Cassazione 14

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 14 marzo 2016, n. 10758

Ritenuto in fatto

T. L., a mezzo del suo difensore, propone ricorso avverso la sentenza dei 16 ottobre 2014 della Corte di appello di Bolzano che aveva ridotto la pena fissata dal locale Tribunale con sentenza del 17 luglio 2013 ad anni 5, mesi 8 di reclusione ed euro 3.000,00 di multa, con la sola diminuente del rito abbreviato.
T. era stato accusato di avere sottratto, tra gennaio e novembre 2007, alla Banca di Trento e Bolzano, quale legale rappresentante delle s.r.l. T. Costruzioni e Edil T., in concorso con T. M., figlia dei ricorrente L. e dipendente come “responsabile operativo” della filiale di Bolzano dell’indicato istituto di credito, in più occasioni, somme varie dell’importo complessivo di circa 4 milioni di euro.
Erano state contestate al T. le aggravanti previste dagli artt. 625 n. 2, seconda ipotesi, 61 numeri 7 e 11 e la recidiva reiterata ed infraquinquennale.
La Corte territoriale aveva ricostruito ì fatti, peraltro non contestati nella loro materialità e nella loro attribuibilità quantomeno a M. T. che si erano concretati in disposizioni non autorizzate, né dai clienti né dai suoi superiori, sui conti dei clienti stessi, grazie alle quali la medesima acquisiva la provvista degli assegni circolari che poi emetteva (avendone la delega fino all’importo di 100.000 euro) a favore delle società riconducibili al padre che si trovavano in difficoltà finanziarie.
La Corte riteneva che tale condotta concretasse il delitto di furto piuttosto che quello meno grave di appropriazione indebita, come prospettato dalla difesa dell’imputato, posto che il bene distratto, il denaro dei clienti, era detenuto dalla T. in nomine alieno e non in nomine proprio.
M. T., infatti, era un mero quadro operativo dell’istituto di credito e le sue mansioni era solo quelle del controllo del rispetto delle procedure da parte dei cassieri (oltre alla già ricordata facoltà di emettere assegni circolari fino all’importo di 100.000 euro); era pertanto evidente che non aveva alcuna autonoma disponibilità del denaro in deposito nei conti dei clienti.
La Corte, poi, aveva ritenuto che l’odierno imputato, L. T., padre di M., avesse con lei concorso nel furto del denaro dei clienti della banca, visto che costui aveva ricevuto gli assegni circolari emessi dalla figlia a favore delle sue società, senza che ve ne fosse titolo alcuno, in significativa concomitanza con gli scoperti di quei conti che egli assiduamente controllava, li aveva puntualmente e personalmente versati su quegli stessi conti ed aveva consegnato alla figlia M. dei libretti di assegni bancari delle due s.r.l., da lui sottoscritti in bianco, così da consentirle di avviare quelle operazioni che culminavano nel rilascio ingiustificato degli assegni circolari.
L’imputato deduce cinque motivi di censura.
1 – Con il primo lamenta la violazione di legge penale sostanziale ed in specie del dettato degli artt. 624 e 646 cod. pen. e difetto di motivazione, laddove i giudici del merito avevano ritenuto che la condotta dei T., in concorso con la figlia M., dovesse qualificarsi come sottrazione dei denaro alla Banca di Trento e Bolzano piuttosto che come sua illecita appropriazione.
Doveva invece sottolinearsi che T. M. ricopriva un ruolo dirigenziale nella banca (a suo stesso dire era la responsabile di sala dell’agenzia n. 3 di Bolzano, coordinatrice dei cassieri e delegata a gestire i controlli interni) ed aveva pertanto la disponibilità ed il possesso delle somme dei clienti illecitamente indirizzate verso il patrimonio del padre e delle società a lui facenti capo. La suddetta poteva, altresì, effettuare, per conto della banca, operazioni di vario genere, in piena autonomia ed il concetto penalistico di possesso ha una latitudine ben maggiore di quello civilistico.
La condotta tenuta dal ricorrente in concorso con la figlia doveva pertanto qualificarsi come appropriazione indebita (si citano le sentenze della sezione sesta del 10 novembre 1987 e della sezione quinta del 21 gennaio 1994).
Nella sentenza impugnata ci sì era limitati a citare la sentenza della Cassazione n. 32543 del 2007 per rigettare il medesimo punto d’appello.
2 – Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione della legge penale sostanziale, in specie dell’art. 110 cod. pen., e difetto di motivazione, essendosi limitato il giudice del gravame a riportare le motivazioni del primo giudice non vagliando l’effettiva sussistenza del concorso del T. nella condotta della figlia. Non vi era infatti prova di alcun contributo causale dell’imputato. La stessa coimputata aveva affermato che riteneva che il padre non si fosse reso conto della provenienza illecita dei fondi ottenuti con l’emissione degli assegni circolari. Emissioni a cui la T. aveva comunque interesse essendo socia delle società che ne avevano beneficiato.
3 – Con il terzo motivo lamenta la violazione di legge, in specie dell’art. 99 cod. pen, e difetto di motivazione sull’avvenuto riconoscimento della recidiva.
Il giudice del gravame replicava la medesima motivazione del primo giudice senza tener conto delle argomentazioni dell’atto di appello. I precedenti penali del reo riguardavano episodi legati alla gestione della propria impresa edile ed erano quindi inconferenti rispetto alla nuova condotta contestatagli.
Il riferimento alla sostanziale contestualità con i fatti da cui erano scaturite le precedenti condanne non era elemento sufficiente a ritenere che la reiterazione del fatto fosse un concreto sintomo di riprovevolezza e pericolosità.
4 – Con il quarto motivo lamenta la violazione di legge penale sostanziale, ed in specie dell’art. 62 bis cod. pen., e difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La sentenza d’appello riproduceva la motivazione del primo giudice asserendo che la condotta di vita tenuta dall’imputato e dimostrata dai precedenti penali non consentiva di riconoscergli le attenuanti e così non si confrontava con quanto dedotto nell’atto di appello.
5 – Con il quinto motivo censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione della legge penale sostanziale, ed in specie dell’art. 133 cod. pen., e per difetto di motivazione sulla commisurazione della pena, fissata in misura piuttosto elevata, considerando anche che alla coimputata, per i medesimi fatti, era stata applicata, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., la pena di anni 2 e mesi 11 di reclusione.
Le poche e scarne considerazioni fatte dal giudice dei gravame non soddisfacevano l’obbligo di motivare la decisione e la reiezione dell’apposito motivo di appello.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza delle censure avanzate.
1 – Con il primo motivo si solleva la questione dell’esatta qualificazione giuridica della condotta contestata al T. come concorrente della figlia.
1 – 1 – Alcune pronunce di questa Corte risalenti nel tempo non avevano espresso dubbi sul fatto che la sottrazione di denaro dai conti (libretti di risparmio o conti correnti che fossero) dei clienti da parte dei dipendenti dell’istituto bancario che li aveva in deposito configurassero il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita.
Ci si riferisce alla sentenza della sezione seconda, n. 4853 del 20/12/1993, Rv. 197781, imp. Balzaretti, in cui si afferma che, ai fini della delimitazione dei confini tra il reato di furto e quello di appropriazione indebita, possono rientrare nella nozione di possesso vari casi di detenzione, ma deve comunque trattarsi di detenzione “nomine proprio” e non in “nomine alieno”, come in tutti i casi di persone che abbiano la disponibilità materiale della cosa ad altri appartenente in virtù del rapporto di dipendenza che le lega al titolare del diritto: deve pertanto escludersi possesso in senso penalistico in capo ad un dipendente di una Cassa dì Risparmio con riferimento a titoli di clienti (ma, attese le premesse, non diversa poteva essere la conclusione in riferimento al denaro depositato sui conti dei clienti) di cui il medesimo abbia la detenzione materiale o meramente precaria al limitato fine di determinate operazioni, non potendo portarli all’esterno se non per le esigenze connesse a dette operazioni.
E ci si riferisce, altresì alla pronuncia della sezione quarta, n. 1798 del 10/07/1996, Rv. 206302, imp. Iegiani che ribadisce come il cassiere di un’agenzia bancaria non abbia la disponibilità neanche provvisoria della provvista dei conti correnti dei clienti dell’istituto. Egli, nel momento in cui effettua il pagamento degli assegni, non esercita un libero atto dì disponibilità ma si limita a compiere una mera attività di esecuzione di precise disposizioni del correntista, il quale rimane, in ogni momento, possessore e “dominus” della gestione del conto. Pertanto, risponde del reato di furto e non del delitto di appropriazione indebita, il cassiere che, con movimentazioni fittizie, effettui spostamenti o prelievi dai conti correnti dei clienti, sottraendo denaro alla disponibilità di costoro, nonché quello che, dopo avere richiesto alla sede centrale fondi maggiori di quelli necessari, gonfiando il fabbisogno giornaliero, s’impossessi del denaro contante che transiti nella cassa per fare fronte alle esigenze correnti, posto che egli di tali somme ha la mera, momentanea detenzione senza alcun autonomo potere di disposizione.
1 – 2 – Tale orientamento veniva ribadito dalla più recente sentenza della sezione sesta, n. 32543 del 10/05/2007, Rv. 237175, imp. Varriano, in cui si afferma che risponde del reato di furto aggravato e non di appropriazione indebita, il dipendente di una banca che si impossessi, mediante movimentazioni effettuate con i terminali dell’ufficio, di somme di danaro di clienti depositate in conti correnti.
1 – 3 – La difesa assumeva che a tale indirizzo si contrapponeva quello rappresentato dalle sentenze (Cass. Sez. 6, n. 5170 del 10/11/1987, Rv. 178242, imp. Di Mese; ed ora anche Cass. Sez. 2, n. 28786 del 18/06/2015, Rv. 264152, imp. Frisicaro) in cui si è affermato che, in considerazione del fatto che la proprietà delle somme di danaro versate in banca dai titolare di un deposito in conto corrente spetta, ai sensi dell’art. 1834 cod. civ., alla banca depositaria, mentre al correntista l’art. 1852 stesso codice riconosce solo il potere di disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito, escludendolo anche dal possesso di dette somme che, per quanto contabilizzate nel conto di sua pertinenza, fanno tuttavia parte della massa monetaria appartenente alla banca, da ciò conseguendo che il cassiere di banca, in quanto destinatario dell’obbligo di custodia di danaro, valori e titoli in dotazione alla cassa, è titolare del possesso di essi e come tale qualora disponga in proprio favore di somme depositate sul conto corrente, risponde di appropriazione indebita in danno della banca e non già di delitti in danno del correntista perché l’azione svolta nei confronti di questi (falso o altro) interviene ad appropriazione indebita già avvenuta ed al solo fine di “copertura contabile”.
Si tratta però di un indirizzo che non si pone in contrasto con quello precedentemente illustrato perché muove da premesse di fatto diverse.
In tali ultimi casi, infatti, i cassieri si erano appropriati del denaro versato in cassa dai clienti della banca ancor prima che esso fosse accreditato sui rispettivi conti. Così l’operazione di accredito non era mai realmente avvenuta (e se lo risultava si era consumato un falso ai danni del depositante), e ne discendeva che i cassieri si erano pertanto appropriati dei denaro della cassa del quale, rispetto alla banca, erano i custodi.
Né sono conferenti i precedenti giurisprudenziali, citati dalla difesa, che configurano il delitto di appropriazione indebita nel caso di un dirigente di banca rispetto alle somme che era abilitato a movimentare, essendo dei tutto evidente che questi, per conto dei datore di lavoro, ne aveva la diretta disponibilità.
1 – 4 – Decisivo per la corretta qualificazione della condotta è allora il fatto, già adeguatamente valorizzato dalla Corte territoriale, che M. T. non aveva alcuna disponibilità autonoma del denaro depositato sui conti dei clienti della banca per cui lavorava poiché, anche considerando che tali somme erano divenute di proprietà dell’istituto di credito ai sensi dell’art. 1834 cod. civ. (e, difatti, la persona offesa era stata in questo identificata in imputazione), la stessa non ne aveva alcuna disponibilità, per conto dell’istituto di credito, tantomeno autonoma.
Né aveva rilievo il fatto che fosse abilitata ad emettere, per conto della banca, assegni circolari fino all’importo di euro 100.000, poiché tale facoltà era ovviamente subordinata al fatto che i relativi fondi le fossero stati resi disponibili, consapevolmente e volontariamente, dai clienti stessi o da chi tali titoli aveva richiesto. Costituendo quindi, l’emissione del titolo, nell’odierna fattispecie, solo il mezzo per consentire al padre di incassare il denaro già precedentemente sottratto alla banca ed ai clienti.
E’ allora evidente, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta infondatezza del motivo di ricorso del T..
2 – II secondo motivo è parimenti inammissibile perché richiede alla Corte una lettura del quadro probatorio opposta a quella a cui la Corte territoriale era giunta con analitica motivazione in ordine alla piena compartecipazione del padre L. alle condotte della figlia M..
Sulla base delle seguenti considerazioni.
Era L. T. che aveva necessità di denaro per ripianare i conti delle due s.r.l. di cui era amministratore, era sempre costui che si recava assiduamente in banca per controllare la capienza dei conti, era ancora lui che ritirava gli assegni circolari emessi dalla figlia e andava in banca ad accreditarli. Sempre nella perfetta consapevolezza, quale amministratore delle società, che quei fondi non erano affatto dovuti.
Era ancora L. T. ad aver consegnato alla figlia i libretti di assegni sottoscritti in bianco per consentirle quelle operazioni che culminavano nel rilascio degli assegni circolari.
E’ allora evidente come la Corte abbia ricavato dal complesso probatorio l’unica lettura possibile sul piano logico, il concorso dell’odierno imputato nelle condotte della figlia M..
3 – Manifestamente infondati sono anche il terzo, il quarto ed il quinto motivo, tutti attenenti al trattamento sanzionatorio.
Quanto al riconoscimento della recidiva la motivazione della Corte territoriale appare priva di alcun vizio logico posto che le precedenti condanne erano derivate dalla conduzione da parte dell’imputato di attività imprenditoriali ed era evidente che anche le condotte oggetto dei presente giudizio erano state consumate nello stesso ambito, per risollevare dall’indebitamento le società attraverso le quali T. operava nell’edilizia, così che dei tutto corretto appariva il giudizio dì aumentata pericolosità sociale.
Quanto alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche la Corte, con giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità in assenza di vizi e discrasie logiche (Cass. Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419, imp. Caridi), ha concretamente valutato le ragioni della difesa che le aveva richieste per la situazione di indebitamento delle società dell’imputato e per il suo precario stato di salute, ritenendo però che entrambe le circostanze addotte non consentissero un’attenuazione della pena, costituendo la prima il movente della condotta ed il secondo non avendo in alcun modo inciso sulla propensione a delinquere dimostrata nell’occasione dal T..
Esente da qualsivoglia vizio logico è anche la quantificazione della pena che aveva dovuto tener conto della gravità dei fatti che avevano comportato una sottrazione di fondi ingentissima, pari a circa 4 milioni di euro.
La discrasia con la sanzione irrogata alla figlia M. trovava poi ampia giustificazione con il fatto che il furto di denaro all’istituto bancario è stato consumato nell’interesse precipuo dei L. T. che quelle società amministrava.
4 – All’inammissibilità dei ricorso segue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e, versando il ricorrente in colpa, anche al versamento di una somma, che si ritiene equo fissare in euro 1.000, alla Cassa delle ammende. L’imputato deve anche rifondere le spese dei grado sostenute dalle parti civili che si liquidano nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili che liquida in complessivi euro 2.000 oltre accessori come per legge.

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