In tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, l’istituto della particolare tenuità del fatto non può trovare applicazione in sede di legittimità quando le condizioni dell’istituto sono già state escluse dalla corte di merito
Suprema Corte di Cassazione
sezione VI penale
sentenza 2 dicembre 2016, n. 51615
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IPPOLITO Francesco – Presidente
Dott. PETRUZZELLIS Anna – Consigliere
Dott. TRONCI Andrea – Consigliere
Dott. MOGINI Stefano – Consigliere
Dott. BASSI A. – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 16/02/2015 della Corte d’appello di Cagliari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. BASSI Alessandra;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROSSI Agnello, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento in epigrafe, in parziale riforma dell’impugnata sentenza del Tribunale di Cagliari del 23 giugno 2012 – in relazione alla coltivazione di piante di cannabis ed alla detenzione di analoga sostanza -, la Corte d’appello del capoluogo sardo ha ridotto la pena inflitta in primo grado a (OMISSIS) a mesi sei di reclusione e 1000 Euro di multa, con conferma nel resto della decisione impugnata.
2. Ricorre avverso la sentenza l’Avv. (OMISSIS), difensore di fiducia di (OMISSIS), e ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:
2.1. violazione di legge processuale e vizio di motivazione in relazione agli articoli 125, 192 c.p.p. e articolo 546 c.p.p., lettera e), per avere la Corte d’appello eluso l’obbligo di motivare, la’ dove si e’ limitata a riprodurre in copia la motivazione della sentenza di primo grado;
2.2. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’articolo 192 c.p.p. e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, per avere il Collegio di merito errato nel ritenere configurabile nella specie una “coltivazione” penalmente rilevante, trattandosi invece di una semplice coltivazione domestica, riportabile alla ampia nozione di detenzione per uso personale;
2.3. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’articolo 49 c.p., comma 2, e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, per avere la Corte errato nel ritenere punibile il fatto, sebbene si tratti di una coltivazione domestica priva di offensivita’ in quanto finalizzata al mero uso personale;
2.4. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’articolo 110 c.p., articolo 192 c.p.p. e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, per avere il giudice d’appello errato nel ritenere punibile il fatto, nonostante la coltivazione domestica fosse destinata a fare fronte al fabbisogno giornaliero di un gruppo di persone, con relativa condivisione della responsabilita’;
2.5. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’articolo 49 c.p., comma 2, e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73 nonche’ in relazione all’articolo 25 Cost., articoli 2 e 131-bis c.p., sussistendo nella specie i presupposti della causa di non punibilita’ per la particolare tenuita’ del fatto contestato;
2.6. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione agli articoli 42 e 43 c.p. e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, per avere la Corte omesso di motivare in merito alla integrazione dell’elemento soggettivo;
2.7. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’articolo 62-bis c.p. e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73 nonche’ in relazione all’articolo 25 Cost., articoli 2 e 131-bis c.p., per avere il Collegio del gravame irragionevolmente negato all’imputato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in considerazione delle modalita’ del fatto, mentre risulta inverosimile che i coinquilini del (OMISSIS) non condividessero i prodotti della coltivazione della marijuana, visto il forte odore emanato dalla coltura.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere respinto.
2. E’ inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo di ricorso col quale il ricorrente denuncia il difetto assoluto di motivazione per avere la Corte d’appello riprodotto nel provvedimento impugnato la sentenza di primo grado (v. punto 2.1 del ritenuto in fatto).
Dalla lettura della decisione in verifica, risulta di tutta evidenza come il Collegio di merito, dopo avere dato conto del compendio argomentativo sviluppato dal Giudice di primo grado nonche’ dei motivi d’appello, abbia svolto specifiche ed autonome considerazioni in risposta (v. pagine 9 e seguenti della sentenza).
3. Sono privi di fondamento il secondo e terzo motivo, con i quali il ricorrente declina sotto diversa prospettiva la medesima doglianza, lamentando il difetto dei presupposti fattuali della “coltivazione” punita dal Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73 (v. punti 2.2 e 2.3 del ritenuto in fatto).
3.1. Le censure mosse nel ricorso si pongono in evidente disarmonia rispetto al consolidato insegnamento di questa Corte, affermato anche dalle Sezioni Unite, alla stregua del quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attivita’ non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale, ma spetta al giudice verificare in concreto l’offensivita’ della condotta ovvero l’idoneita’ della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 e 239921; Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata).
Detto principio e’ stato di recente autorevolmente ribadito dalla Corte costituzionale, con la pronuncia del 9 marzo 2016, n. 109, la’ dove – nuovamente investita della questione gia’ sollevata in passato – il Giudice delle Leggi ha ribadito l’infondatezza della dedotta incostituzionalita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 75, con riferimento all’articolo 3 Cost., articolo 13 Cost., comma 2, articolo 25 Cost., comma 2, e articolo 27 Cost., comma 3, nella parte in cui, secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimita’, non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via esclusiva all’uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione di piante di cannabis.
A sostegno della decisione, i Giudici della Consulta hanno rilevato, per un verso, come non sussista una disparita’ di trattamento tra il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente “raccolto” e il coltivatore “in atto”, poiche’ entrambi sono chiamati a rispondere penalmente delle loro condotte; per altro verso, come non sia ravvisabile la violazione del principio della necessaria offensivita’ del reato, la’ dove la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti, presentando l’attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilita’ di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosita’ della condotta considerata per la salute pubblica – la quale non e’ che la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui – oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico. Rimane, dunque, affidata alla discrezionalita’ del legislatore la previsione di un trattamento sanzionatorio piu’ rigoroso per la condotta, dotata di maggiore pericolosita’, di coltivazione di stupefacenti rispetto a quella di sola detenzione, in quanto la prima, non solo ha la capacita’ di accrescere la quantita’ di stupefacente esistente e circolante, ma – a differenza delle altre condotte “produttive” – non richiede neppure la disponibilita’ di “materie prime” soggette a rigido controllo, ma normalmente soltanto dei semi.
3.2. Di tali coordinate ermeneutiche hanno fatto corretta applicazione i Giudici della cognizione. A tenore di contestazione, nel caso in oggetto, si tratta della coltivazione di sette piantine di cannabis gia’ poste a dimora e di altri diciannove pronte per essere impiantate, mediante utilizzo di micro impianti di irrigazione e di illuminazione, nonche’ della detenzione, ad evidente fine di spaccio, di complessivi 300 grammi di infiorescenze e foglie di marijuana essiccata, contenuti in diversi barattoli di vetro e contenitori. Dalle sostanze si sarebbero potuto ricavare, rispettivamente, 90 dosi medie singole, dalle piante coltivate, e 250 dosi medie singole, dalla sostanza stupefacente essiccata.
Secondo la ricostruzione in fatto compendiata nelle sentenze di merito, le modalita’ motivazione delle piantine erano indubbiamente domestiche, ma presentavano un certo grado di organizzazione, in considerazione della predisposizione di due piccole serre attrezzate con l’impianto di irrigazione, ventole, lampade, filtri e termometri, cosi’ da consentire il mantenimento di un microclima favorevole della crescita delle piantine; inoltre le piante venivano coltivate “a rotazione”, modalita’ in grado di massimizzare il prodotto (v. pagine 9 e 10 della sentenza).
Alla stregua della ricostruzione in fatto della vicenda, ineccepibile si appalesa allora la conclusione cui e’ pervenuta la Corte in punto di offensivita’ del fatto, trattandosi di una coltivazione – con allestimento di due serre domestiche e a rotazione – potenzialmente idonea a produrre nel tempo, ove non interrotta dalle forze dell’ordine, di costanti e significativi quantitativi di sostanza stupefacente di buona qualita’ (v. pagina 11 della sentenza).
4. La deduzione mossa nel quarto motivo (v. punto 2.4 del ritenuto in fatto) non sfugge ad una preliminare ed assorbente censura di inammissibilita’, posto che essa, per un verso, non si confronta con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della cognizione e, dunque, omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838); per altro verso, e’ volta a sollecitare una rilettura delle emergenze processuali, non consentita in questa Sede (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
4.1. Del tutto congruamente la Corte ha ritenuto che il fatto che i coinquilini potessero agevolmente rendersi conto della presenza della droga nella stanza del (OMISSIS) non costituisca circostanza di per se’ idonea a dimostrare il loro concorso nel reato (v. pagina 10 della sentenza).
Secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato piu’ volti ribaditi da questo Giudice di legittimita’, la circostanza che taluno sia a conoscenza della circostanza che altri detenga nella medesima abitazione della sostanza stupefacente non e’ sufficiente a ritenere provato il concorso nel reato – che postula un contributo partecipativo, morale o materiale, alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volonta’ di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito -, dovendo piuttosto ricondursi, allorche’ si riduca ad un comportamento meramente passivo, alla c.d. connivenza non punibile (ex plurimis Sez. 6, n. 44633 del 31/10/2013, Dioum e altri, Rv. 257810; Sez. 4, n. 4948 del 22/01/2010, Porcheddu e altro, Rv. 246649).
5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della mancata applicazione della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131-bis c.p. (motivo riassunto sub punto 2.5 del ritenuto in fatto).
5.1. Occorre premettere che detto istituto e’ stato introdotto nel nostro ordinamento con Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, ed e’ entrato in vigore il 2 aprile 2015, successivamente alla pronuncia dell’impugnata sentenza.
Come ha chiarito questa Corte pronunciandosi nel suo piu’ ampio consesso, l’istituto della non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, previsto dall’articolo 131-bis c.p., avendo natura sostanziale, e’ applicabile, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione e per solo questi ultimi la relativa questione, in applicazione dell’articolo 2 c.p., comma 4, e articolo 129 c.p.p., e’ deducibile e rilevabile d’ufficio ex articolo 609 c.p.p., comma 2, anche nel caso di ricorso inammissibile (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593). Le Sezioni Unite hanno, inoltre, chiarito che, quando la sentenza impugnata e’ anteriore alla entrata in vigore del Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimita’ va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilita’, la dichiara d’ufficio, ex articolo 129 c.p.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594).
Ne discende che la diretta applicazione dell’istituto da parte di questa Corte presuppone la possibilita’ di riconoscerne i relativi presupposti (“se riconosce la sussistenza della suddetta causa di non punibilita’”) sulla base della ricostruzione dei fatti e delle valutazioni compiute dai giudici della cognizione. Diversamente, la decisione deve essere demandata al giudice di merito, non potendo espletarsi nella sede di legittimita’ – giusta la specifica natura del sindacato rimesso a questa Corte – apprezzamenti di fatto tesi alla ricostruzione ed alla valutazione dei fatti (in senso conforme alle Sez. U sul punto, Sez. 6, n. 168, del 10/02/2016, Zuccato).
Occorre aggiungere che il riconoscimento della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131-bis c.p. – pur possibile nella sede di legittimita’ per le ragioni gia’ sopra esposte -, presuppone nondimeno che le condizioni dell’istituto non siano gia’ state escluse dal giudice di merito, in termini espliciti o impliciti nella ricostruzione della fattispecie storico-fattuale e nelle valutazioni espresse in sentenza.
5.2. In applicazione del principio fissato dalle Sezioni Unite, non e’ revocabile in dubbio che, nel caso sottoposto al vaglio di questo Collegio, non sussistano le condizioni per l’applicazione dell’istituto.
Ed invero, la Corte territoriale, nell’argomentare l’insussistenza dei presupposti per ritenere – in concreto – non offensiva la coltivazione di marijuana e per negare la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, ha congruamente evidenziato una serie di circostanze (modalita’ organizzative della coltivazione, quantita’ di sostanza detenuta e particolare ardire nel coltivare in un appartamento abitato anche da altre persone), tutte distoniche con la causa di non punibilita’ invocata.
6. Del tutto generico e, dunque, inammissibile e’ il sesto motivo (punto 2.6 del ritenuto in fatto), con il quale il ricorrente denuncia l’omessa motivazione in merito alla integrazione dell’elemento soggettivo, in ogni caso implicitamente motivato in sentenza alla luce della descrizione delle stesse modalita’ del fatto e dell’espresso richiamo alle dichiarazioni del (OMISSIS), il quale ha ammesso di avere coltivato e detenuto marijuana nella propria stanza (v. pagina 5 della sentenza).
7. Incensurabili in questa Sede sono anche le considerazioni svolte dal Collegio d’appello in punto di negatoria delle circostanze attenuanti generiche, decisione contestata dal ricorrente col settimo motivo (2.7 del ritenuto in fatto). La Corte ha invero rilevato, per un verso, che si tratta di motivo generico e pertanto inammissibile (con una decisione perfettamente in linea con quanto di recente sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza del 27 ottobre 2016, ric. Galtelli). Per altro verso, che non ricorre alcun concreto elemento positivamente valutabile, non potendosi valorizzare la mera incensuratezza dell’imputato, in conformita’ al consolidato insegnamento di questa Corte (ex plurimis Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini e altri, Rv. 260610).
8. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
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