Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 22 marzo 2016, n. 12186

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAVANI Piero – Presidente

Dott. CATENA Rossella – Consigliere

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere

Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI ROMA;

nei confronti di:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 16/2013 TRIB.SEZ.DIST. di ALBANO LAZIALE, del 14/04/2015;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 22/12/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA FIDANZIA;

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Dott.ssa Filippi Paola, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Per il ricorrente, l’avv. Sallustri Emilio chiede l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14.4.2015 il Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, ha dichiarato l’inammissibilita’ per ritenuta tardivita’ dell’atto di impugnazione proposto il 18.4.2013 dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma nei confronti di (OMISSIS).

2. Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione affidandolo ad un unico motivo.

2.1. Viene dedotta l’erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicita’ della motivazione.

Lamenta il Procuratore ricorrente che il Tribunale di Velletri non ha considerato che il termine di 30 per l’impugnazione decorre dalla lettura in udienza della sentenza solo per le parti che in quel momento sono presenti o devono considerarsi presenti nel processo.

Poiche’ la Procura Generale della Corte d’Appello non partecipa al giudizio di primo grado (salva l’avocazione), il termine per impugnare dovra’ necessariamente decorrere in questo caso dal momento in cui detto ufficio avra’ ricevuto copia della sentenza ai fini dell’apposizione del prescritto “visto”.

Nel caso di specie, la Procura Generale ha ricevuto la sentenza del 11.3.2013 in data 11.4.2013, cioe’ il giorno dopo rispetto a quello in cui, secondo la sentenza impugnata, sarebbe scaduto il termine per proporre impugnazione.

Ne discende la tempestivita’ dell’impugnazione proposta e l’illegittimita’ della decisione di inammissibilita’ della stessa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va osservato che il Tribunale di Velletri ha dichiarato inammissibile, per ritenuta tardivita’, l’atto di impugnazione proposto il 18.4.2013 dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma, senza effettivamente considerare che il termine di trenta giorni per l’impugnazione decorre dalla lettura in udienza della sentenza solo per le parti che in quel momento sono presenti o devono considerarsi presenti nel processo, a norma dell’articolo 585 c.p.p., comma 2, lettera b).

Dato che la Procura Generale della Corte d’Appello non partecipa al giudizio di primo grado (salva l’avocazione), il termine per impugnare decorre per tale ufficio dal momento in cui riceve copia della sentenza di primo grado ai fini dell’apposizione del prescritto “visto”.

Nel caso di specie, la Procura Generale di Roma ha ricevuto la sentenza del 11.3.2013 solo in data 11.4.2013, con la conseguenza che l’impugnazione, depositata in data 18 aprile 2013, e’ stata tempestiva.

Ne consegue che la sentenza del Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, deve essere annullata senza rinvio.

Va peraltro osservato che, in base al Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 36, nei giudizi davanti al Giudice di Pace il Pubblico Ministero puo’ proporre appello solo contro le sentenze di condanna che applicano una pena diversa da quella pecuniaria. Le altre sentenze (comprese quelle di non doversi procedere per intervenuta remissione di querela) sono solo ricorribili per Cassazione. Peraltro, l’atto di impugnazione presentato il 18.4.2013 dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma puo’ essere comunque qualificato come ricorso per cassazione, atteso che la pubblica accusa lo aveva proposto allo scopo esclusivo di far rilevare una violazione di legge in cui sarebbe incorso il Giudice di Pace, e, segnatamente per far valere l’erronea applicazione dell’articolo 152 c.p. in tema di remissione della querela.

A tal proposito, in tema di conversione dell’impugnazione, l’appello erroneamente proposto avverso la sentenza del Giudice di Pace che non sia di condanna a pena detentiva puo’ convertirsi in ricorso per cassazione ove, avuto riguardo alle reali intenzioni dell’impugnante ed all’effettivo contenuto dell’atto di gravame, puo’ ragionevolmente ritenersi che lo stesso impugnante avesse inteso sollevare ed ha effettivamente formulato solo censure di legittimita’ e non di merito. (vedi a contrariis, Sez. 5, n. 8104 del 25/01/2007 – dep. 27/02/2007, Parma, Rv. 236521).

Deve, a questo punto, esaminarsi la questione oggetto dell’atto di impugnazione del 18 aprile 2013 del P.G. presso la Corte d’Appello di Roma.

In proposito, la Pubblica Accusa aveva lamentato che il Giudice di Pace di Albano Laziale, stante l’assenza all’udienza del 24.9.2012 della persona offesa, aveva rinviato ad altra udienza, disponendo che la stessa fosse specificamente avvisata che, non comparendo, la sua assenza sarebbe stata interpretata come remissione tacita di querela, e, alla successiva udienza del 11.3.2013, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per remissione tacita di querela in considerazione della perdurante assenza della persona offesa.

In ordine a tale questione giuridica, ritiene questo Collegio che debba essere ripensata l’interpretazione giurisprudenziale, avvalorata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 46088/2008, in base alla quale nel procedimento davanti al Giudice di Pace instaurato a seguito di citazione disposta dal Pubblico Ministero, Decreto Legislativo n. 274 del 2000, ex articolo 20, la mancata comparizione del querelante – pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela – non costituisca fatto incompatibile con la volonta’ di persistere nella stessa, si’ da integrare la remissione tacita, ai sensi dell’articolo 152 c.p., comma 2.

Spunti di riflessione ulteriori sono stati forniti dalla recente decisione delle Sezioni Unite, secondo la quale, nel procedimento davanti al Giudice di Pace, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, ritualmente citata ancorche’ irreperibile, non e’ di per se’ di ostacolo alla dichiarazione di particolare tenuita’ del fatto, in quanto l’opposizione, prevista come condizione ostativa dal Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, articolo 34, comma 3, deve essere necessariamente espressa e non puo’ essere desunta da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volonta’ in tal senso (Sez. U, n. 43264 del 16/07/2015, P.G. in proc. Steger, Rv. 264547).

In tale pronunzia, nell’escludere che il principio di diritto appena riportato possa “collidere con quanto affermato da Sez. U, n. 46088 del 2008, Viele, cit.”, si e’ affermato che l’interpretazione cui e’ approdata tale sentenza appare improntata “a estremo rigore nella definizione della nozione di remissione extraprocessuale della querela, in una ipotesi di esplicito avvertimento del giudice circa le conseguenze di una mancata partecipazione al dibattimento”.

Va osservato che dalla lettura della sentenza n. 46088/2008 del Supremo Collegio emerge che il motivo per cui tale pronuncia non ha inteso attribuire il significato di remissione tacita di querela alla mancata comparizione in udienza del querelante, previamente avvisato che la sua assenza avrebbe assunto quella valenza, si fonda sul rilievo che “quel comportamento omissivo del querelante realizzerebbe pur sempre una (inammissibile) remissione tacita processuale”, aderendo quindi a quell’orientamento interpretativo che escludeva che la fattispecie in esame integrasse gli estremi della remissione tacita di cui all’articolo 152 cod. pen., essendo “prevista solo con riguardo alla remissione extraprocessuale, con la conseguenza che un comportamento processuale non puo’ costituire espressione dell’intento di remissione dell’istanza punitiva” (Sez. 5, n. 12861/2005 espressamente richiamata dalla S.U. n. 46088/2008).

La sentenza delle S.U. n. 46088/2008, nell’affermare tale principio, richiamava altresi’ quanto sostenuto dalla sez 5 n. 8372/2000, Di Piazza, secondo cui il giudice, ove attribuisse alla mancata comparizione della persona offesa, all’uopo specificamente avvisata, il significato giuridico della remissione tacita di querela, porrebbe “a carico (della parte) l’onere processuale della comparizione, la cui inottemperanza avrebbe determinato l’improcedibilita’ dell’azione penale, attraverso la fictio iuris di una remissione tacita, ricollegando conseguenze non previste dalla legge all’inottemperanza di un onere anch’esso non previsto dalla legge tenuto conto che e’ un principio generale dell’ordinamento processuale che gli oneri processuali a carico delle parti devono avere una fonte legale, anche quando derivano da un provvedimento del giudice” (principio peraltro ribadito dalle piu’ recenti Cass. sez. 4 n. 18187 del 28/93/2013, Rv 255231; vedi in parte motiva sez. 2 n. 44709 del 29/10/2009, Rv. 245632; sez 2 n. 31987 del 15.7.2015 non mass.; sez 4 n. 1013/16 del 10.12.2015 non mass.).

Ad avviso di questo Collegio, il presupposto da cui sembra trarre origine il ragionamento delle S.U. 2008, nonche’ delle sentenze che il Supremo Collegio ha richiamato (argomento ripreso da quelle successive), e’ che la mancata comparizione della persona offesa, nella fattispecie in esame, costituirebbe sempre e comunque una condotta di natura processuale, posta in essere quindi da un soggetto che riveste la qualita’ di “parte”, al cui comportamento omissivo, non puo’, tuttavia, attribuirsi alcun significato giuridico se non nella fattispecie “eccezionale” prevista al Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 30, comma 1. Diversamente, si consentirebbe al giudice, in mancanza di una espressa previsione normativa, di fissare e predeterminare egli stesso una specifica condotta che debba poi essere ineluttabilmente interpretata come abbandono della pretesa punitiva.

Secondo questo Collegio, invece, ad eccezione della fattispecie contemplata dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articoli 21 e ss. (ricorso immediato al giudice della persona offesa), nonche’ della diversa ipotesi (estranea al caso in esame) in cui la persona offesa si sia costituita anche parte civile, la stessa non assume la qualita’ di “parte” nel processo penale. Ne consegue che il comportamento non puo’ ritenersi avere natura “processuale” in senso tecnico, collocandosi quindi al di fuori del processo.

Va, in proposito, osservato che occorre distinguere tra i “soggetti” del procedimento penale elencati nel primo libro del codice di rito, tra cui rientrano il giudice, il pubblico ministero, la polizia giudiziaria, l’imputato, la parte civile, il civilmente responsabile per la pena pecuniaria, la persona offesa – dalle “parti” del processo.

Il concetto di “parte” e’ tradizionalmente collegato a quello di “azione”, con la conseguenza che sono soggetti attivi dell’azione penale coloro ai quali l’ordinamento attribuisce il diritto di esercitare l’azione penale – ovviamente il P.M. – o che sono comunque abilitati al compimento di un altro atto che instaura un procedimento speciale.

L’istituto del ricorso immediato al giudice di cui al Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articoli 21 e ss. si colloca proprio in questa seconda ipotesi.

La persona offesa e’, infatti, in questa fattispecie titolare del potere di instaurare il procedimento davanti al Giudice di Pace con lo strumento del ricorso, citando a giudizio colui al quale il reato e’ attribuito, e, ove tale ricorso non sia dichiarato inammissibile o manifestamente infondato dal giudice a norma dell’articolo 26 legge cit., a seguito del decreto di convocazione delle parti a norma dell’articolo 27, la stessa persona offesa ha un potere di impulso processuale, dovendo il decreto, unitamente al ricorso, essere notificato al pubblico ministero, alla persona citata in giudizio e al suo difensore “a cura del ricorrente”.

In questa specifica ipotesi non si dubita che la persona offesa, nel procedimento che viene ad instaurarsi, sia “parte processuale in senso tecnico” proprio in quanto “ricorrente”.

Nella diversa ipotesi, invece, in cui lo svolgimento del giudizio davanti al giudice di pace avvenga a seguito della presentazione immediata a norma degli articoli 20, 20 bis e 20 ter legge cit., la persona offesa non e’ parte processuale in senso tecnico – nonostante l’articolo 29, comma 4 disponga che” il giudice quando il reato e’ perseguibile a querela, promuove la conciliazione delle parti” – tanto e’ vero che l’effetto processuale della improcedibilita’ del ricorso e’ previsto, non a caso, a norma dell’articolo 30, comma 1, solo nel procedimento ex articolo 21 ed in caso di mancata comparizione all’udienza del “ricorrente” o del suo procuratore speciale. Nell’eventualita’ di citazione a giudizio dell’imputato da parte del Pubblico Ministero, la persona offesa mantiene la veste di semplice “soggetto”.

In proposito, deve ritenersi che il legislatore, nell’utilizzare l’espressione “conciliazione tra le parti” nel citato articolo 29, abbia solo voluto rimarcare lo “spirito conciliativo” che deve muovere i comportamenti dei soggetti privati interessati dal processo penale in situazioni di indubbia minor gravita’, che non destano allarme sociale, in cui la “conciliazione” rappresenta, anche in conformita’ al principio di ragionevole durata del processo, sempre il miglior sistema di composizione degli interessi.

Ne’ puo’ conferirsi alla persona offesa la qualita’ di “parte” solo perche’ l’articolo 34 legge cit. richiede, ai fini della declaratoria d’improcedibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, la “non opposizione” della stessa. Anche in relazione a tale ipotesi, l’attribuzione di tale prerogativa alla persona offesa si giustifica con “la natura eminentemente conciliativa della giurisdizione di pace che da’ risalto peculiare alla posizione dell’offeso del reato, tanto da attribuirgli nei reati procedibili a querela un (singolare) potere di iniziativa nella vocatio in ius (Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 21)” (vedi sul punto S.U. n. 43264/2015).

Peraltro, in questa fattispecie, la condotta della persona offesa (secondo la condivisibile interpretazione del Supremo Collegio in composizione unitaria nella sentenza sopra citata) rileva nel senso che la sua mancata comparizione non puo’ essere interpretata come opposizione ex articolo 34 legge cit., ma e’ comunque priva di una connotazione processuale in senso stretto, non essendo la persona offesa, se non costituita parte civile, parte di quel processo penale.

D’altra parte, che il legislatore, quando ha introdotto la disciplina del giudizio davanti al Giudice di Pace, non volesse affatto, nel contesto di cui all’articolo 29, utilizzare l’espressione “parte” con il significato di “parte processuale” emerge inequivocabilmente dall’esame del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 35.

Tale norma, nel disciplinare l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, dispone che il giudice di pace deve sentire “le parti” e “l’eventuale persona offesa”, cosi’ inequivocabilmente manifestando l’intendimento di non voler attribuire automaticamente alla persona offesa, seppur nel piu’ limitato e peculiare contesto del giudizio davanti al giudice di pace, la veste di parte processuale.

Osservato, quindi, che anche nel giudizio davanti al giudice di pace la persona offesa non e’ parte in senso tecnico, se non nell’ipotesi tassativa di cui all’articolo 21 legge cit., a maggior ragione, cio’ deve escludersi nel giudizio ordinario innanzi al giudice monocratico del Tribunale, nell’ambito del quale il legislatore, se, in ossequio allo stesso spirito conciliativo sopra evidenziato, ha previsto che il giudice, quando il reato e’ perseguibile a querela, debba verificare se il querelante sia disposto a rimettere la querela (ed il querelante disposto ad accettare la remissione), non ha neppure utilizzato l’espressione “conciliazione delle parti”.

In questi termini, va segnalata un’ordinanza di questa Corte (sez. 6 n. 39203 del 05/07/2005, Rv. 232516; conf. Sez. 6, n. 48494 del 12/12/2008, Rv. 242149) secondo cui “la dichiarazione di ricusazione puo’ essere proposta esclusivamente dalle “parti” (articolo 37 cod. proc. pen.), tra le quali non si pone la parte offesa dal reato che tale qualifica non riveste in senso tecnico”, nonostante il nostro codice di rito riconosca alla stessa diritti e prerogative non certo risibili (articoli 90, 101, 340 e 369 c.p.p. etc.).

Va altresi’ osservato che la stessa sentenza delle S.U. n. 46088/08 ha messo in luce che “nel caso di ricorso immediato al giudice da parte della persona offesa-querelante, questa assume iniziative di impulso non solo genericamente procedimentali, ma anche specificamente processuali, ed il venir meno dell’impulso processuale da parte di chi, per sua diretta iniziativa, geneticamente lo ha posto in essere, e, nondimeno, non intenda piu’ coltivarlo, giustifica appieno la conseguente improcedibilita’ dell’azione penale, non sussistendo piu’ alcun interesse, ne’ da parte dello Stato, ne’ da parte della persona offesa-querelante all’ulteriore proseguimento del processo”.

Peraltro, in ossequio al principio di “responsabilita’”, deve ritenersi che non solo nel ricorso immediato al giudice Decreto Legislativo n. 274 del 2000, ex articolo 21, ma anche in tutte le altre ipotesi in cui la persona offesa non sia piu’ interessata alla punizione del querelato, “non puo’ ammettersi che la pretesa punitiva dello Stato venga, costosamente, perseguita nonostante la mancanza della persistente volonta’ di colui il quale ha dato vita alla condizione da cui la legge fa dipendere la nascita di detta pretesa” (in questi termini sez. 5 n. 14063 del 19.3.2008, Rv 239439).

Se nella fattispecie peculiare ex articolo 21 legge citata e’ stato lo stesso legislatore a disciplinare specificamente la modalita’ attraverso cui la parte offesa “ricorrente” puo’ manifestare la volonta’ di rimettere la querela (non comparendo all’udienza di comparizione ex articolo 29), nelle altre ipotesi in cui la persona offesa non e’ parte processuale e persista nell’atteggiamento di voler rimanere lontana dal processo, e’ il giudice, secondo il proprio prudente apprezzamento, a dover accertare se tale comportamento sia o meno manifestazione della volonta’ di ritirare la propria istanza punitiva. La formula usata dall’articolo 152 c.p. e’ molto ampia, ricorrendo remissione tacita di querela “quando il querelante ha compiuto fatti incompatibili con la volonta’ di persistere nella querela”, ed in tale contesto il giudice, nell’indagare la volonta’ della persona offesa- querelante e nell’interpretarne il significato, non e’ vincolato a schemi predefiniti e puo’ quindi, proprio in virtu’ del principio di responsabilita’ sopra enunciato, invitare tale soggetto a riflettere in ordine alla sua persistente volonta’ punitiva con un avviso specifico (nel senso che la sua eventuale ulteriore mancata comparizione in giudizio sara’ interpretata come remissione tacita di querela) e trarre quindi le conseguenze del suo successivo atteggiamento.

Ove la persona offesa, consapevole degli effetti che il giudice intende trarre dalla sua eventuale persistente “inerzia”, decida di rimanere comunque lontana dal processo, non puo’ dubitarsi che tale comportamento o manifestazione si realizzi al di fuori del processo.

Tale disinteresse non costituisce un comportamento “processuale”, provenendo da un soggetto che del processo non e’ mai stato parte, ne’, proprio in ragione della sua inerzia, con quel processo e’ neppure mai venuto a contatto (oltre, ovviamente, alla notifica della citazione), se non attraverso la sollecitazione formulatagli dal giudice a chiarimento.

Ne’ puo’ condividersi l’opinione espressa dalle S.U. 2008, secondo cui la remissione tacita di cui si discute avrebbe altresi’ natura processuale perche’ “quella inerzia e quel disinteresse al processo si realizzano solo, quale fatto avente rilevanza esterna, con la mancata partecipazione all’udienza, rilevando nei suoi effetti reali e concreti, non prima o al di fuori, ma solo nel processo”.

Orbene, la mancata comparizione al processo, conseguente allo specifico avviso del giudice, non e’ che un parametro interpretativo, e’ un elemento di prova da cui il giudice trae il convincimento dell’inequivocabile volonta’ della persona offesa di rimettere la querela (in questi termini Cass. sez 5 n. 14063/2008 cit., che ha ben colto la necessita’ di distinguere ” il piano “probatorio” da quello sostantivo o formale della remissione”, rilevando che “l’invito del giudice non ha altra funzione che quella di sollecitare un chiarimento al fine del perfezionamento della prova di fatti dai quali pur sempre dipende l’applicazione di norme, sostanziali e processuali”).

Attribuire alla mancata comparizione natura “processuale” vorrebbe dire far coincidere il “perfezionamento” del ritiro della pretesa punitiva con tale condotta omissiva, il che non e’, non essendo che un indice, seppur inequivocabile, di una decisione presa a monte dalla persona offesa. La mancata partecipazione al processo e’ solo il momento in cui il giudice, nel suo libero convincimento, ritiene integrata “la prova” dell’abbandono della pretesa punitiva.

In ordine all’argomentazione del Supremo Collegio sopra citato, secondo cui gli effetti della mancata partecipazione del querelante rilevano comunque nel processo, va osservato che in ogni ipotesi di remissione tacita extraprocessuale ex articolo 152 c.p., e’ sempre il giudice che, nella formazione del suo convincimento, deve interpretare se un determinato fatto sia o meno incompatibile con la volonta’ di persistere nella querela, con la conseguenza che, sebbene quel fatto sia stato compiuto fuori dal processo, e’ necessariamente solo nel processo che il giudice ne valuta gli effetti.

Va, inoltre, osservato che non devono sorgere timori che con la suddetta interpretazione si possano restringere gli ambiti di tutela della persona offesa.

In primo luogo, l’istituto della remissione extraprocessuale tacita non viene in considerazione nelle situazioni piu’ delicate in cui lo stesso legislatore si e’ preoccupato di prevedere maggiori cautele a favore delle c.d. parti deboli, stabilendo, ad esempio, l’irrevocabilita’ della remissione di querela, a norma dell’articolo 609 septies c.p., nei reati sessuali e nella fattispecie aggravata degli atti persecutori o la remissione processuale (e quindi solo espressa) nella ipotesi semplice dello stalking.

E’ evidente che se l’istituto della remissione extraprocessuale tacita e’ stato introdotto nel nostro ordinamento e’ perche’, nei reati perseguibili a querela, si e’ riscontrato che puo’ accadere che i soggetti interessati (querelante, imputato) trovino una soluzione alternativa al processo o lo stesso querelante, a distanza di tempo, non sia piu’ interessato alla punizione del presunto colpevole.

e’ frequente, infatti, nonche’ logico e conforme all’id quod plerumque accidit, che il persistente disinteresse manifestato dal querelante rispetto alla vicenda processuale sia la conseguenza della tacitazione di ogni pretesa nei confronti di colui al quale e’ attribuito il fatto o semplicemente della volonta’ di chiudere un capitolo della propria esistenza.

In tale contesto, la prosecuzione del processo si porrebbe in contrasto sia con ragioni di economia processuale che con l’interesse dello stesso querelante.

E’ indispensabile, comunque, che non possa sorgere alcun equivoco e, a tal fine, il giudice, per accertare se la mancata comparizione del querelante – previamente ed espressamente avvisato che l’eventuale successiva assenza sara’ interpretata come abbandono dell’istanza di punizione – integri o meno gli estremi della remissione tacita, deve verificare con estremo rigore che la persona offesa- querelante abbia personalmente ricevuto detto avviso, che non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla induca a dubitare che si tratti di perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta (in tal senso la gia’ citata sez. 5 n. 14063 del 19.03.2008).

Alla luce di quanto sopra illustrato, si condivide pienamente l’inciso, contenuto nella sentenza Sez. U, n. 43264 del 16/07/2015, P.G. in proc. Steger, Rv. 264547, secondo cui l’interpretazione cui e’ approdata la sentenza delle S.U. 2008 sia stata improntata ” ad estremo rigore nella definizione di remissione extraprocessuale della querela”, avendo, ad avviso di questo Collegio, ricondotto all’interno della categoria della remissione di querela tacita processuale (come tale inammissibile ex articolo 152 c.p., comma 2) un’ipotesi inquadrabile invece nella remissione tacita extraprocessuale, non considerata, invece, tale dalle S.U. 2008 sul rilievo che la mancata partecipazione costituisse un comportamento di natura processuale ed assumesse comunque rilevanza nel processo.

Va, peraltro, segnalata una recente pronuncia in cui questa Corte ha ritenuto di rinvenire gli estremi della remissione tacita extraprocessuale in una fattispecie in cui la persona offesa aveva negoziato l’assegno consegnatole a titolo di risarcimento del danno e si era resa irreperibile, cosi’ da mostrare il suo disinteresse al prosieguo del processo, non presentandosi alle udienze, benche’ avvertita che la sua mancata presentazione sarebbe stata considerata remissione tacita di querela). (Sez. 4, n. 4059 del 12/12/2013 – dep. 29/01/2014, P.G. in proc. Lussana, Rv. 258437).

In quella fattispecie, questa Corte ha ritenuto che venisse in rilievo una situazione diversa da quella su cui e’ intervenuto il supremo collegio nel 2008 “stante la presenza anche di risultanze extraprocessuali, quali l’avere la persona offesa negoziato l’assegno consegnatole a titolo di risarcimento del danno e la sua irreperibilita’, tali da dimostrare il disinteresse al prosieguo del procedimento”.

Tuttavia, costituisce principio consolidato del nostro ordinamento che non puo’ attribuirsi il significato di remissione tacita di querela non soltanto alla mancata costituzione o alla revoca della costituzione di parte civile (sez 5, 28.11.1997 n. 1452, Rv 209758; sez 6, 15.1.2003 n. 7759 Rv 224075), ma altresi’ alla transazione del danno o alla accettazione, da parte del danneggiato, di quanto dal reo gli era dovuto (sez 4 18.1.1990 n. 6025, Rv. 184143; sez 5 17.10.2007 n. 43072, Rv. 238501; sez F 29.8.2013 n. 39184 Rv. 257019). Dunque, anche in quell’ipotesi, cio’ che ha verosimilmente assunto rilevanza al fine di accertare la volonta’ della persona offesa di ritirare la propria pretesa punitiva e’ stato l’avvertimento che la persistente inerzia sarebbe stata interpretata come remissione tacita di querela.

Alla luce delle argomentazioni sopra illustrate, puo’ dunque affermarsi il seguente principio di diritto: “la mancata comparizione del querelante – previamente ed espressamente avvisato che l’eventuale successiva assenza sara’ interpretata come abbandono dell’istanza di punizione – integra gli estremi della remissione tacita extraprocessuale, trattandosi di condotta (omissiva) posta in essere da un soggetto che non riveste la qualita’ di “parte in senso tecnico” ed alla cui inerzia non puo’ attribuirsi alcuna connotazione di natura “processuale”, costituendo soltanto il momento in cui il giudice, nel suo libero convincimento, ritiene integrata la “prova” di una decisione presa a “monte”. A tal fine, il giudice deve verificare con estremo rigore che la persona offesa- querelante abbia personalmente ricevuto detto avviso, che non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla induca a dubitare che si tratti di perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta”.

L’accoglimento da parte di questo Collegio dell’impostazione giuridica del giudice di pace di Albano Laziale comporta il rigetto dell’atto di impugnazione del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza del Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, del 14.4.2015 e, qualificato come ricorso per cassazione l’atto di impugnazione presentato il 18.4.2013 dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma avverso la sentenza del Giudice di Pace di Albano Laziale del 11.3.2013, lo rigetta.

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