cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 14 maggio 2015, n. 20132

Fatto

1.-. Con sentenza in data 31-1-13 il GUP presso il Tribunale di Reggio Emilia, all’esito di giudizio abbreviato, ha dichiarato V.G. colpevole dei reati a lui ascritti [con alcune limitate esclusioni oggettive quanto ai fatti di cui al capo B) e con declaratoria di estinzione per prescrizione di alcuni del reati di truffa sub B) e del reato di falso sub C)] e lo ha condannato alla pena di anni quattro di reclusione, previa concessione della attenuante del danno risarcito, equivalente alle aggravanti, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.
V.G. era imputato di:
– peculato aggravato e continuato (dodici ipotesi) per avere trattenuto per sé somme ricevute dai clienti per il versamento dell’imposta di registro inerente atti di compravendita immobiliare da lui rogati in qualità di notaio [capo A)];
– truffa aggravata continuata (188 ipotesi) per avere richiesto ai clienti e da loro ottenuto, a titolo di anticipazione degli oneri di imposta su di lui solidalmente gravanti, somme superiori a quelle da versare e concretamente versate a quel titolo, che aveva poi trattenuto per sé senza renderne conto ai clienti stessi [capo B)];
– alterazione di un atto di compravendita immobiliare [su cui, dopo la formazione, aveva cancellato la cifra 300.000, apponendovi a mano la cifra 200.000, là dove si indicava il prezzo della compravendita (capo C)].
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Bologna, in data 12-3-14, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del V. per i reati sub B) per i quali aveva riportato condanna commessi fino all’11-9-2006 perché estinti per prescrizione. Conseguentemente la Corte Distrettuale ha rideterminato la pena inflitta al V. in anni due e mesi dieci di reclusione, dichiarando detta pena condonata nella misura di anni due e mesi otto di reclusione, con esclusione della interdizione dai pubblici uffici ex art. 29 c.p. ed applicazione di quella temporanea per anni uno ex arti 28 e 31 c.p. e con conferma nel resto.
2.-. I Giudici di merito hanno ritenuto provata la penale responsabilità di V.G. , in quanto le indagini e gli accertamenti espletati (corredate dalle acquisizioni documentali e testimoniali) avevano dimostrato che:
– in una serie di casi nei rogiti era stato indicato un determinato prezzo, la provvista a pagare l’imposta ad esso relativa era stata anticipatamente versata dai clienti del notaio, ma il notaio stesso aveva indicato nei moduli 69 un valore inferiore e su questo valore aveva calcolato la minore imposta versata, trattenendo la differenza;
– in altri 188 casi il notaio aveva versato l’imposta calcolata correttamente sulla base di un prezzo indicato a rogito, ma aveva fatturato ai clienti – per questo titolo – somme ben superiori, non versate all’Erario, da lui trattenute.
Nei primi casi i Giudici di merito hanno ravvisato gli estremi del reato di peculato delle somme dovute all’Erario a titolo di imposta, detenute per questo titolo dal notaio e da lui fatte proprie, mentre nei secondi si è ritenuta integrata la truffa ai danni dei clienti, indotti a credere che quanto loro richiesto (in più) a titolo di imposta fosse effettivamente dovuto e sarebbe stato versato, mentre non era dovuto ed era stato fatto proprio dal notaio.
In particolare, il Tribunale prima e la Corte di Appello poi hanno ritenuto accertato che le parti contraenti non avevano proposto la determinazione del prezzo da inserire in contratto secondo il criterio presuntivo del c.d. prezzo-valore, ma avevano indicato un valore convenzionale secondo la loro scelta, con la conseguenza che andava applicato il regime fiscale ordinario e l’imposta di registro andava commisurata al valore espresso nell’atto di compravendita. Il notaio V. , invece, aveva preso l’iniziativa (in autonomia, in divergenza dalla volontà espressa dai clienti in atto e senza neppure informarli ex post) di determinare (per la prima volta in sede di autoliquidazione) il valore dell’atto secondo il criterio del c.d. prezzo-valore. Le somme eccedenti, di pertinenza dell’Erario, erano poi state indebitamente “trattenute” dal notaio. Nei casi rubricati come truffa aggravata, invece, al momento della stipula dei contratti le parti avevano optato per il criterio di favore previsto dalla legge (c.d. prezzo-valore), sicché il notaio aveva proceduto alla autoliquidazione ed al successivo versamento dell’imposta, che era effettivamente risultata pari a quella dovuta. In questi casi il notaio aveva però fatto credere o intendere ai clienti che essi dovevano anticipargli a titolo di imposta una somma maggiore (che non doveva essere versata, e che era stata incamerata dal notaio).
Infine, quanto al falso sub C), riguardava un atto rinvenuto nello studio del notaio che era la copia formale (o forse lo stesso originale) di quello in possesso delle parti contraenti: solo in questo atto era contenuta la correzione a penna della cifra, correzione palesemente funzionale a rendere l’atto conforme (nel quantum) al prezzo dichiarato in sede di autoliquidazione.
3.-. Avverso la suindicata sentenza del 12-3-14 ha proposto ricorso per cassazione V.G. , tramite il suo legale, chiedendone l’annullamento.
Nel ricorso si deduce:
1. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all’elemento oggettivo del reato di peculato di cui al capo A) della rubrica. In realtà nei casi in esame il notaio non avrebbe dichiarato nel modello 29 un valore del bene compravenduto diverso, maliziosamente inferiore rispetto a quello effettivo, ma si sarebbe limitato a effettuare una consentita proposta su un criterio espressamente previsto dalla legge e ammesso dalla amministrazione finanziaria. Le somme rimaste a disposizione per far fronte ad eventuali richieste di ulteriore imposta principale da parte dell’amministrazione sarebbero somme del privato affidate al professionista. Ciò sarebbe, per altro, dimostrato dal fatto che l’autoliquidazione dell’imposta, effettuata attraverso il modello 69, era stata accompagnata dalla allegazione dell’arto da tassare in forma autentica e non manipolata.
2. Idem, in quanto a gran parte degli atti in questione sarebbe applicabile ratione temporis il regime fiscale anteriore, sicché il V. avrebbe operato correttamente, individuando il regime più favorevole da applicare ai negozi posti in essere. A parte il fatto che le somme in questione erano tutte perfettamente tracciabili ed erano state versate in un “conto dedicato”.
3. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all’elemento soggettivo del reato di peculato di cui al capo A) della rubrica. In particolare, la Corte di merito sarebbe incorsa in un vero e proprio travisamento delle prove, là dove ha ritenuto che gli atti di conferma e rettifica tardivamente formati dal V. dopo la scoperta degli abusi fossero indice della consapevolezza del suo indebito agire. Tali atti di conferma e di rettifica, infatti, sarebbero stati formati con riferimento ad atti notarili diversi da quelli espressamente menzionati al capo A).
4. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di truffa, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di merito, gli atti indicati nel capo di imputazione non sarebbero soltanto compravendite e avrebbero in realtà il contenuto più vario e non assimilabile tra loro.
5. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla corretta applicazione dell’art. 533 c.p.p..
6. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al contestato accertamento dei fatti “a campione” e non per singola ipotesi delittuosa.
7. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al reato sub C) della rubrica, in quanto la Corte di Appello non si sarebbe accorta che la copia dell’atto prodotta dalla società contraente sarebbe in realtà una mera bozza e non una copia dell’atto definitivo.
4.-. Con nuovi motivi di ricorso, depositati in prossimità della odierna pubblica udienza, la Difesa del V. insiste per l’accoglimento del ricorso.
In particolare, si ribadisce:
1. Travisamento della nota del 21-10-11 del Direttore dell’Agenzia delle Entrate sulla responsabilità in solido del notaio per il pagamento delle imposte principali e suppletive. Segnatamente si insiste sul fatto che esisteva un periodo temporale di tre anni nei quali l’Agenzia delle Entrate poteva richiedere al notaio l’integrazione dell’imposta da versare. Ciò giustificava il trattenimento da parte del notaio a titolo cautelativo delle somme eccedenti, che, lungi dall’essere oggetto di condotte appropriative, confluivano in un sottoconto (riferibile al cliente).
2. Travisamento del fatto in riferimento alla acquisizione agli atti del giudizio abbreviato degli avvisi di liquidazione della maggiore imposta notificati al notaio nel periodo 2007-20009 nonché dei rimborsi effettuati dal V. ai propri clienti nel periodo 2007-2008. La Corte Distrettuale avrebbe errato nel ritenere non depositati agli atti tali documenti, che erano, invece, stati prodotti dalla Difesa nel fascicolo del P.M. prima ancora che venisse formulata la richiesta di giudizio abbreviato.
3. Vizio di motivazione in riferimento alle deduzioni difensive relative alle modalità di accertamento (“a campione”) dei reati oggetto di contestazione ai capi A) e B) della rubrica.

Diritto

5.-. Questa Corte ha già chiarito, in materia di I.N.V.I.M., che le somme pari all’ammontare di detta imposta, all’atto della consegna al notaio sono illieo et immediate pecunia publica. Pertanto, anche il possesso di eventuali eccedenze resta strettamente connesso ad un obbligo fiscale del notaio, per cui l’appropriazione di esse ad opera di lui integra tutti gli estremi del paradigma della malversazione, ormai sussunta nella più ampia previsione dell’art. 314 cod. pen., così come sostituito dall’art. 1 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Sez. 6, Sentenza n. 28302 del 14/01/2003, Rv. 225890, Mortola).
In questa sentenza si è altresì precisato che, secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, il peculato è reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l’agente si appropria del danaro o della cosa mobile della pubblica amministrazione di cui ha il possesso per. ragione del suo ufficio o da ad essi una diversa destinazione; con la conseguenza che, qualora il pubblico ufficiale abbia l’obbligo di versare nelle casse della pubblica amministrazione il danaro di volta in volta ricevuto da terzi per ragione del suo ufficio, la mancata previsione di un termine di scadenza, se autorizza a tollerare un eventuale ritardo nell’adempimento dell’obbligo, non può giustificare un qualsiasi ritardo ed in particolare quello che si protragga oltre quel ragionevole limite di tempo che sia imposto dalla maggiore o minore complessità delle operazioni di versamento da compiere, ovvero dalla necessità, per il pubblico ufficiale, di attendere anche a doveri d’ufficio di diversa natura (Sez. 6, Sentenza n. 3021 del 17/10/1990, Rv. 186594, Caselli; Sez. 6, Sentenza n. 15108 del 20/02/2003, Rv. 224573, Tramarin).
D’altra parte si è anche affermato che il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio. (Sez. 6, Sentenza n. 43279 del 15/10/2009, Rv. 244992, Pintimalli).
E, più recentemente, si è avuto modo di specificare che integra il delitto di peculato la condotta del pubblico ufficiale che omette o ritarda di versare ciò che ha ricevuto per conto della P.A., in quanto tale comportamento costituisce un inadempimento non ad un proprio debito pecuniario, ma all’obbligo di consegnare il denaro al suo legittimo proprietario, con la conseguenza che, sottraendo la res alla disponibilità dell’ente pubblico per un lasso temporale ragionevolmente apprezzabile, egli realizza una inversione del titolo del possesso uti dominus (Sez. 6, Sentenza n. 53125 del 25/11/2014, Rv. 261680, Renni).
6.-. Come ha correttamente rilevato la sentenza impugnata, nei casi di specie è stato accertato che le parti contraenti non hanno proposto, ai fini della commisurazione dell’imposta di registro, la determinazione del prezzo da inserire in contratto secondo il criterio presuntivo del c.d. prezzo-valore, avendo optato per la indicazione di un valore convenzionale secondo la loro scelta, con la conseguenza che il regime fiscale da applicare era quello ordinario e la suddetta imposta andava commisurata al valore espresso di volta in volta nei singoli atti di compravendita. Il notaio V. , tuttavia, per sua stessa ammissione, ha preso, in un momento successivo, l’iniziativa (in autonomia, in divergenza dalla volontà espressa dai clienti in atto e senza neppure informarli ex posi) di determinare (per la prima volta in sede di autoliquidazione) il valore dell’atto secondo il criterio del c.d. prezzo-valore, trattenendo indebitamente le somme eccedenti di pertinenza dell’Erario.
Tutti i clienti ascoltati nel corso delle indagini di P.G. (oggettivamente individuati con metodo a campione) hanno dichiarato di non sapere nulla delle iniziative del notaio in punto di liquidazione delle imposte degli atti di compravendita da loro stipulati, aggiungendo di non avere ben compreso neanche la causale delle restituzioni di somme fatte a loro favore molto tempo dopo, anche perché non erano stati in alcun modo enunciati né il titolo né le ragioni di tali accreditamenti.
La P.G. ha, infatti, accertato che tutti questi atti di restituzione erano successivi all’inizio delle indagini della Agenzia delle Entrate, sicché erano da imputare proprio agli accertamenti in corso e non ad una asserita prassi in tal senso da parte del notaio, che, d’altra parte, non aveva trovato riscontro nei precedenti del suo ufficio. Ne deriva che tali condotte successive del notaio devono essere considerate come dei post facta, trattandosi di comportamenti riparatori rispetto ad appropriazioni già consumate.
In definitiva, il notaio V. ha approfittato della situazione determinata dalla entrata in vigore della nuova normativa in materia di imposta di registro e, agendo del tutto autonomamente e senza preavvertire i clienti (che avevano optato per il regime ordinario), ha provveduto in un momento successivo a determinare l’imposta da versare secondo il nuovo criterio del prezzo-valore, versando, all’insaputa dei clienti, all’Erario soltanto detta minor somma rispetto a quella già da loro stabilita e incamerandone la differenza, salvo poi a cercare di riparare le cose mediante restituzioni e rettifiche, una volta che le indagini e gli accertamenti in corso avevano svelato il suo illecito comportamento.
D’altra parte costituisce ius reception che, in caso di trasferimento di immobili ad uso abitativo nei confronti di persone fisiche, l’opzione per la tassazione in base al valore catastale e non a quello venale deve avvenire necessariamente al momento della cessione e non posteriormente (ad esempio a mezzo di un successivo atto integrativo).
Infatti il nuovo sistema (introdotto dalla Finanziaria 2006 in deroga alle disposizioni del Testo Unico dell’imposta di registro) consente all’acquirente di chiedere al notaio che la base imponibile delle cessioni di case e pertinenze, nei confronti di persone fisiche non titolari di attività commerciali, artistiche o professionali, venga calcolata in base al valore catastale e non al valore venale in comune commercio, ma la norma precisa che questa richiesta può essere fatta all’atto della cessione e non, invece, in un momento successivo (ad esempio con atto integrativo), e ciò con l’evidente finalità di mantenere l’efficacia della attività di controllo svolta dagli Uffici del Fisco.
Ne discende che i Giudici di merito si sono adeguati ai principi espressi dalla Giurisprudenza di questa Corte illustrati al punto che precede e correttamente hanno ritenuto responsabile V.G. dei delitti di peculato a lui ascritti, essendo rimasta accertata non soltanto la intervenuta appropriazione da parte sua di dette somme ma anche la sua chiara intenzione di farle dolosamente proprie, avendo egli agito in modo del tutto scollegato dai clienti, mai consultati, mai avvertiti delle sue iniziative e lasciati del tutto ignari di esse.
Circa gli ulteriori motivi sempre in punto di responsabilità per i reati di cui all’art. 314 c.p. ascritti al V. , occorre rammentare che la qualifica di pubblico ufficiale spetta ancor oggi al notaio pure a seguito della modifica dell’art. 357 c.p. ex lege 26 aprile 1990, n. 86 – non soltanto nell’esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività, disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici (negozi giuridici notarili) (Sez. VI, 6 dicembre 1994, Siciliani), ivi compresa l’attività di adempimento dell’obbligazione tributaria, nella specie mancato versamento da parte del notaio di somme affidate da clienti, destinate al pagamento dell’imposta di registro in relazione agli atti rogati (Sez. 5, Sentenza n. 47178 del 16/10/2009, Rv. 245383, Materazzo).
A parte il fatto che la giurisprudenza di questa Corte è, poi, costante nel senso che il possesso qualificato dalla ragione di ufficio o di servizio non è solo quello acquistato in dipendenza di una competenza specifica, strettamente funzionale, del pubblico funzionario, dovendosi intendere in senso assai più lato (Cass., 24 dicembre 1998, Ceci); pertanto, la ragione di ufficio o servizio deve avere come esclusivo riferimento l’esistenza di un rapporto che consenta al pubblico ufficiale di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità materiale della cosa, trovando nelle pubbliche funzioni l’occasione per un comportamento (Cass., 25 novembre 1994, Capponi).
Infine va ricordato che è già stato chiarito che integra il reato di peculato il notaio che, essendo stato delegato dal giudice a curare le operazioni di vendita nell’ambito di procedure di esecuzione immobiliare, si appropri delle somme corrisposte dagli aggiudicatari delle vendite, versando i relativi importi su conti correnti personali ed investendoli in operazioni speculative di borsa, senza provvedere agli adempimenti di cui all’art. 591 bis, comma settimo, c.p.c. (Sez. 6, Sentenza n. 30976 del 10/07/2007, Rv. 237419, Maccagno). E ciò è appunto quanto si è verificato nel caso in esame, in cui il notaio V. , avendo fatto ricorso, di sua iniziativa e senza informare gli interessati, al criterio del c.d. prezzo-valore disattendendo le indicazioni dei clienti, ha versato all’Erario le somme così calcolate, trattenendo per sé e versando su propri conti correnti (sia pure, a suo dire, “dedicati”) le eccedenze pure di pertinenza dell’Erario, e così, in violazione dei propri doveri pubblicistici, disponendo di dette somme come cosa propria, con evidente interversio possessionis. Ne consegue che l’appropriazione di tali somme, di cui il pubblico ufficiale aveva comunque la disponibilità per ragione dell’ufficio pubblico ricoperto, integra il reato di peculato. Il concetto di altruità del denaro cui fa riferimento l’art. 314 c.p. va inteso, infatti, nel senso di assenza in capo al soggetto agente di qualsiasi diritto, reale o di obbligazione, che gli attribuisca una disponibilità del denaro e lo legittimi a compiere l’atto di appropriazione. Né, come si è già visto, l’illecito rimane escluso dalla restituzione delle somme, circostanza questa che non incide sulla lesione già verificatasi, ma può rilevare, in caso di eventuale condanna, solo ai fini della concessione di attenuanti e della graduazione del trattamento sanzionatorio.
6.-. I numerosi delitti di truffa aggravata pure ascritti al V. fanno riferimento a comportamenti diversi da lui tenuti, in quanto, in questi casi, al momento della stipula dei contratti le parti, ai fini della fissazione dell’imposta di registro, avevano optato per il criterio di favore previsto dalla legge (c.d. prezzo-valore), sicché il notaio aveva proceduto alla autoliquidazione ed al successivo versamento dell’imposta, che era effettivamente risultata pari a quella dovuta. In questi casi, però, il notaio aveva fatto credere o intendere ai clienti che essi dovevano anticipargli a titolo di imposta una somma maggiore (che non doveva essere versata, e che era stata da lui incamerata).
Anche in questi casi i clienti non erano stati informati (né inizialmente né in seguito) del motivo della richiesta della maggior somma e non erano stati avvisati della conservazione di tali maggiori importi, da loro effettivamente versati nelle mani del notaio. Inoltre i Giudici di merito hanno posto l’accento sul fatto che la quasi totalità delle restituzioni ai clienti poi effettuate dal notaio erano avvenute nella impellenza derivante dagli accertamenti della Agenzia delle Entrate. A parte il fatto che si trattava di restituzioni fatte a distanza di circa due anni dal trattenimento delle somme e senza fornire spiegazioni ai clienti in ordine alle causali degli accreditamenti, circostanze chiaramente indicative delle reali intenzioni appropriative del notaio.
Essendo in presenza di fatti in cui il pubblico ufficiale non si é appropriato delle maggiori somme avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ma, non avendo tale possesso, se lo é procurato fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene, correttamente i Giudici di merito hanno ritenuto che nei casi di specie ricorrevano gli estremi del reato di truffa aggravata e non quelli del peculato (v. per tutte: Sez. 6, Sentenza n. 41599 del 17/07/2013, Rv. 256867, Fasoli).
In ogni caso i reati di truffa commessi fino al 10 settembre 2007 risultano oramai estinti per prescrizione, sicché in riferimento a tali delitti, in presenza di un ricorso che pone censure non inammissibili, deve disporsi l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con applicazione della causa estintiva.
7.-. Quanto al reato di falso sub C), i rilievi svolti dal ricorrente risultano del tutto generici ed apodittici, in quanto in ricorso ci si è limitati a ribadire assertivamente che in realtà l’atto in questione sarebbe stato una mera bozza e non una copia dell’atto definitivo.
I Giudici di merito hanno, al contrario, accertato trattarsi della copia formale (o forse dello stesso originale) dell’atto in possesso delle parti contraenti, precisando che solo in questo atto era contenuta la correzione a penna della cifra, correzione palesemente funzionale a rendere l’atto conforme (nel quantum) al prezzo dichiarato in sede di autoliquidazione.
8.-. In definitiva, tutti i motivi formulati in ricorso sono privi di fondamento. A parte il fatto da gran parte delle censure attengono, in vero, alla valutazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del giudice di merito e non può essere posta in questione in sede di giudizio di legittimità quando fondata su motivazione congrua e non manifestamente illogica. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno preso in esame tutte le deduzioni difensive e sono pervenuti alla decisione impugnata attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.
9.-. Per le considerazioni sopra svolte si impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in riferimento ai reati di truffa commessi fino al 10 settembre 2007, essendo detti reati estinti per prescrizione. La medesima sentenza deve conseguentemente essere annullata in riferimento alla pena in relazione ai residui reati, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna per la rideterminazione della sanzione. Il ricorso va rigettato nel resto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione ai reati di truffa commessi fino al (omissis) perché estinti per prescrizione. Annulla la medesima sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna per la rideterminazione della pena. Rigetta nel resto il ricorso.

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