cassazione 9

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 4 novembre 2015, n. 44589

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CONTI Giovann – Presidente

Dott. CITTERIO Carlo – Consigliere

Dott. DI STEFANO Pierlui – Consigliere

Dott. VILLONI O – rel. Consigliere

Dott. PATERNO’ RADDUSA Benedet – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) (OMISSIS), n. (OMISSIS);

2) (OMISSIS), n. (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 51241/13 della Corte d’Appello di Torino del 13/03/2015;

esaminati gli atti e letti il ricorso ed il provvedimento decisorio impugnato;

udita in pubblica udienza la relazione del consigliere, dott. Orlando Villoni;

udito il pubblico ministero in persona del sostituto P.G., dott. SALZANO Francesco che ha concluso per il rigetto;

udito il difensore dei ricorrenti, avv. (OMISSIS), che si e’ riportato ai motivi del ricorso, chiedendone l’accoglimento.

 

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’Appello di Torino, a conferma di quella emessa dal locale Tribunale in data 03/04/2013, ha confermato la condanna di (OMISSIS) e (OMISSIS) alla pena di otto mesi di reclusione (condizionalmente sospesa per il secondo) in ordine al reato di cui agli articoli 110 e 572 c.p., loro contestato in relazione ad una lunga serie di atteggiamenti e condotte vessatorie perpetrate in danno di (OMISSIS), gia’ dipendente della (OMISSIS) srl e cognato del primo e genero del secondo imputato, quale coniuge di (OMISSIS) da cui si era successivamente separato.

Rispondendo a specifica doglianza degli appellanti, la Corte territoriale ha preso nuovamente in esame le dichiarazioni rese dai testimoni a discarico, ritenendo che le stesse non fossero riuscite sovvertire le opposte risultanze probatorie fondate sulle deposizioni dei testi d’accusa e osservando, quanto alla qualificazione giuridica dei fatti, che la stessa difesa aveva invocato l’applicazione della giurisprudenza che reputa applicabile il delitto di cui all’articolo 572 c.p., ai maltrattamenti commessi all’interno di aziende di natura parafamiliare, quale innegabilmente era la (OMISSIS) srl.

2. Avverso la sentenza hanno proposto impugnazione gli imputati, che si dolgono del fatto che il giudice d’appello, come quello di primo grado, abbia attribuito incondizionata attendibilita’ alle dichiarazioni della persona offesa (OMISSIS) e del teste (OMISSIS), sebbene contraddette da quelle dei testimoni indicati dalla difesa; deducono, inoltre, l’assoluta inverosimiglianza della versione del (OMISSIS) e la mancata assunzione di prova decisiva Sul tema della non parafamiliarita’ dell’azienda (OMISSIS); deducono, inoltre, vizio di motivazione riguardo al mancato riconoscimento dell’attenuante comune di cui all’articolo 62 c.p., n. 6 e di quelle generiche, determinante l’eccessivo rigore della pena inflitta; il solo (OMISSIS) deduce, infine, violazione di legge riguardo alla mancata concessione per la seconda volta del beneficio della sospensione condizionale della pena.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. I ricorsi sono infondati e come tali vanno rigettati.

2. Dal momento che le impugnazioni hanno investito il tema della parafamiliarita’ del rapporto di lavoro (secondo motivo di censura), questo Collegio intende preliminarmente ribadire la perdurante validita’ dell’orientamento interpretativo espresso dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione secondo cui il delitto di maltrattamenti previsto dall’articolo 572 c.p., puo’ trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo all’indefettibile condizione che sussista il presupposto della parafamiliarita’, intesa come sottoposizione di una persona alla autorita’ di altra in un contesto di prossimita’ permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunita’ familiari, nonche’ di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia (Sez. 6 , sent. n. 24057 del 11/04/2014, Marcucci, Rv. 260066).

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto mobbing) possono, pertanto, integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esattamente alle stesse condizioni, quando cioe’ il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto piu’ debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6 , sent. n. 24642 del 19/03/2014, P.G. in proc. L G, Rv. 260063 e Sez. 6 , sent. n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368 in fattispecie in cui e’ stata esclusa la configurabilita’ del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di dipendenti e/o funzionari comunali; Sez. 6 , sent. n. 28603 del 28/03/2013, P.C. in proc. S. e altro, Rv. 255976 in cui parimenti e’ stata esclusa la concreta configurabilita’ del reato; Sez. 6 , sent. n. 13088 del 05/03/2014, B e altro, Rv. 259591 in fattispecie di esclusione del reato nel contesto di un’articolata realta’ aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati; Sez. 6 , sent. n. 16094 del 11/04/2012, I., Rv. 252609 in fattispecie in cui e’ stata esclusa la configurabilita’ del reato in relazione a condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente).

A dispetto della riaffermazione del principio dell’astratta configurabilita’ del reato nelle condizioni date e a conferma della frequente affermazione d’inapplicabilita’ nelle fattispecie considerate, va, infatti, precisato che la figura di reato di cui all’articolo 572 c.p., non costituisce la tutela penale del cd. mobbing lavorativo, il quale, ove dante luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali, violenza privata, sequestro di persona, etc.), trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio.

La vicenda oggetto della presente verifica giudiziale appare, tuttavia, connotata da aspetti del tutto peculiari, che abilitano all’utilizzo del termine parafamiliare, come il piu’ idoneo a definire la specificita’ dei rapporti instauratisi tra le parti.

Si ricava, infatti, dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado richiamata, che la parte offesa (OMISSIS) era stata assunta nell’aprile del 2002 nell’azienda di piccole dimensioni (inferiore a quindici dipendenti) e a conduzione familiare (OMISSIS) s.r.l., gestita congiuntamente da (OMISSIS) e dal figlio (OMISSIS), con una piccola quota societaria detenuta fino al 2011 dal socio lavoratore, (OMISSIS).

Quali che siano state le condizioni di lavoro iniziali, costituisce dato probatorio indiscusso che nel giugno – luglio 2002 il (OMISSIS) aveva avviato una relazione con (OMISSIS), figlia di (OMISSIS) e sorella di (OMISSIS), avviando con lei una convivenza sfociata nel matrimonio nel (OMISSIS), allietato dalla nascita di un bimbo in quello stesso anno e di un altro nel (OMISSIS).

Paradossalmente rispetto all’ingresso nella famiglia del datore di lavoro, le condizioni lavorative del (OMISSIS) erano non gia’ migliorate bensi’ fin da subito peggiorate ed in particolare il trattamento riservato al lavoratore divenuto affine era risultato discriminatorio rispetto ai

colleghi di lavoro, venendo il (OMISSIS) fatto segno di continui ed esagerati rimproveri, di pubblica denigrazione, di limitazioni nei permessi lavorativi e nelle pause – pranzo, di aggravamenti quanto all’inizio e alla durata dell’orario lavorativo, di ripetute iniziative disciplinari, tant’e’ che i colleghi di lavoro avevano inizialmente pensato che esso servisse a farne un capro espiatorio per indurli a confidarsi con lui e consentire cosi’ ai datori di lavoro di conoscerne le segrete convinzioni.

Va, inoltre, evidenziato che le vicende del rapporto coniugale, progressivamente deterioratosi tra il (OMISSIS) e la moglie, hanno avuto immediato riscontro nella condizione lavorativa del primo quale dipendente.

Quando, infatti, nel 2007 aveva appreso dell’intenzione della moglie di abbandonarlo, il (OMISSIS) aveva minacciato di lanciarsi nel vuoto e non gia’ da un balcone dell’abitazione coniugale, bensi’ da una gru aziendale; inoltre, a seguito di un infortunio sul lavoro, proprio dal non aver voluto cedere alle insistenze del suocero e del cognato di chiudere la pratica presso l’INAIL e di tornare subito in servizio, era derivato un deterioramento della situazione coniugale, talche’ nel (OMISSIS) era stato allontanato dalla casa familiare e nel (OMISSIS) era intervenuta l’omologa della separazione dalla moglie; da quel momento si erano poi susseguite diverse iniziative disciplinari nei suoi confronti, fino al licenziamento per giusta causa avvenuto nel (OMISSIS).

Come, dunque, chiaramente si desume dalla parabola lavorativa della parte offesa ricostruita dai giudici di primo e secondo grado, la fattispecie appare connotata da un’inestricabile commistione tra aspetti di natura lavorativa e familiare, tale da implicare immediate ricadute delle vicende registratesi in una sfera nell’altra, a partire dal mutamento in senso peggiorativo delle condizioni di lavoro conseguente al matrimonio, per seguire con il deterioramento dei rapporti coniugali per effetto dell’atteggiamento ritenuto non collaborativo dopo l’infortunio sul lavoro e finire con l’ulteriore peggioramento delle relazioni lavorative sfociato nel licenziamento a seguito della separazione dal coniuge e dell’estromissione dalla casa familiare.

Si puo’, pertanto, a ragione concludere che, pur non ricorrendo le condizioni formali di sussistenza dell’impresa familiare di cui all’articolo 230 bis c.p., il rapporto di lavoro imposto al (OMISSIS) fosse di natura piu’ che parafamiliare e come anticipato addirittura parafamiliare, come tale pienamente compatibile con la ritenuta applicabilita’ dell’articolo 572 c.p..

3. Appaiono parimenti destituite di fondamento le restanti doglianze.

Quella di cui primo motivo di ricorso attiene palesemente alla valutazione del materiale probatorio e in particolare delle fonti testimoniali, rappresentate dalla stessa parte offesa (OMISSIS) e di un testimone d’accusa ( (OMISSIS)), di cui la Corte territoriale ha congruamente motivato l’attendibilita’ e la credibilita’, spiegando al contempo la minor valenza dimostrativa delle prove dichiarative a discarico, connotate da profili di interesse proprio ed a ben vedere neppure contrastanti in senso assoluto con i fatti ricostruiti e ritenuti al primo giudice per affermare la sussistenza del reato.

Riguarda, invece, l’ambito di discrezionalita’ proprio del giudice di merito nella determinazione del trattamento sanzionatorio la doglianza riferita al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., cui, peraltro, la decisione impugnata dedica congrua motivazione (ult. pag.); mentre palesemente infondata ed anzi incomprensibile appare quella riferita alle attenuanti generiche, che la Corte territoriale ricorda essere state gia’ riconosciute in primo grado nella massima estensione.

Palesemente infondato e’, infine, il motivo di ricorso riguardante la mancata concessione per la seconda volta del beneficio della sospensione condizionale della pena in favore del ricorrente (OMISSIS), avendo la Corte territoriale congruamente argomentato che, anche a prescindere dall’astratta concedibilita’ ai sensi dell’articolo 164 c.p., comma 4, non poteva essere stilata una nuova prognosi favorevole a causa di intermedie condanne per fatti connessi allo esercizio dell’attivita’ imprenditoriale (inquinamento, igiene sul lavoro), oltre al fatto che l’imputato non aveva manifestato la volonta’ di non opporsi (articolo 165 c.p., comma 2) all’eventuale ammissione a prestare attivita’ lavorativa non retribuita (LSU), costituente requisito per l’imposizione di uno degli obblighi al cui adempimento deve essere necessariamente subordinato il beneficio ove concesso per la seconda volta (Sez. 5 sent. n. 7406 del 27/09/2013, Mellone, Rv. 259517; Sez. 2 sent. n. 38783 del 26/10/2006, Sorce, Rv. 235381).

4. Al rigetto dei ricorsi consegue, come per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere la generalita’ e gli altri identificativi a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

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