimita’ che si e’ andata pronunciando sulle norme introdotte nel 2012 non ha creato, in effetti, alcun contrasto interpretativo.
La prima sentenza sull’argomento e’, a quanto consta, la n. 2143 del 5 febbraio 2015, della Sezione Lavoro. Essa ha evidenziato come la riscrittura della norma sul contenuto dell’atto di appello risponda ad un’esigenza di contenimento dei tempi processuali, ottenibile solo esigendo da parte dell’appellante il rispetto “di precisi oneri formali che impongano e traducano uno sforzo di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione”. Detti oneri devono “consentire di individuare agevolmente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere quindi l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre lo sviluppo di un percorso logico alternativo a quello adottato dal primo Giudice e devono chiarire in che senso tale sviluppo logico alternativo sia idoneo a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte”. Ha quindi aggiunto la Sezione Lavoro che la novella “ha, sostanzialmente e ragionevolmente, recepito e formalizzato gli approdi cui era giunta la giurisprudenza piu’ recente, rendendone certa ed efficace la sanzione processuale”.
Queste Sezioni Unite, con la successiva sentenza 27 maggio 2015, n. 10878, pronunciata in relazione ad un ricorso per motivi di giurisdizione, hanno avallato e confermato tale orientamento, ribadendo che simile interpretazione e’ in linea con i risultati cui si era giunti a proposito del testo previgente dell’articolo 342, piu’ volte citato. La nuova norma, pertanto, senza rigori di forma, esige che “al giudice siano indicate, oltre ai punti e ai capi della decisione investiti dal gravame, anche le ragioni, correlate ed alternative rispetto a quelle che sorreggono la pronuncia, in base alle quali e’ chiesta la riforma, cosicche’ il quantum appellatum resti individuato in modo chiaro ed esauriente”.
Ulteriori pronunce, piu’ recenti, sono andate nella stessa direzione.
Senza pretese di completezza, si possono richiamare l’ordinanza 5 maggio 2017, n. 10916, e la sentenza 16 maggio 2017, n. 11999, entrambe della Terza Sezione Civile.
L’ordinanza n. 10916 ha affermato che il novellato articolo 342 c.p.c., non esige dall’appellante ne’ la redazione di un progetto alternativo di sentenza, ne’ alcun “vacuo formalismo”, ne’ una trascrizione integrale o parziale della sentenza impugnata. Esso richiede, invece, “la chiara ed inequivoca indicazione delle censure” mosse alla pronuncia appellata, sia in punto di ricostruzione del fatto che di valutazione giuridica, con precisazione degli argomenti che si intendono contrapporre a quelli indicati dal primo giudice.
La sentenza n. 11999, oltre ad escludere che l’atto di appello debba essere strutturato come una sentenza ovvero contenere un progetto alternativo di decisione, ha ribadito la perdurante differenza tra l’appello e le impugnazioni a critica vincolata, confermando che lo sforzo di razionalizzazione richiesto alla parte rende oggi inammissibile l’appello contenente solo una sommaria indicazione dei termini di fatto della controversia e delle ragioni per le quali e’ richiesta la riforma della sentenza. Detta pronuncia ha anche specificato che la riproposizione delle argomentazioni gia’ svolte in primo grado non e’ di per se’ indice di inammissibilita’ dell’appello, purche’ sia articolata in modo da evidenziare gli errori nella ricostruzione del fatto o nell’applicazione delle norme che si imputano alla sentenza di primo grado.
Unica pronuncia che potrebbe, peraltro solo a prima vista, apparire dissonante rispetto agli orientamenti ora delineati e’ la sentenza 7 settembre 2016, n. 17712, della Sezione Lavoro. Essa, dopo aver rilevato che il termine “motivazione dell’appello” usato dal legislatore “e’ tipicamente proprio del provvedimento giudiziale”, ha precisato che gli articoli 342 e 434 cit. esigono oggi la proposizione di una nuova e diversa ricostruzione del fatto; vi devono essere, quindi, una “pars destruens della pronuncia oggetto di reclamo” e “una par construens, volta ad offrire un progetto alternativo di risoluzione della controversia, attraverso una diversa lettura del materiale di prova acquisito o acquisibile al giudizio”. Di qui la conclusione, richiamata anche nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui l’atto di appello deve offrire una “ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice”.
5. La risposta al quesito.
5.1. Ritengono queste Sezioni Unite che gli approdi interpretativi ai quali la giurisprudenza della Corte e’ gia’ pervenuta all’indomani della riforma del 2012 debbano essere oggi confermati, con le precisazioni che seguono.
La modifica in questione, lungi dallo sconvolgere i tradizionali connotati dell’atto di appello, ha in effetti recepito e tradotto in legge cio’ che la giurisprudenza di questa Corte, condivisa da autorevole e maggioritaria dottrina, aveva affermato gia’ a partire dalla sentenza n. 16 del 2000 suindicata, e cioe’ che, ove l’atto di impugnazione non risponda ai requisiti stabiliti, la conseguente sanzione e’ quella dell’inammissibilita’ dell’appello. Cio’ che il nuovo testo degli articoli 342 e 434 cit. esige e’ che le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze; per cui, se il nodo critico e’ nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, cosi’ come l’eventuale violazione di legge. Ne consegue che, cosi’ come potrebbe anche non sussistere alcuna violazione di legge, se la questione e’ tutta in fatto, analogamente potrebbe porsi soltanto una questione di corretta applicazione delle norme, magari per presunta erronea sussunzione della fattispecie in un’ipotesi normativa diversa; il tutto, naturalmente, sul presupposto ineludibile della rilevanza della prospettata questione ai fini di una diversa decisione della controversia.
Va quindi riaffermato, recuperando enunciazioni di questa Corte relative al testo precedente la riforma del 2012, che nell’atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. La maggiore o minore ampiezza e specificita’ delle doglianze ivi contenute sara’, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado. Ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l’atto di appello potra’ anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado;
mentre e’ logico che la puntualita’ del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiedera’ una piu’ specifica e rigorosa formulazione dell’atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa.

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