cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza  10 marzo 2014, n. 11493

Motivi della decisione

1. Decidendo sul gravame dell’imputata, la Corte di Appello di Caltanissetta con la sentenza indicata in epigrafe ha confermato in punto di responsabilità la decisione del Tribunale di Gela, che all’esito di giudizio ordinario ha dichiarato T.N. colpevole del reato di abusivo esercizio della professione legale e l’ha condannata – in concorso di generiche circostanze attenuanti – alla pena di un mese di reclusione sostituita dalla corrispondente pena pecuniaria di Euro 1.140,00 di multa. La Corte ha unicamente riconosciuto all’imputata i doppi benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p..
Condotta criminosa che la Corte nissena, condividendo le conclusioni del giudice di primo grado, ha considerato univocamente dimostrata sul piano oggettivo e soggettivo (consapevolezza e volontarietà dell’abusiva opera legale svolta) dalle evenienze documentali acquisite in atti. Condotta specificamente integrata dall’avere la T. , quale iscritta nel registro dei praticanti avvocati di Gela, patrocinato davanti al Giudice di Pace di Gela una causa civile (azione risarcitoria per inadempimento contrattuale promossa dalla madre) del valore di Euro 50.000, eccedente i limiti del patrocinio legale consentitole, altresì riassumendo (dichiaratosi incompetente per valore il G.d.P.) la causa innanzi al Tribunale, ivi continuando a svolgere – come già prima innanzi al G.d.P. – il patrocinio (udienze 15.5.2008 e 15.1.2009) pur dopo la notifica (in data 21.4.2008) della sanzione disciplinare dell’avvertimento inflittale dal locale Consiglio dell’Ordine degli avvocati per aver espletato patrocinio legale non permesso dalla sua qualità di praticante abilitato.
2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia della T. , deducendo i seguenti tre vizi di legittimità.
2.1. Violazione dell’art. 420 ter c.p.p. e nullità della sentenza.
Su istanza del difensore, impedito per concomitante impegno professionale, la Corte di Appello ha differito l’udienza del 19.1.2012 al 26.1.2012, differimento determinato anche da coevo legittimo impedimento per malattia dell’imputata. Della data dell’udienza di rinvio nessun avviso è stato notificato al difensore e all’imputata. Evenienza che, unitamente all’incongrua brevità del termine di differimento (una sola settimana), ha vulnerato il diritto di difesa della T. , che non ha avuto modo di rappresentare le ragioni volte a chiarire più aspetti della vicenda processuale.
2.2. Violazione dell’art. 175 c.p.p. e nullità dell’ordinanza in data 16.2.2012 con cui la Corte di Appello ha respinto l’istanza del difensore dell’imputata di essere restituito nel termine per esercitare il mandato difensivo in grado di appello. Termine non potuto rispettare per forza maggiore indotta dallo stato di malattia in cui versava lo stesso difensore il 26.1.2012, quando la Corte di Appello ha definito il giudizio di merito.
2.3. Erronea applicazione dell’art. 348 c.p. e illogicità della motivazione.
La condotta attuata dalla T. non integra la fattispecie criminosa contestatale, che presuppone un’attività continuativa e organizzata della professione. Se è vero che l’imputata non aveva ancora conseguito il titolo abilitativo di avvocato e non era quindi iscritta nell’apposito albo professionale, deve tuttavia considerarsi l’unicità della sua condotta. La T. , in vero, ha svolto patrocinio cui non era autorizzata come praticante avvocato in relazione ad “una sola pratica”, nella quale ha agito nell’interesse di una persona della sua famiglia (la madre) e, quindi, senza trarre da detto patrocinio “alcun vantaggio o beneficio di carattere economico”.
3. Il ricorso deve essere rigettato perché sorretto da motivi infondati.
3.1. I rilievi in rito articolati con i connessi primi due motivi di ricorso non hanno pregio alla luce della verifica degli atti processuali, consentita a questo giudice di legittimità in ragione della natura di errores in procedendo dei due dedotti vizi del giudizio di appello. Questo, come precisa la stessa sentenza impugnata, si è sviluppato per più udienze scandite da differimenti ad udienza fissa determinati da varie cause. Nella prima udienza del 28.6.2011 è stata dichiarata la contumacia dell’imputata regolarmente citata e non comparsa; contumacia revocata con la successiva comparizione della T. all’udienza di rinvio del 24.11.2011 (“libera presente”), in cui era disposto ulteriore rinvio all’udienza del 19.1.2012 per il termine concesso, su sua richiesta, al difensore di ufficio per preparare la difesa. Intervenuta nomina del difensore di fiducia dell’imputata, l’udienza del 19.1.2012 è stata differita per congiunti documentati impedimenti legittimi del difensore (preesistente impegno professionale) e della T. (malattia guaribile in tre giorni). All’udienza di differimento del 26.1.2012, non comparsi l’imputata e il suo difensore di fiducia, è avvenuta – nominato alla T. un difensore di ufficio ex art. 97 c.p.p. tra i legali presenti in udienza (in persona, per altro, dello stesso legale cui il 24.11.2011 era stato concesso termine per la difesa) – ha avuto luogo la discussione e la Corte di Appello ha emesso la sentenza oggetto di ricorso.
Alla stregua del descritto quadro processuale né il difensore di fiducia della T. né quest’ultima avevano diritto ad alcun avviso o comunicazione della data di differimento dal 19.1.2012 al 26.1.2012.
Non il difensore, che avrebbe avuto diritto all’avviso della nuova udienza solo nel caso in cui non se ne fosse già stabilita la data nell’ordinanza di differimento della Corte di Appello. Quando – come nel caso di specie – il rinvio sia avvenuto a c.d. udienza fissa, l’avviso è validamente recepito in forma orale dal difensore presente designato quale sostituto ai sensi dell’art. 97 co. 4 c.p.p. (S.U., 28.2.2006 n. 8285, Grassia, rv. 232906; Sez. 5, 4.6.2008 n. 36643, Sorrentino, rv. 241721; Sez. 5,11.5.2010 n. 26168, Terlizzi, rv. 247897).
Non l’imputata T. per le medesime ragioni, essendo anche costei (che non ha comunicato alcun impedimento a comparire all’udienza di rinvio del 26.1.2012), rappresentata in giudizio dal difensore di ufficio ex art. 97 c.p.p. e dovendo, per tanto, considerarsi presente all’udienza del 19.1.2012 precedente il rinvio (Sez. U, 28.2.2006, cit.; Sez. 3,24.3.2010 n. 24240, Romano, rv. 247689).
Corretta e consequenziale rispetto al descritto rituale svolgimento della conclusiva udienza di appello del 26.1.2012 è, poi, l’ineccepibile motivazione con cui la Corte nissena (a giudizio ormai concluso), ha respinto -con ordinanza del 16.2.2012 oggetto di odierna impugnazione- la singolare istanza di restituzione in termine del difensore di fiducia, invocante la fissazione di una “nuova udienza” per esercitare l’attività difensiva non potuta svolgere in favore dell’imputata. In vero il legale non ha fatto pervenire alla Corte di Appello per l’udienza del 26.1.2012, della cui data – per quel che si è prima chiarito – doveva ritenersi pienamente edotto, alcuna certificazione medica (oggetto di postuma produzione solo con l’istanza ex art. 175 c.p.p.) attestante un suo impedimento per malattia alla data del 26.1.2012.
3.2. Destituite di fondamento si mostrano anche le censure espresse in relazione alla sussistenza del reato di abusivo esercizio della professione legale ascritto alla T. .
3.2.1. Il reato punito dall’art. 348 c.p. non richiede alcuna attività continuativa e/o organizzata della professione esercitata abusivamente dal soggetto agente, come erroneamente sostiene il ricorso. Quando l’esercizio della professione vietato all’agente investa atti tipici della professione, quali quelli posti in essere dalla T. come patrocinatore legale, il reato ha natura istantanea, perfezionandosi anche con il compimento di un solo atto abusivo che realizza definitivamente il verificarsi dell’evento lesivo. Evento che è unico, come unitaria è la condotta che lo realizza anche se sviluppata (è il caso della ricorrente T. ) con più atti professionali abusivi. Donde la perfetta irrilevanza della “unicità” della “pratica giudiziaria” indebitamente trattata dalla prevenuta segnalata in ricorso (cfr. Sez. 6, 2.7.2012 n. 30068, Pinori, rv. 253272).
L’avere la T. rassegnato nell’udienza finale della causa civile da lei patrocinata davanti al giudice di pace (udienza del 29.10.2007 individuante la data del commesso reato) le conclusioni in relazione ad un valore del risarcimento richiesto per la parte assistita eccedente in ampia misura i limiti di valore dell’attività legale che – come praticante avvocato abilitato al patrocinio – era autorizzata a svolgere, è elemento sufficiente ad integrare il contestato reato di cui all’art. 348 c.p. Attività abusiva che ella, come spiegano i giudici di merito, ha continuato ad esercitare anche davanti al Tribunale, ivi riassumendo e patrocinando la causa dismessa per ragioni di valore dal giudice di pace, anche dopo essere stata sanzionata in sede disciplinare dal locale Consiglio dell’Ordine forense. È ovvio, per altro, che l’istantaneità e unisussistenza del reato non implica che tutti gli atti di abusivo esercizio della professione successivi al primo compiuto dall’agente divengano irrilevanti (quasi sorta di post factum non punibile). L’istantaneità del reato non esclude certamente la coesistenza di una pluralità di atti professionali abusivi e “istantanei” che si susseguano nel tempo e divengano eventualmente unificabili sotto il vincolo della continuazione ex art. 81 co. 2 c.p. (nel caso della T. il p.m. non ha ritenuto di doversi dolere della mancata applicazione del regime di cui al citato art. 81 cpv. c.p.).
3.2.2. Parimenti errati sono i rilievi esposti in ricorso sulla mancata percezione dalla abusiva attività legale svolta di alcun vantaggio o beneficio economico per la T. , avendo costei patrocinato una causa promossa dalla madre. Dato che varrebbe ad escludere il reato ascrittole per difetto di antigiuridicità.
La rilevanza economica o i risvolti patrimoniali dell’abusiva attività professionale esercitata dall’imputato sono elementi affatto estranei alla struttura della fattispecie criminosa. Il reato di cui all’art. 348 c.p. è un reato contro la pubblica amministrazione, il cui evento è costituito dalla elusione di una previa “speciale abilitazione”, rilasciata una tantum da appositi organi pubblici o da enti pubblici professionali, per il durevole esercizio di attività professionali riservate a soggetti muniti di specifica qualificazione.
L’eventuale scopo di lucro che possa aver spinto l’agente alla condotta abusiva non connota la lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, cioè il bene immateriale della P.A. rappresentato dall’esigenza di garanzia, nell’interesse della collettività, di un controllo generale e preventivo dei requisiti per l’esercizio di specifiche professioni di più o meno elevato spessore tecnico. Avuto riguardo alla indisponibilità dell’interesse protetto dall’art. 348 c.p., la mancanza nell’azione dell’imputato di finalità di profitto o guadagno patrimoniale ovvero i moventi di natura meramente privata e perfino il previo assenso del destinatario dell’attività professionale al suo illegale (id est abusivo) svolgimento non possono produrre alcun effetto esimente sulla inequivoca apprezzabilità penale della condotta tecnico – professionale esercitata dall’imputato con la sicura contezza di essere privo del corrispondente titolo abilitativo (cfr.: Sez. 6,29.11.1983 n. 2286, Rosellini, rv. 163146; Sez. 2,22.8.2000 n. 10816, Magaddino, rv. 217219).
Al rigetto del ricorso segue ex lege la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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