SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
SENTENZA 3 marzo 2015, n. 9250
Fatto e diritto
Propone ricorso per cassazione L.G. , avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, in data 4 ottobre 2012, con la quale è stata confermata quella di primo grado, del 18 ottobre 2005, di condanna – per quanto qui d’interesse – in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale.
Tale reato gli è stato addebitato quale titolare della ditta individuale “L.G. “, che produceva sedie in stile, essendo stato, poi, egli dichiarato fallito l’I 1 novembre 1998. L’imputato è stato ritenuto colpevole di avere distratto taluni macchinari, l’avviamento “americano” (ossia la clientela degli Stati Uniti) e l’utilizzo del capannone, beni tutti ceduti – l’ultimo in locazione – alla società Refim S.r.l., senza peraltro che il controvalore corrisposto (apparentemente 270 milioni di lire sui 300 pattuiti per la cessione dell’avviamento oltre ai canoni di locazione pari a 10 milioni di lire annui), risultasse entrato nell’attivo della fallita.
Inoltre, all’imputato è stata ascritta la condotta di avere omesso di tenere il libro giornale, impedendo così l’esatta ricostruzione del movimento degli affari della impresa.
Gli sono state concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti di cui all’articolo 219 legge fallimentare.
Deduce:
1) la prescrizione del reato, da computarsi nella misura di 12 anni e sei mesi, ossia un termine scaduto all’atto della emissione la sentenza di appello;
2) la violazione di legge e il travisamento dei fatti, relativamente all’ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale.
Era stato sostenuto, in appello, che la mancata tenuta del libro giornale non configurasse l’ipotesi dolosa, dal momento che risultava regolarmente tenuto il registro Iva degli acquisti e delle vendite nonché regolarmente presentata la dichiarazione dei redditi.
In altri termini mancava la prova della finalità di creare pregiudizio ai creditori, cioè del dolo specifico del reato, atteso che la ricostruzione degli affari era stata realizzata dal curatore, sia pure in termini non precisi.
Era, al più, configurabile l’ipotesi di bancarotta semplice, in realtà prescritta nel 2002, ossia antecedentemente alla richiesta di rinvio a giudizio;
3) ad avviso del ricorrente sarebbe venuta meno l’aggravante dell’articolo 219 legge fallimentare, a seguito della sentenza di non doversi procedere pronunciata dal primo giudice (in relazione al reato di bancarotta semplice, ndr); su tale base si sarebbe dovuta riconoscere una maggior incidenza delle circostanze attenuanti generiche e dunque, per l’imputato, la possibilità di fruire dei benefici di legge;
4) il vizio della motivazione in relazione al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Tale reato era stato configurato, nella sentenza impugnata, in relazione al mancato rinvenimento del prezzo (circa 270 milioni di lire) che sarebbe stato ricevuto dall’imprenditore fallito, in cambio della cessione dell’azienda.
Tuttavia, era stato già eccepito che, così ragionando, i giudici avevano addebitato al ricorrente un fatto diverso da quello contestato che, invece, era stato calibrato sulla indebita cessione dell’azienda e non sulla sparizione del ricavato.
In altri termini, l’imputato doveva rispondere soltanto di quanto realmente contestato e cioè di una bancarotta consistita nella cessione, a titolo oneroso, dell’azienda: un fatto-reato insussistente, dal momento che quel negozio giuridico non risultava posto in discussione, quanto alla sua validità, neppure dal curatore.
Il difensore lamenta, più in particolare, che non è stata data risposta alla questione, rappresentata nei motivi d’appello, secondo cui non sarebbe stata acquisita una prova certa dell’effettivo pagamento del prezzo di 270 milioni di lire in favore del ricorrente e neppure la prova dell’effettiva cessione dell’azienda, posto che la somma in questione, rappresenterebbe il prezzo della cessione del solo avviamento americano;
5) la mancanza di prova della sussistenza di un danno capace di giustificare la provvisionale assegnata alla parte civile e, comunque, a causa della chiusura del fallimento, la mancanza di un soggetto legittimato alla riscossione del danno riconosciuto dal giudice.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
La vigente normativa in tema di computo del termine di prescrizione è entrata in vigore l’8 dicembre 2005, e cioè quando era stata già emessa la sentenza di condanna di primo grado, che è del 18 ottobre 2005.
Per tale ragione, sulla base della normativa transitoria della stessa legge, così come anche riplasmata dalla Corte costituzionale, la nuova e più favorevole normativa in tema di prescrizione non si applica al caso di specie, in virtù di un bilanciamento effettuato dal legislatore e ritenuto costituzionalmente compatibile, tra l’esistenza di una norma più favorevole nella materia de qua e l’esigenza di economia processuale e di salvaguardia del risultato probatorio già formatosi.
Basterà qui ricordare il più recente degli interventi del Supremo Consesso della Cassazione (Sez. U, Sentenza n. 15933 del 24/11/2011 Ud. (dep. 24/04/2012) Rv. 252012), secondo cui ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli.
In conclusione, la richiesta della difesa è evidentemente in contrasto con lo stato normativo come sopra specificato, essendo fondata su un calcolo del termine di prescrizione dipendente dal testo di una normativa che non si applica al caso di specie.
Infondato è anche il motivo concernente la asserita non configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta documentale.
Il ricorrente lamenta la mancata considerazione dell’essere stati tenuti, regolarmente, i registri Iva degli acquisti e delle vendite, pur in mancanza del libro giornale: una situazione che avrebbe dovuto essere valorizzata, se non dal punto di vista oggettivo, quantomeno per configurare una situazione psicologica che non poteva essere quella della finalità di determinare un pregiudizio per i creditori.
Ciò posto, deve osservarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, dal punto di vista oggettivo sussiste il reato di bancarotta fraudolenta documentale non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (Sez. 5, Sentenza n. 21588 del 19/04/2010 Ud. (dep. 07/06/2010) Rv. 247965; Conformi: N. 10423 del 2000 Rv. 218383, N. 24333 del 2005 Rv. 232212).
Dal punto di vista soggettivo, poi, è unanime la conclusione che il reato di bancarotta fraudolenta documentale, integrato nella forma della tenuta irregolare delle scritture, è a dolo generico e non specifico come sostenuto dal ricorrente.
L’integrazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui alla seconda ipotesi dell’art. 216, comma primo n. 2, L. fall., infatti, richiede il dolo generico, ossia la consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, in quanto la locuzione “in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari “connota la condotta e non la volontà dell’agente, sicché è da escludere che essa configuri il dolo specifico (Sez. 5, Sentenza n. 21872 del 25/03/2010 Ud. (dep. 08/06/2010) Rv. 247444; conformi: N. 31356 del 2001 Rv. 220167, N. 21075 del 2004 Rv. 229321, N. 46972 del 2004 Rv. 230482, N. 24328 del 2005 Rv. 232209, N. 6769 del 2006 Rv. 233997, N. 26807 del 2006 Rv. 235006, N. 1137 del 2009 Rv. 242550).
Nel caso di specie, tali principi sono sufficienti a definire le questioni poste al giudice dell’appello e riproposte, in analoghi termini, a questo giudice della legittimità. Ed infatti, si legge nella sentenza impugnata che la parte di contabilità regolarmente tenuta dall’imputato è stata soltanto quella dei registri Iva per gli acquisti e le vendite, relativamente agli anni 1997 e 1998 e quella costituita dalla dichiarazione dei redditi.
Tuttavia, essendo lo stato di insolvenza iniziato a partire dal 1992-1993, la mancanza, a partire da tali annualità, del libro giornale e, secondo quanto attestato in sentenza, la non presenza, per le stesse annualità, dei registri Iva (presenti invece soltanto “per le annualità successive” al 1996, vedi pagina 8) giustifica ampiamente, sul piano della completezza e della razionalità della motivazione, l’affermazione del giudice del merito secondo cui il curatore non è stato in grado di ricostruire il movimento degli affari con la necessaria precisione e tale caratteristica delle scritture tenute era evidentemente nota all’imputato con la conseguenza della integrazione dell’elemento soggettivo del reato.
Viceversa, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, è del tutto irrilevante che l’imputato possa avere agito senza la finalità di recare pregiudizio ai creditori, dovendosi osservare che tale scopo integrerebbe una forma di dolo specifico, il quale, tuttavia, è circoscritto, dall’articolo 216, comma 1 n. 2 prima parte, della legge fallimentare, alla sola ipotesi in cui le scritture siano state sottratte, distrutte o falsificate: con esclusione dunque della ipotesi, ricorrente nel caso di specie, di tenuta irregolare delle medesime. Per converso, la suddetta affermazione dei giudici del merito non risulta neppure specificamente censurata dal difensore del ricorrente il quale allega del tutto genericamente, la presenza dei registri Iva per gli anni sopraindicati, senza invece indicare in quali termini e per quali concrete ragioni, la corretta tenuta dei registri Iva avrebbe potuto tenere luogo, ai fini ricostruttivi della contabilità, delle annotazioni, con partita doppia, che avrebbero dovuto costituire il contenuto del libro giornale.
Manifestamente infondato il terzo motivo di ricorso, atteso che la circostanza aggravante dell’articolo 219 legge fallimentare ha trovato operatività anche soltanto in ragione della ritenuta concorrenza fra il fatto-reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e quello di bancarotta fraudolenta documentale, entrambi ascritti all’imputato.
È poi da respingere il quarto motivo di ricorso.
Non si apprezza alcuna violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza. È stata, infatti, contestata, nel capo di imputazione, la distrazione in relazione alla avvenuta cessione, alla società Refim, di macchinari, di un ramo d’azienda e, infine, della materiale disponibilità di un capannone, senza che, tale cessione, abbia comportato un corrispondente ed effettivo introito di somme, a titolo di corrispettivo, nelle casse della società. Si tratta, all’evidenza, di una contestazione che conteneva la duplice prospettiva di una distrazione avente ad oggetto beni ceduti con vendita simulata- come poi affermato dai giudici a pagina sette della sentenza impugnata- ovvero, nel caso fosse emersa una vendita non simulata, del corrispettivo delle cessioni medesime.
I giudici, come detto, hanno accreditato la prima delle possibili ricostruzioni, contenuta nel capo d’imputazione, con la conseguenza della manifesta insussistenza della violazione di cui all’articolo 522 cpp.
Quanto alla motivazione esibita a sostegno della affermata responsabilità per tale fatto-reato, il giudice a quo ha fatto applicazione del principio, condiviso dalla costante giurisprudenza secondo, in materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la presunzione di distrazione del bene può essere fondata sul rilievo che, in epoca anteriore e prossima al fallimento, la società avesse avuto il possesso di determinati beni, non rinvenuti all’atto della redazione dell’inventario. Viceversa, è l’imprenditore ad essere gravato, in presenza delle suddette condizioni, dell’onere di provare la concreta destinazione data ai beni, in conformità con gli interessi della società.
Nel caso in esame, proprio tale situazione si è verificata, posto che, da un lato i giudici hanno dato atto della sicura presenza dei beni sopra descritti, del patrimonio della società, in epoca prossima al fallimento e, dall’altro, gli stessi giudici hanno valorizzato la assenza di prova, proveniente dall’imputato, a proposito della destinazione impressa ai beni oppure al ricavato dalla loro cessione, in senso funzionale rispetto alle strategie di impresa.
Manifestamente infondato è l’ultimo motivo di ricorso posto che è costante la giurisprudenza di legittimità che osserva come non sia ammesso ricorso per cassazione in tema di riconoscimento della condanna ad una provvisionale immediatamente esecutiva. Esso costituisce un provvedimento per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere costituito dall’integrale risarcimento: il medesimo pertanto non è impugnabile per Cassazione. (Sez. 4, Sentenza n. 34791 del 23/06/2010 Ud. (dep. 27/09/2010 ) Rv. 248348; Conformi: N. 9266 del 1994 Rv. 199072, N. 6727 del 1995 Rv. 201775, N. 11984 del 1997 Rv. 209501, N. 4973 del 2000 Rv. 215770, N. 7031 del 2003 Rv. 223657, N. 36536 del 2003 Rv. 226454, N. 36760 del 2004 Rv. 230271, N. 40410 del 2004 Rv. 230105, N. 5001 del 2007 Rv. 236068).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
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