pensilina

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  10 marzo 2014, n. 11383

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Macerata, sezione distaccata di Civitanova Marche, con sentenza del 14/2/2013, ha dichiarato M.A. responsabile del reato di cui agli artt. 64 lett. a) e 68 co. 2, d.Lvo 81/2008, perché quale legale rappresentante della Oil Italia s.r.l. presso il punto vendita (stazione di distribuzione carburanti) di Potenza Picena non garantiva le dotazioni igieniche ex lege previste, e lo ha condannato alla pena di euro 400,00 di ammenda.
Propone ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, con i seguenti motivi:
– violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. in relazione alla valutazione degli elementi istruttori che hanno determinato il decidente a ritenere concretizzata la violazione degli artt. 63 e 64 lett. a) dei d.Lvo 81/2008; vizio di motivazione in punto di sussistenza del reato contestato;
– violazione del divieto di analogia sancito dagli artt. 1 e 199 cod. pen., nonché 25 Costituzione, con riferimento alla ritenuta applicabilità al caso di specie della normativa indicata nel capo di imputazione.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile.
Il vaglio di legittimità, a cui è stata sottoposta l’impugnata pronuncia, permette di ritenere logica e corretta la argomentazione motivazionale, adottata dal decidente, in ordine alla concretizzazione del reato contestato e alla ascrivibilità di esso in capo al prevenuto.
Il primo motivo di annullamento è del tutto privo di fondamento.
Rilevasi, infatti, che il Tribunale è pervenuto ad affermare la colpevolezza dell’A. a seguito di una compiuta disamina delle risultanze istruttorie, puntualmente richiamate (deposizioni B. e C.) nello sviluppo del discorso giustificativo, svolto a sostegno delle conclusioni a cui è pervenuto: il responsabile del servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro dell’Asur, Area Vasta 3 di Civitanova Marche, accertava, in sede di sopralluogo, che nell impianto di carburanti in questione non vi erano servizi igienici; e che la Oil Italia s.r.l., di cui l’A. era il rappresentante legale, era proprietaria del predetto impianto, concesso in comodato d’uso a M.C., che lo gestiva.
Conseguentemente, la responsabilità delle opere costituenti l’impianto medesimo era da ritenere a carico dell’imputato, in quanto proprietario della struttura e, quindi, tenuto al rispetto della normativa concernente la sicurezza sul lavoro e a munire la stazione dei necessari servizi igienici.
Peraltro, con la censura mossa si tende ad una rilettura degli elementi costituenti la piattaforma probatoria, sui quali al giudice di legittimità è precluso procedere a nuovo esame estimativo.
Del pari manifestamente infondato è il secondo motivo di annullamento, con cui si contesta la applicabilità al caso di specie della normativa indicata nel capo di imputazione.
Infatti, contrariamente alla tesi sostenuta dalla difesa del prevenuto, la nuova definizione di lavoratore ha introdotto il principio di effettività della individuazione della figura del lavoratore stesso, in quanto la locuzione “indipendentemente dalla tipologia contrattuale” segna la rottura netta con la legislazione passata, superando il dato formale del contratto civilistico di lavoro per incentrarsi sulla situazione di fatto della prestazione di una attività lavorativa all’interno dell’organizzazione di un datore di lavoro: ruolo centrale nella definizione di lavoratore è, pertanto, la prestazione di fatto da parte di quest’ultimo di una attività all’interno di una organizzazione di cui è dominus il datore di lavoro (Cass. 16/1/2008, n. 7730).
Tenuto conto della sentenza del 13/6/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che l’A. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., deve, altresì, essere condannato al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.000,00.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00.

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