Corte di Cassazione, sezione VI civile, sentenza 12 giugno 2017, n. 14607

L’ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si sostanzia il danno non patrimoniale per l’eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in presenza di una originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze, dato che, in questo caso, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI civile

sentenza 12 giugno 2017, n. 14607

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17295/2015 proposto da:

(OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 1000/2014 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, emessa il 17/02/2014 e depositata il 08/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in riassunzione depositato in data 24 febbraio 2011 avanti alla Corte di appello di Perugia, (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)

La Corte d’appello, con il decreto depositato l’8 luglio 2014, accertato che il giudizio presupposto era stato introdotto nel luglio 1999 (e non gia’ nel luglio 1995), ha rigettato la domanda, ritenendo di poter escludere nella specie il pregiudizio non patrimoniale normalmente conseguente al protrarsi del giudizio oltre la durata ragionevole, in considerazione della presumibile consapevolezza circa la infondatezza della pretesa azionata nel giudizio presupposto, in base all’univoco orientamento giurisprudenziale affermatosi nella Corte di Cassazione dal 2000 e scrutinato anche dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale.

Avverso tale decreto e’ stato proposto ricorso a questa Corte da taluni degli originari ricorrenti (n. 23), in epigrafe indicati, articolato su un unico motivo, cui ha replicato l’Amministrazione intimata con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La presente sentenza e’ redatta con motivazione semplificata cosi’ come disposto dal Collegio in esito alla deliberazione in Camera di consiglio.

I ricorrenti censurano con l’unico motivo, sotto il profilo della violazione di norme di diritto (L. n. 89 del 2001, articolo 2, commi 1 e 2, articolo 6, par. 1, e articolo 53 CEDU, articolo 111 Cost.), che la corte di merito abbia escluso la sussistenza del danno non patrimoniale presumendo la insussistenza ab origine di interesse al ricorso in ragione dei precedenti giurisprudenziali contrari che evidenziavano il possibile esito negativo dell’iniziativa giudiziale nonostante la medesima sentenza del TAR Lazio desse atto – con valutazioni di merito – delle numerose pronunce della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale in segno a loro sfavorevole.

Il ricorso e’ infondato.

Questa Corte ha piu’ volte affermato che l’ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si sostanzia il danno non patrimoniale per l’eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in presenza di una originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze, dato che, in questo caso, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio (cfr. Cass. n. 255095 del 2008; Cass. n. 21088 del 2005).

Cio’ e’ quanto accaduto nel caso di specie, in cui i ricorrenti hanno azionato una pretesa verso la PA, derivante da rapporti di pubblico impiego e chiedendo l’inserimento – nella base di calcolo dell’indennita’ di buonuscita – dell’indennita’ integrativa speciale nella misura del 60% di quella goduta in corso di rapporto e non nella misura dell’80% della predetta quota del 60% (come aveva provveduto l’INPDAP), con modalita’ di calcolo da sempre escluso dal Consiglio di Stato, gia’ con la decisione n. 397 del 1999, orientamento mai modificato e recepito anche dalla Corte di Cassazione, ritenuta costituzionalmente legittima la normativa che prevede tale sistema di computo nei suoi vari aspetti (dalla sentenza della Corte Cost. n. 103 del 1995 fino alla decisione n. 175 del 1997), con la conseguenza che deve concordarsi con la corte di merito che nel periodo in cui l’azione fu proposta (luglio 1995 o comunque nei tre anni successivi all’introduzione) era, in effetti, gia’ palese l’esito negativo del giudizio introdotto avanti al Giudice adito in presenza di norme che avevano previsto una diversa modalita’ di computo dell’indennita’ integrativa.

L’esito sfavorevole agli odierni ricorrenti del giudizio davanti al Tar Lazio, determinato nel senso dell’esclusione di ogni tutela di diritto sostanziale alle loro pretese, conseguente dal piano tenore della normativa invocata in ordine alla disciplina del regime del pubblico impiego quanto all’indennita’ in questione, costituisce ragione per escludere per le parti rimaste soccombenti di per se’ la tutela predisposta della L. n. 89 del 2001, articolo 2, in ipotesi di irragionevole durata del processo, dovendosi fondatamente ritenere che i predetti, introducendo il giudizio avanti al giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione abbiano insistito in giudizio nelle loro ragioni, come accertato dal giudice a quo, nella consapevolezza della infondatezza della loro pretesa, che costituiva un chiaro tentativo di forzare il dettato normativo. Ne consegue che deve ritenersi che la Corte di appello di Perugia ha correttamente motivato il rigetto della domanda di equa riparazione sul rilievo della temerarieta’ della lite azionata dai ricorrenti.

Per completezza argomentativa va osservato che la circostanza che la causa di merito sia configurabile come lite temeraria o che la parte abbia resistito al solo fine di conseguire l’equa riparazione non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, non configurandosi come fatto impeditivo la cui deduzione sia espressamente posta dalla legge a carico dell’Amministrazione, e potendo quindi essere desunta dagli elementi, anche presuntivi, ritualmente acquisiti agli atti o attinenti al notorio, i quali entrano a far parte del materiale probatorio che il giudice puo’ liberamente valutare (cfr. Cass. 8 aprile 2010 n. 8513).

Conclusivamente il ricorso va rigettato, con conseguente condanna in solido dei ricorrenti alla rifusione dei costi processuali sopportati dal Ministero intimato nella presente fase di legittimita’ e liquidati come da dispositivo.

Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame e’ considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui all’articolo 13, comma 1 quater, del testo unico approvato con il Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti in solido alla rifusione in favore del Ministero dell’economia e delle finanze delle spese processuali del giudizio di Cassazione che liquida in complessi Euro 800,00, oltre ad eventuali spese prenotate a debito.

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