Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema CORTE DI CASSAZIONE

sezione V

SENTENZA 2 luglio 2014, n. 28506

Ritenuto in fatto

 1. La Corte d’appello di Torino, con sentenza del 14/12/2012, riformando parzialmente, in punto di pena, quella emessa dal locale Tribunale, all’esito di giudizio abbreviato, ha condannato G.D. , V.M. e C.G. per lesioni gravissime – con le aggravanti del numero delle persone e dei futili motivi – in danno di N.A. , oltre al risarcimento del danno patito da quest’ultimo, costituitosi parte civile.

Agli imputati è contestato di aver colpito con calci, pugni e uno strumento da taglio – che procurava alla persona offesa lo sfregio permanente del viso – il N. , all’uscita da una discoteca, per punirlo delle attenzioni mostrate, durante la serata, verso una ragazza del gruppo di cui gli imputati facevano parte (quello dei skinhead o redskin). Alla base della decisione vi sono le dichiarazioni della persona offesa, di Ch.An. e M.O. (amici dell’offeso), di B.P.C. (amica dell’imputato C. ) e di vari altri testi, nonché accertamenti di polizia.

2. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione, personalmente o mezzo del difensore, gli imputati G.D. e C.G. .

2.1. G.D. ricorre a mezzo dell’avv. Claudio Novaro e censura la sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione, con riguardo sia il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 116 cod. pen., sia al riconoscimento – a carico dell’imputato – dell’aggravante dei futili motivi.

Sotto il primo profilo si duole della mancata dimostrazione della prevedibilità – da parte di G. – del reato più grave commesso dai complici in concreto; sotto il secondo profilo, della illogicità della motivazione concernente l’aggravante dell’art. 61, n. 1, cod. pen., ritenuta sussistente nonostante l’accertamento che N. aveva ‘importunato’, nel corso della serata, una ragazza del gruppo.

2.2. C.G. ricorre con unico motivo e contesta la logicità della motivazione con cui è stata affermata la sua partecipazione all’aggressione.

Lamenta che la sua responsabilità sia stata affermata sulla base delle dichiarazioni di un solo teste (B.P.C. ) – che ha parlato della sua presenza in loco e non lo ha collocato nel contesto dell’aggressione – e in assenza di ulteriori elementi di riscontro o di conferma. Lamenta che sia stato valorizzato, a suo carico, il silenzio serbato nel corso del processo e che sia contraddittoria la motivazione relativa al trattamento sanzionatorio.

 Considerato in diritto

 Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati.

1. Il primo motivo di G.D. concerne la diminuente di cui all’art. 116, comma 2, cod. pen., che ricorrerebbe, a suo giudizio, per il fatto che non era prevedibile, da parte sua, l’uso di un’arma da taglio (o, comunque, di uno strumento acuminato) da parte di un concorrente nel reato di lesioni (i giudici di primo e secondo grado hanno escluso la diminuente per il fatto che l’uso di un’arma da taglio, e le conseguenti gravissime lesioni, era circostanza prevedibile ed accettata dai partecipanti all’aggressione).

1.1. Premesso che l’art. 116 cod. pen. disciplina l’ipotesi in cui il reato effettivamente commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti (il che avviene allorché l’evento realizzato sia effettivamente diverso da quello voluto dai complici. Per ‘reato diverso’ si intende quello avente un differente nomen juris), va subito chiarito che non costituisce ‘reato diverso’ quello circostanziato, trovando in questo caso applicazione gli artt. 59, 70, 110 e 118 cod. pen.. Sulla scorta della relazione al Codice, la prevalente dottrina e la quasi totalità della giurisprudenza (Cass., sez. IV, 20/5/1959, Pubblico Ministero e. Pastelli; Cass., sez. II, 2/4/1963, Privitera; Cass., sez. I, 6/6/1977, Esposito; Cass., n. 3952 del 18/2/1992) ritengono che l’art. 583 cod. pen. contempli una serie di circostanze aggravanti (ad effetto speciale) delle lesioni semplici, e non già autonome figure di reato. Pertanto, in caso di lesioni volontarie aggravate, non è applicabile a chi volle le lesioni semplici la diminuente del concorso anomalo di cui all’art. 116 cod. pen. (il quale stabilisce che se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave), in quanto l’evento verificatosi si configura non già come reato ‘diverso’ e più grave di quello voluto, bensì come reato ‘aggravato’, cioè come circostanza aggravante.

1.2. La normativa che viene in considerazione è, quindi, quella di cui all’art. 59, secondo comma, cod. pen., a mente del quale, a seguito della riforma introdotta con legge 7 febbraio 1990, n. 19, ‘le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa’. Tale norma viene generalmente interpretata, dalla dottrina e giurisprudenza maggioritarie, nel senso che per l’imputabilità delle circostanze aggravanti è sufficiente, come requisito minimo, la colpa, non dovendosi differenziare tra colpa e dolo a secondo della natura del reato (come avviene, invece, per gli elementi costitutivi del reato). In base a tale impostazione, una circostanza che sia solo conoscibile (anche se non prevista in concreto) dal soggetto agente potrà accedere ad un reato di natura colposa o dolosa (Cass., sez. VI, 2164 del 6/12/1994, Imerti; Cass., sez. VI, 16/1/1999, Gottardo; Cass., sez. II, 31/1/2006, Matassa).

1.3. Venendo al caso concreto, agli imputati è contestato di avere procurato alla vittima – con l’uso di uno strumento da taglio da parte di taluno dei concorrenti nel reato – una lesione gravissima (lo sfregio permanente del viso), che rappresenta una circostanza aggravante delle lesioni semplici. È in relazione a detta circostanza che va indagato il criterio di imputazione soggettiva applicato dai giudicanti.

Orbene, nel reato di lesioni volontarie la previsione o la prevedibilità dell’evento integrante una delle circostanze aggravanti di cui all’art. 583 cod. pen. (e, conseguentemente, la valutabilità della stessa a carico dell’agente, ai sensi del disposto dell’art. 59 comma secondo cod. pen.), deve ritenersi sussistere quando la condotta dell’agente (qualità del mezzo adoperato; direzione, violenza e reiterazione dei colpi; numero dei partecipanti all’aggressione) di per sé riveli l’intenzione di arrecare notevole danno (Cass., n. 3952 del 18/2/1992).

Costituisce dato di esperienza, invero, quello per cui l’aggressione portata contro una persona è idonea a produrre conseguenze diverse a seconda del modo di attuazione, potendo variare dalle lesioni minime (contusioni, escoriazioni, abrasioni, ecc.) a quelle massime, rappresentate dalle aggravanti dell’art. 583 cod. pen.. È solo indagando le modalità di svolgimento della condotta che è possibile risalire alla direzione della volontà, giacché solo esaminando, in concreto, il comportamento dell’agente è possibile comprendere quale evento fosse compreso nel fuoco della volontà.

Tale impostazione, come ribadito, già molti anni fa, dal Giudice delle leggi, è perfettamente in linea col principio costituzionale della responsabilità colpevole (art. 27 della Costituzione), giacché, “per la sussistenza del delitto di lesione (art. 582 c.p.), occorre, oltre il rapporto di causalità materiale, voluto dall’art. 40 del codice penale, anche il rapporto di causalità psicologica, e cioè la coscienza e la volontà di recare un danno nel corpo alla persona offesa. Tale nesso psicologico non è interrotto se dall’azione dolosa derivano le conseguenze previste nell’articolo 583 del codice penale. L’esatta previsione della quantità del danno, incerta in quasi tutti i reati, è particolarmente difficile in quello di lesioni e non rileva, ai fini dell’art. 27 della Costituzione, che il colpevole, nel momento in cui ferisce, si rappresenti, o meno, tutti i possibili effetti della sua violenza. Potrà, eventualmente, il legislatore, nel suo discrezionale apprezzamento, ripristinare la norma del codice Zanardelli, estendendo la preterintenzione al delitto di lesioni” (C.C., n. 6 del 19/1/1972). Nel giudicare infondata la questione sollevata dal giudice a quo, la Corte precisava, a completamento del suo ragionamento, che ‘nel caso degli artt. 582 e 583 del codice penale l’agente risponde penalmente per una condotta violenta, propria e voluta, le cui conseguenze, più o meno gravi, rientrano tuttavia nella prevedibilità’.

Dopo siffatta pronuncia è intervenuta la legge di riforma dell’art. 59 cod. pen., sopra menzionata, che, abbandonando il principio di addebitabilità oggettiva delle circostanze, ha introdotto il criterio della previsione, della prevedibilità ovvero semplicemente della conoscibilità. Orbene, proprio sulla base di tale criterio – sia pure rapportandolo, erroneamente, all’ipotesi del concorso anomalo di cui all’art. 116 cod. pen. e all’uso di un’arma non identificata – che i giudici di merito hanno valutato l’addebitabilità a G. dell’aggravante in questione, rilevando che ‘l’intervenuto accordo tra un numero non esiguo di persone di aggredire in modo deciso ed efferato una persona sola, in un clima di reciproca esaltazione punitiva e violenta, l’evidente incapacità di ciascuno, in tale contesto, di controllare lo sviluppo della condotta del gruppo’, rappresentano tutti insieme elementi per ritenere che lo sfregio permanente del viso (o altra gravissima conseguenza) sia stato in concreto previsto e accettato dai componenti del branco, rappresentando ‘una eventualità estremamente probabile e non certo atipica della condotta in concreto tenuta, non ravvisandosi alcuna frattura del nesso psicologico e causale con l’evento più grave, ed anzi quest’ultimo innestandosi in una condivisa, violenta e prolungata aggressione di gruppo’ (pagg. 20-21).

Tale motivazione è non solo logica e congruente, ma pienamente aderente alle risultanze processuali, quali esposte nella stessa sentenza, comprendendosi che G. assalì proditoriamente il N. , insieme ad almeno altri cinque o sei compagni, con ferocia inusitata persino nei contesti descritti, facendolo oggetto, dopo averlo accecato con uno spray urticante, di pugni e calci, finanche mentre era a terra e non più in grado di opporre alcuna resistenza. Pienamente consequenziale è, pertanto, il divisamento espresso che tutti previdero e vollero le gravi lesioni riportate dalla vittima, essendo le stesse conseguenza naturale del tipo di aggressione portata contro di lui. A ciò aggiungasi, nel solco della motivazione esibita dal giudicante – già sufficiente a sostenere la conclusione cui è pervenuto – che irrilevante è persino l’uso, o la prova dell’uso, di un’arma da taglio, giacché la condotta di cui G. si è reso partecipe rappresenta, già da sola, causa efficiente dell’evento verificatosi in concreto. Il criterio di imputazione dell’aggravante è, quindi, per lui, non la colpa, ma il dolo diretto, e di ciò la sentenza impugnata ha dato lineare e logica motivazione.

2. Il secondo motivo di G. riguarda la contestata aggravante dei futili motivi. Motivo futile è definito, dalla giurisprudenza, uno stimolo di per sé stesso così lieve e sproporzionato in relazione al reato commesso da essere considerato, dalla coscienza collettiva, banale e inconsistente, tale da rappresentare, in realtà, una scusa, un pretesto per dare sfogo a istinti criminali (ex multis, Cass., 39261 del 13/10/2010).

Nel caso esaminato, per escludere ogni vizio della motivazione ed ogni violazione di legge, basti rilevare – col giudice di merito – che N. fu selvaggiamente aggredito per essersi intrattenuto a parlare (o anche a ballare) con una delle ragazze del gruppo di cui l’imputato faceva parte. Nessuna prova concreta o plausibile ragionamento è stato addotto circa il fatto che la vittima ‘importunò’ le ragazze suddette, posto che nessuna di esse, nonostante fossero tutte legate, in vario modo, agli aggressori, ha riferito comportamenti realmente molesti tenuti da N. nel corso della serata. Solo assertiva e ripetitiva dei motivi di gravame è, pertanto, l’insistenza sulle ‘molestie’ arrecate dalla vittima alla componente femminile del gruppo; molestie escluse dal giudicante dopo aver esaminato, puntigliosamente, le dichiarazioni delle interessate ed escluso che dalle stesse venisse una conferma, anche minima, della tesi difensiva, fondata sulle dichiarazioni vaghe e compiacenti di due sole ragazze (T. e Vi. ), che sono state smentite, oltretutto, dai numerosissimi altri testi presenti. L’assenza di alcuna plausibile ragione, anche fondata sulla particolare ‘ideologia’ dei componenti del gruppo di skinhead o redskin di cui gli imputati facevano parte, rende ragione, pertanto, del giudizio espresso dalla Corte di merito, secondo cui ‘il comportamento del N. ha rappresentato soltanto uno stimolo iniziale, un motivo irrisorio, banale e assolutamente sproporzionato, secondo il comune modo di sentire, per innescare un’aggressione particolarmente violenta, meditata, strategicamente elaborata con modalità tali da rendere inoffensiva la vittima’. Giudizio perfettamente calibrato sulla natura dell’aggravante contemplata dall’art. 61, comma 1, n. 1, cod. pen., di cui nessuna violazione è possibile predicare, pertanto, nella specie.

3. Manifestamente infondato è anche l’unico motivo di doglianza di C.G. . A suo carico sono state valorizzate non solo le chiare e significative dichiarazioni di B.P.C. – che lo ha inequivocabilmente collocato nel contesto dell’aggressione, come soggetto che partecipò alla ‘rissa’ -, ma anche quelle di Ch.An. (che lo ha individuato, sia pure con un margine di certezza del 50%, come ‘la persona che era con il gruppo quando questo era all’interno della sala’), nonché i precisi riscontri obbiettivi alle testimonianze di costoro, rappresentati: 1) dalle dichiarazioni di M.O. (che notò alcuni aggressori allontanarsi, subito dopo l’aggressione, con una Fiat Uno di colore bianco, effettivamente in uso, quella sera, al C. ); 2) dalla telefonata scambiata con G. alle ore 2,36, effettuata attivando settori diversi della stessa cella al servizio di una zona sita nelle immediate vicinanze del locale dell’aggressione, a conferma della sua presenza sul posto; 3) dallo SMS scambiato con G. alle ore 5,27, motivato dalla necessità di accertarsi sulla completezza del disimpegno e sulle conseguenze della colluttazione per i componenti del gruppo.

Trattasi, all’evidenza, di motivazione che valorizza precisi dati probatori, dotati di straordinaria forza dimostrativa (tanto vale, in particolare, per le dichiarazioni di B.P.C. , amica dell’imputato e non sospetta di intenti calunniosi nei confronti di costui, né di simpatie per il N. ), che compongono, nel loro insieme, un quadro probatorio ‘adeguato’ rispetto alla conclusione fatta propria dal giudicante e per nulla ‘equivoco’, al contrario di quanto ipotizzato dal difensore. Del tutto arbitrariamente il ricorrente svaluta, infatti, la dichiarazione di B.P.C. , la quale, collocando C. ‘li in mezzo’, intendeva chiaramente dire – come interpretato dai giudicanti – che era in mezzo al gruppo dei picchiatori, perché così precisò al Pubblico Ministero e perché ‘li in mezzo’ v’erano solo quelli coinvolti nell’aggressione (le dichiarazioni della teste, riportate in sentenza, non legittimano alcuna diversa interpretazione).

Non corrisponde a verità, poi, che i giudici d’appello abbiano valorizzato, contro l’imputato, la sua scelta di astenersi dal deporre. Essi hanno, invece, come è logico che facessero, preso atto della sua decisione e affermato, con logica ineccepibile, che la sottrazione al contraddittorio li esimeva dal verificare ipotesi alternative, neppure da lui allegate, e che alla versione accusatoria non si contrapponeva una versione difensiva suffragata dalla coerente prospettazione del soggetto interessato. Né in ciò è da ravvisare alcuna violazione di legge, giacché rappresenta solo la presa d’atto di una situazione che non ha consentito al giudicante di esercitare la logica nella direzione invocata dall’imputato.

Pertanto, bisogna concludere che la sentenza impugnata ha fatto buon governo delle regole della logica ed ha espresso un giudizio che tiene conto degli elementi di prova rilevanti per la ricostruzione e la lettura del fatto, nonché per l’individuazione delle responsabilità. Il vizio di motivazione lamentato non sussiste sotto alcun profilo, per cui anche il ricorso di C. va dichiarato inammissibile.

4. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché — ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

 P.Q.M.

 Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 a favore della Cassa delle ammende.

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