cassazione 7

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

ORDINANZA 16 marzo 2016, n. 5266

Motivi della decisione

1.- Pregiudiziale appare l’esame congiunto del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso.

Col secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 85, della legge n. 662/1996 ed art. 12 disposizioni sulla legge in generale, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. La società ricorrente sostiene che la norma non potrebbe essere interpretata come previsione diretta dell’impignorabilità, ex lege, delle somme e dei crediti derivanti all’IACP dai canoni di locazione e dalla alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, così come ritenuto dal giudice di merito. Rileva che, alla previsione astratta di legge, dovrebbe sempre seguire un provvedimento concreto dell’ente che conferisca una specifica destinazione a determinate somme rivenienti da canoni di locazione.

1.1.- Col terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 cod. proc. civ. La ricorrente sostiene che l’opponente IACP avrebbe fondato la propria opposizione soltanto sul presupposto dell’operatività a lege dell’impignorabilità e che, perciò, sarebbe viziata la sentenza di merito nella parte in cui ha accertato e ritenuto sussistente la destinazione in concreto dei canoni di locazione alle finalità contemplate dal legislatore (che l’IACP di Taranto avrebbe posto in essere mediante la delibera n. 157/2004, comprovata dalle risultanze del bilancio previsionale dell’anno 2010).

1.2.- Col quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 85, della legge n. 662 del 1996 in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché ‘motivazione gravemente difettosa ed illogica in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.’ ed, ancora, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 cod. proc. civ. La ricorrente sostiene che l’IACP non sarebbe comunque riuscito a dimostrare di avere specificamente destinato i canoni di locazione alle finalità di legge.

2.- I motivi non meritano di essere accolti.

Non vi è dubbio che l’art. 2, comma 85, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 introduca un’ipotesi di impignorabilità, a prescindere dalle modalità con le quali il pignoramento è (o dovrebbe essere) realizzato (vale a dire, a prescindere dall’applicabilità o meno all’IACP delle previsioni della legge 29 ottobre 1984 n. 720, su cui infra).

È corretto il richiamo che parte ricorrente fa alla giurisprudenza di questa Corte per la quale, atteso il disposto dell’art. 2740, comma secondo, cod. civ., le somme di denaro di pertinenza di un ente pubblico o equiparato possono ritenersi assolutamente impignorabili soltanto per effetto di una disposizione di legge ovvero di un provvedimento amministrativo che, però, nella legge trovi fondamento (cfr., tra le altre, Cass. n. 14847/00, nonché, in tema di canoni di locazione di pertinenza dell’IACP, Cass. n. 1694/06).

La questione posta dal ricorso è allora quella dell’interpretazione della norma come previsione di impignorabilità nascente direttamente dalla legge oppure come previsione che pone le condizioni alle quali l’istituto, nello svolgimento della sua attività provvedimentale, si deve attenere per rendere impignorabili i canoni di locazione.

Il testo di legge è il seguente:

‘Le somme ed i crediti derivanti dai canoni di locazione e dalla alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica di spettanza degli IACP, iscritti in capitoli di bilancio o in contabilità speciale, non possono, in quanto destinati a servizi e finalità di istituto, nonché al pagamento di emolumenti e competenze a qualsiasi titolo dovuti al personale dipendente in servizio o in quiescenza, essere sottratti alla loro destinazione se non in modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, ai sensi dell’articolo 828 del codice civile. Qualunque atto di ritenzione di essi e gli atti di sequestro o pignoramento eventualmente eseguiti sono nulli ed inefficaci di pieno diritto e non determinano obbligo di accantonamento da parte del terzo e non sospendono l’accreditamento delle somme nelle contabilità intestate agli IACP e la disponibilità di essi da parte degli istituti medesimi’.

Il tenore letterale è tale da indurre a ritenere che sia la stessa norma di legge ad attribuire alle somme ed ai crediti per canoni di locazione la destinazione istituzionale che li rende impignorabili.

È certo, infatti, che l’impignorabilità sia subordinata alla sussistenza di una condizione, da verificarsi in concreto: che si tratti di somme o crediti iscritti in capitoli di bilancio o in contabilità speciale – attività, quest’ultima, che presuppone l’individuazione in concreto delle somme e dei crediti di che trattasi.

Per contro, mentre non vi è alcun altro riferimento a provvedimenti da adottarsi necessariamente dall’Istituto per la destinazione in concreto delle somme e dei crediti (né vi è l’indicazione di tempi e di contenuto delle relative delibere), la norma ne riferisce la destinazione ‘a servizi e finalità di istituto, nonché al pagamento di emolumenti e competenze a qualsiasi titolo dovuti al personale dipendente in servizio o in quiescenza’.

In effetti, la seconda tipologia di destinazione ben può essere oggetto di un provvedimento amministrativo connotato da specificità.

Invece, la previsione di una ‘categoria generale’ (‘servizi e finalità di istituto’) cui, in alternativa, dovrebbe in concreto essere preordinato il vincolo di destinazione depone in senso contrario a quanto preteso dalla ricorrente.

Considerati la normativa di riferimento ed i compiti istituzionali e statutari degli IACP, le somme ed i crediti per canoni di locazione risultano per definizione destinati ‘a servizi e finalità di istituto’: l’espressione adoperata dal legislatore è talmente generica ed omnicomprensiva che non si presta nemmeno a far immaginare come e per quali finalità le somme ed i crediti derivanti da canoni di locazione potrebbero essere distolti dal pagamento dei servizi ovvero dalle finalità di istituto, quasi che siano ammesse dall’ordinamento destinazioni delle entrate per finalità non di istituto. In tanto la richiesta di apposito provvedimento amministrativo di destinazione avrebbe avuto senso in quanto il legislatore avesse previsto, nell’ambito dei servizi e delle finalità di istituto, destinazioni istituzionali privilegiate e specifiche, alle quali volta a volta l’Istituto avrebbe potuto vincolare i propri proventi, a seconda della concreta situazione patrimoniale e di bilancio.

2.1.- Il legislatore ha piuttosto individuato nella categoria delle entrate dell’istituto, quelle provenienti da canoni di locazione e dall’alienazione degli alloggi, iscritti in capitoli di bilancio o in contabilità speciale, e per questi proventi ha previsto l’impignorabilità ‘in quanto destinati” a servizi e finalità di istituto.

Sebbene si convenga con la ricorrente che il significato immediato dell’espressione adoperata dal legislatore, in sé considerata, possa essere quello di ‘nella misura in cui’; non può non obiettarsi, come fa la resistente, che l’art. 12 delle preleggi prescrive che alla legge debba essere attribuito il senso ‘fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”: orbene, la connessione tra le due parti del primo periodo del comma, nonché con le restanti parti dello stesso comma, palesa la diretta individuazione da parte del legislatore di ‘beni destinati a un pubblico servizio’ (cioè, per usare la lettera della legge speciale, beni destinati a ‘servizi e finalità di istituto’), quindi facenti parte del patrimonio indisponibile dell’ente pubblico ai sensi dell’art. 826, ult. co., 828 (espressamente richiamato dalla legge) e 830 cod. proc. civ..

La presunzione legale, in favore degli Istituti, della destinazione a pubbliche finalità delle somme e dei crediti di che trattasi trova riscontro nella parte finale dello stesso comma, che sancisce la nullità ed inefficacia ‘di pieno diritto’ degli atti di sequestro e pignoramento aventi ad oggetto canoni di locazione e prezzi della cessione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.

2.2.- Il confronto con altre norme con le quali sono state introdotte nell’ordinamento ipotesi di impignorabilità assoluta conferma le conclusioni appena raggiunte.

Per un verso, sono ben note previsioni di legge che hanno sancito, in via diretta, l’impignorabilità di determinate entrate dei soggetti debitori, individuate dal legislatore con riferimento alla tipologia e/o alla provenienza delle entrate, e non alla loro destinazione. Così è stato, per esempio con l’art. 27, comma 13, della legge n. 448 del 2001, come modificato dal d.l. n. 13 del 2002, convertito nella legge n. 75 del 2002, relativo alle somme di competenza degli enti locali a titolo di addizionale comunale e provinciale IRPEF, sottratte per legge alla pignorabilità (su cui cfr. Cass. n. 10243/15).

Per altro verso, come osserva la resistente, quando il legislatore ha ritenuto la necessità di una delibera dell’ente pubblico per l’apposizione del vincolo di impignorabilità di beni e di denaro, che stabilisse destinazione e limiti, ne ha formulato espressa previsione. Le norme di riferimento sono, tra le altre, quelle richiamate, sia pure sotto diverse prospettive, da entrambe le parti:

– l’art. 159 del d.lgv. 18 agosto 2000 n. 267, concernente le entrate degli enti locali;

– l’art. 11 del d.l. 18 gennaio 1993 n. 8, convertito nella legge 19 marzo 1993 n. 68, rimasto in vigore per le regioni;

– l’art. 1, comma quinto, del d.l. 18 gennaio 1993 n. 9 convertito nella legge 18 marzo 1993 n. 67, concernente le entrate delle unità sanitarie locali, oggi aziende sanitarie locali;

– art. 25 della legge 8 agosto 1977 n. 513, in tema di canoni IACP.

2.3.- Proprio su quest’ultima norma si è pronunciata la sentenza di questa Corte di Cassazione n. 1694/2006, citata negli atti e richiamata dalla Corte d’Appello. Nella motivazione si legge che ‘l’art. 25, comma 3, cit. non era una norma direttamente impositiva di un vincolo di destinazione agli effetti di cui all’art. 828 c.p.c., comma 2, bensì soltanto una norma che obbligava l’ente a destinare le somme riscosse per canoni locativi di risulta dopo lo scorporo di quelle per le spese ordinarie di gestione (queste essendo quelle di cui alle lettere b) e c) del citato art. 19) per una delle finalità di cui alle lettere da a) ad e). Il vincolo di destinazione agli effetti dell’art. 828 c.p.c., comma 2, nasceva, invece, soltanto per effetto dell’adozione dei necessari atti amministrativi di destinazione delle somme ad una delle finalità di cui alle lettere ora dette….omissis… Erroneamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto che tale norma avesse sancito essa stessa direttamente un vincolo di impignorabilità integrante uno di quei casi, ai quali fa riferimento l’art. 2740 cod. civ..

Siffatto vincolo, invece, supponeva il concreto atto di destinazione delle somme omissis… Questa conclusione, ove ve ne fosse bisogno, riceve conferma dalla stessa considerazione dell’evoluzione legislativa successiva, la quale con la L. 29 ottobre, n. 720, art. 1 bis, comma 4 bis, aggiunto dal D.L. 18 gennaio 1993, n. 8, art. 11, convertito in L. 19 marzo 1993, n. 68, ebbe a sancire espressamente l’impignorabilità delle somme giacenti presso le sezioni decentrate del bancoposta nell’interesse dell’I.A.C.P. (ente ricompresso fra quelli di cui alla tabella A annessa alla citata legge) e, quindi, delle somme come quelle oggetto dell’opposta esecuzione, rappresentate da canoni locativi. Somme che, successivamente furono oggetto di una specifica previsione di impignorabilità con la L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 85. Tali sopravvenienze legislative – inapplicabili pacificamente ratione temporis alla fattispecie oggetto del giudizio – lungi dal costituire una sorta di conferma espressa di quanto sarebbe stato desumibile dall’art. 25 (come vorrebbe l’istituto resistente), evidenziano la consapevolezza da parte del legislatore che il regime di all’art. 25 non aveva alcuna efficacia direttamente impositiva di un vincolo di impignorabilità…omissis…”.

Facendo seguito a quest’ultima affermazione, va condiviso l’assunto della resistente secondo cui l’intenzione del legislatore del 1996 è stata proprio quella di superare il precedente regime di impignorabilità, per garantire un migliore soddisfacimento delle finalità di istituto.

2.4.- Questa intenzione del legislatore trova riscontro nelle altre disposizioni dello stesso art. 2 della legge n. 662 del 1996, dato che i comma da 80 ad 84, che precedono quello in esame, sono volti a disciplinare il ripianamento dello stato di dissesto finanziario degli Istituti Autonomi per le Case Popolari, anche mediante la concessione di mutui da parte della Cassa Depositi e Prestiti, garantiti dalla Regione di appartenenza, necessari per coprire le passività, cui fa da pendant la previsione del comma 85, che, invece, preserva dalle azioni dei creditori determinate entrate finanziarie funzionali al pagamento dei servizi ed al raggiungimento degli scopi istituzionali.

2.5.- Quanto appena detto consente anche di superare i dubbi di conformità a Costituzione della norma, prospettati dall’IACP come questione di legittimità costituzionale, già dichiarata manifestamente infondata dal giudice di merito e riproposta in ricorso, in subordine al rigetto del secondo motivo, qui in esame. Le ragioni del rigetto della questione non sono soltanto quelle ritenute dalla Corte d’Appello (fondate sull’art. 47 della Costituzione, il cui favore per l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, pur consentendo una situazione di privilegio per gli Istituti – con differenziazione ragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., rispetto a quella di diverse categorie di debitori – non potrebbe sacrificare del tutto altri diritti costituzionalmente tutelati, come quello assicurato dall’art. 24 della Costituzione, di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, compresi i diritti di credito), ma si rinvengono già espresse, con riferimento allo stesso art. 3 ed all’art. 24 Cost., nel precedente di legittimità n. 4647/2001, riguardante sempre il patrimonio degli IACP. Nella motivazione di questa sentenza si legge infatti che quando l’impignorabilità riguarda determinate entrate ‘… dell’ente (ritenute meritevoli di particolare destinazione), le quali costituiscono una parte soltanto del patrimonio del medesimo ente…’ non si determina una situazione di ‘… totale sacrificio del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata’ perché consente che questa abbia ad oggetto altri beni dello stesso debitore. Questa affermazione, riferita all’art. 1-bis della legge 29 ottobre 1984 n. 720, comma 4-bis, ben può essere ripetuta anche per i canoni di locazione ed i prezzi di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, cui si riferisce la norma in esame, poiché queste somme costituiscono solo una parte, anche se cospicua, delle entrate e del patrimonio degli IACP.

Né risultano decisive le pronunce di illegittimità costituzionale di cui alle sentenze della Consulta n. 211/2003 e n. 285/1995, citate in ricorso, relative rispettivamente all’art. 159 d.lgv. n. 267 del 2000 ed all’art. 1 del d.l. n. 9/1993, poiché riferite a disposizioni normative che, come detto sopra, prescindono da una destinazione ex lege a pubbliche finalità di somme o crediti, e perciò necessitano di provvedimenti amministrativi dotati, non solo di sufficiente specificità, ma anche di presupposti idonei all’opponibilità nei confronti dei creditori, per evitare abusi degli enti debitori ai danni di questi ultimi. Per di più, in entrambi i casi, l’illegittimità costituzionale è stata ritenuta per violazione dell’art. 3 della Costituzione per disparità di trattamento fra i creditori degli enti locali e quelli delle aziende sanitarie locali (già unità sanitarie locali); non per violazione dello stesso art. 3 (ma sotto altro profilo), dell’ad. 24, comma secondo, e dell’art. 97 della Costituzione – disposizioni, richiamate, invece, dalla ricorrente.

In conclusione va affermato che ‘La norma dell’art. 2, comma 85, della legge n. 662 del 23 dicembre 1996 -là dove dispone che le somme ed i crediti derivanti dai canoni di locazione e dall’alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica di spettanza degli istituti autonomi case popolari, in quanto destinati a servizi e finalità di istituto, non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, ai sensi dell’art. 828 del codice civile – costituisce norma di legge direttamente impositiva di un vincolo di impignorabilità di tali somme e crediti, come tale integrante un caso di limitazione della responsabilità patrimoniale di detti enti, ai sensi del secondo comma dell’art. 2740 cod. civ., occorrendo al fine dell’insorgenza del vincolo soltanto che siano iscritti nei capitoli di bilancio o in contabilità speciale, senza che sia loro impressa alcuna specifica destinazione’.

Il secondo motivo di ricorso va perciò rigettato.

3.- Questo rigetto ed il principio di diritto che ne sta a fondamento comportano l’inammissibilità dei motivi terzo e quarto, attinenti alla destinazione in concreto dei canoni oggetto di pignoramento.

Poiché l’art. 2, comma 85, della legge n. 662 del 1996 costituisce diretta attuazione della previsione dell’art. 2740, comma secondo, cod. civ., la verifica in concreto compiuta dal giudice di merito (e censurata con questi motivi), va reputata irrilevante ai fini dell’accoglimento dell’opposizione dell’IACP (oggi A.J. ), quindi del rigetto dell’appello. La ricorrente è perciò carente di interesse ad impugnare le relative statuizioni.

4.- Quanto fin qui detto comporta altresì l’inammissibilità del primo motivo, col quale si lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1 bis della legge n. 720 del 1984, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ..

La lettura della sentenza impugnata rende palese, come rilevato anche dalla resistente, che la Corte d’Appello ha fondato la propria decisione su due distinte rationes decidendi, reputando la nullità del pignoramento eseguito ai danni dell’IACP presso il terzo conduttore, debitore dei canoni di locazione, sia per l’impignorabilità di questi ultimi, di cui si è detto sopra, sia perché non eseguito presso il tesoriere dell’Istituto, ai sensi della norma di cui al primo motivo. A prescindere quindi dalla delibazione delle ragioni su cui il motivo si fonda (che comporterebbero un’approfondita analisi della disciplina positiva, la quale, fin da epoca precedente il pignoramento de quo, esclude gli IACP dal regime della Tesoreria Unica, pur prevedendo un regime peculiare per la contabilità delle Regioni, delle quali sono enti strumentali), esso va reputato inammissibile alla stregua del principio di diritto secondo cui ‘Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa’ (così, da ultimo, Cass. n. 2108/12).

5.- Col quinto ed ultimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 cod. proc. civ., perché la Corte d’Appello ha omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame concernente la liquidazione delle spese del primo grado di giudizio. La ricorrente espone di avere richiesto la riforma del capo di sentenza con il quale il Tribunale di Taranto aveva condannato la SO.G.E.T. al pagamento delle spese del grado nella misura di Euro 9.370,00, evidenziando la sproporzione e l’illogicità della condanna, avulsa dai parametri di legge in relazione al valore della causa e, peraltro, giunta all’esito di una controversia che aveva visto l’emanazione di otto sentenze identiche pronunciate contestualmente tra le stesse parti, ciascuna recante identica situazione di condanna alla rifusione delle spese di lite.

5.1.- In effetti la Corte d’Appello ha omesso di pronunciarsi su questo motivo di gravame e, per questo profilo, la sentenza è viziata.

Il motivo va perciò accolto.

Il Collegio ritiene peraltro di applicare il principio di diritto per il quale ‘alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto’ (così Cass. n. 2313/10, nonché Cass. n. 15112/13, ord. n. 21257/14, n. 21968/15).

5.2.- Passando, pertanto, all’esame del merito della questione, si ritiene che il motivo d’appello manchi completamente di specificità, ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis, vigente prima delle modifiche apportate dall’art. 54, comma 1, lett. a, del d.l. n.83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012).

Esso, infatti, si limita ad una generica censura della liquidazione delle spese effettuata dal Tribunale, sostenendo ‘la sproporzione e l’illogicità della condanna’, ma non indica in alcun modo i parametri, ricavabili dalla normativa primaria o secondaria, rispetto ai quali si sarebbe venuta a determinare siffatta sproporzione.

Inammissibile perché tardivo, e comunque infondato è il riferimento -che si legge nel ricorso per cassazione – all’ammontare mensile del canone corrisposto dal conduttore, terzo pignorato; così come non è pertinente la giurisprudenza ivi richiamata, che attiene ai criteri di determinazione del valore della causa di opposizione agli atti esecutivi (Cass. n. 12354/06, n. 15633/10), e non di opposizione all’esecuzione.

Quanto a quest’ultima, viene in rilievo l’art. 17, comma primo, cod. proc. civ., per il quale il valore delle cause di opposizione all’esecuzione forzata si determina dal credito per cui si procede. Per l’espropriazione presso terzi, il valore del credito per cui si procede è pari all’importo del credito precettato (non rilevando l’aumento della metà, che l’art. 546 cod. proc. civ. fissa per delimitare gli obblighi di custodia del terzo).

Inoltre l’art. 5 del D.M. 20 luglio 2012 n. 140, che è norma applicabile ratione temporis, prevede che, ai fini della liquidazione del compenso, il valore della controversia sia determinato a norma del codice di procedura civile, salve eccezioni (non invocate nella specie).

Alla stregua dell’art. 17 cod. proc. civ., pertanto, lo scaglione di riferimento va determinato tenendo presente l’importo di Euro 965.428,98, che è il credito per cui la SO.G.E.T. S.p.A. procede, per come riconosciuto anche in ricorso.

Il motivo d’appello non contiene alcuna specifica censura che deduca che le spese liquidate dal primo giudice violino le regole tariffarie su richiamate, tenuto conto dello scaglione di riferimento.

6.- In conclusione, vanno respinti i primi quattro motivi di ricorso e va accolto il quinto; la sentenza impugnata va cassata per quanto di ragione e, decidendo nel merito, va dichiarato inammissibile il motivo di appello concernente la liquidazione delle spese del primo grado. Resta perciò confermato il dispositivo della sentenza d’appello.

La novità della questione affrontata trattando del secondo motivo – sulla quale questa Corte non si è mai pronunciata ex professo – rende di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

Avuto riguardo all’accoglimento del quinto motivo di ricorso, non sussistono i presupposti per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso; accoglie il quinto, cassa la sentenza impugnata per quanto di ragione e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile il motivo di impugnazione concernente la liquidazione delle spese del primo grado di giudizio. Conferma il dispositivo della sentenza impugnata.

Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

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