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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 10 luglio 2014, n. 30512


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARASCA Gennaro – Presidente
Dott. VESSICHELLI Mar – rel. Consigliere
Dott. MICHELI Paolo – Consigliere
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere
Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo G. – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ORVIETO;
nei confronti di:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 225/2011 TRIBUNALE di ORVIETO, del 22/06/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/04/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. E. Delehaye che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
Udito il difensore Avv. (OMISSIS).

FATTO E DIRITTO
Propone ricorso per cassazione, per saltum, il Procuratore della Repubblica di Orvieto, avverso la sentenza del locale Tribunale, in data 22 giugno 2012, con la quale e’ stato assolto (OMISSIS) dal reato di cui agli articoli 81 cpv. e 480 c.p., in relazione all’articolo 491 bis c.p., perche’ il fatto non sussiste.
L’imputato era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui agli articoli citati, per avere, nell’esercizio delle sue funzioni di notaio e quindi pubblico ufficiale, attestato, nelle autoliquidazioni prodotte a mezzo di documenti informatici pubblici, una serie di fatti dei quali gli atti erano destinati a provare la verita’, e che egli invece, appunto, attestava falsamente e cioe’ in maniera contrastante con i dati reali riportati negli atti pubblici di compravendita di riferimento: fatti commessi fra il (OMISSIS) e il (OMISSIS). Il giudice di primo grado ha sostenuto che, ai sensi del Decreto Legislativo n. 463 del 1997, articolo 3 ter, le condotte tenute dal notaio, nella procedura di auto-liquidazione delle imposte, pur connotate da dolo o colpa grave, comportano esclusivamente sanzioni di tipo disciplinare, quando il professionista sia gia’ stato giudicato, come nel caso di specie, per il reato di peculato. Oltre a cio’, e’ previsto una apposito procedimento amministrativo di accertamento che si conclude con l’inoltro, al notaio, di un avviso di liquidazione diretto alla regolarizzazione dell’imposta mediante il versamento di quanto ancora dovuto. Non e’ invece prevista la denuncia all’autorita’ giudiziaria.
Deduce il ricorrente:
1) la violazione di legge ed in particolare degli articoli 81 e 15 c.p..
La giurisprudenza di legittimita’ sostiene il concorso e non l’assorbimento fra l’ipotesi di peculato e quella di falso, anche se quest’ultima e’ stata funzionale all’appropriazione del denaro pubblico;
2) la violazione del Decreto Legislativo n. 463 del 1997.
Ad avviso del ricorrente la motivazione del giudice sembrerebbe appoggiarsi a quella emessa dal Tribunale in composizione collegiale in ordine all’imputazione di peculato addebitata allo stesso ricorrente, mentre invece e’ vero che la sentenza in questione ha sostenuto la tesi opposta.
Ad ogni buon conto, l’assunto liberatorio, ammesso che sia fondato sulla Legge n. 689 del 1981, articolo 9, e cioe’ sul principio di specialita’, che fa prevalere la violazione amministrativa speciale rispetto alla norma penale, sarebbe illegittimo. Ed infatti il detto articolo 9 sancisce il principio di specialita’ fra una violazione amministrativa e un precetto penale che abbiano ad oggetto lo stesso fatto, mentre nel caso di specie ci si troverebbe di fronte a comportamenti solo parzialmente coincidenti. In secondo luogo non vi e’ neppure previsione di sanzione amministrativa ma, ai sensi dell’articolo 3 ter citato, sanzione soltanto disciplinare e la Legge n. 689 del 1981, articolo 12, esclude espressamente dal campo di operativita’ del principio di specialita’, le violazioni disciplinari.
In data 11 aprile e’ stata depositata una memoria difensiva con la quale l’estensore ha replicato al ricorso del PM, del quale ha chiesto il rigetto, sostenendo che la sanzione amministrativa e’ prevista dalla normativa regolante la materia ed e’ disciplinata dal Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13.
Il ricorso e’ fondato, come rilevato anche dal Procuratore Generale di udienza.
Occorre in primo luogo ribadire che, tra il reato di peculato e il reato di falsita’ ideologica in certificazione amministrativa non si pone la questione della operativita’ del principio di specialita’ di cui all’articolo 15 c.p., del resto neppure sostenuta nel provvedimento impugnato, ma soltanto evocata – sia pure per escluderla- dal pubblico ministero impugnante.
Ed infatti tale principio opera quando piu’ leggi penali regolano la stessa materia mentre e’ di tutta evidenza che il bene giuridico protetto dal reato di peculato – ossia il patrimonio della pubblica amministrazione unitamente alla legalita’, efficienza ed imparzialita’ della stessa pubblica amministrazione – e’ del tutto diverso da quello tutelato dal reato di cui all’articolo 480 c.p., che e’ norma posta a tutela della pubblica fede.
Neppure sembra ricavabile, dalla motivazione del giudice a quo, l’applicazione di una sorta di criterio di assorbimento, della condotta afferente al reato di falso, ad opera di quella di peculato, posto che col primo reato viene punita una azione falsificatrice di certificazione che e’ diversa e non indispensabile per la configurazione della condotta appropriativa di risorse pubbliche, propria del peculato.
Puo’ costituirne, cioe’, una delle possibili modalita’ esecutive ma non un elemento integrativo della fattispecie astratta.
Per tale motivo, il riferimento, compiuto nella sentenza impugnata, alla condanna del ricorrente per il reato di peculato in relazione alla vicenda in esame, non presenta connotati diversi dalla semplice rievocazione storica.
Il nucleo del ragionamento del Tribunale sembra, piuttosto, derivare da una erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 463 del 1997.
Ed, infatti, il giudice a quo ricorda che tale decreto prevede, nel caso di dichiarazioni infedeli o inesatte relative ad autoliquidazioni, un procedimento di natura amministrativa consistente nell’accertamento che si conclude con l’inoltro, al professionista, di un avviso di liquidazione volto alla regolarizzazione dell’imposta mediante il versamento di quanto ancora dovuto. Nel caso, poi, di dolo o colpa grave, l’articolo 3 ter dello stesso decreto prevede segnalazioni all’autorita’ disciplinare. Tanto esaurirebbe tutti gli effetti della falsa certificazione relativa alla liquidazione.
Ed invece, come correttamente denunciato dal Pubblico ministero, il Decreto Legislativo n. 463 del 1997, articolo 3 ter, disciplina semplicemente il controllo sulla regolarita’ dell’autoliquidazione che l’ufficio competente deve effettuare sulla base degli elementi desumibili dall’atto, essendo legittimato a notificare l’avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata.
Tale precetto, in altri termini, non prevede un illecito amministrativo e tanto meno una sanzione amministrativa ma una procedura di emenda dell’errore formale ricavabile dallo stesso atto di autoliquidazione, sicche’ non viene nemmeno in discussione l’operativita’ dell’ulteriore principio di specialita’, sancito dalla Legge n. 689 del 1981, articolo 9, con riferimento al concorso, sullo stesso fatto, di una sanzione penale e di una sanzione amministrativa.
D’altra parte, anche il Decreto Legislativo n. 471 del 1997, articolo 13, (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi), segnalato nella memoria difensiva, non e’ norma capace di integrare, con la legge penale, uno dei poli del principio di specialita’, nel caso che ci occupa, atteso che tale precetto prevede la sanzione amministrativa riferendosi, pero’, ai ritardati od omessi versamenti della imposta risultante dalla dichiarazione e non ai casi in cui la attestazione sia falsa, come avvenuto nel caso di specie.
Ancora, la previsione di una sanzione disciplinare non vale a dare corpo al detto principio di specialita’, per la esplicita previsione in tale senso, ad opera della Legge n. 698 del 1981, articolo 12. Siffatto principio, d’altro canto, significativamente non viene nemmeno citato nel provvedimento impugnato.
Piu’ semplicemente, il giudice ha compiuto una interpretazione illegittima della normativa di settore, nel ritenere che le conseguenze dell’autoliquidazione errata siano esclusivamente quelle sopra riportate, errando anche nel sostenere che quando le liquidazioni siano il frutto di dolo o colpa, le conseguenze sono previste dal citato decreto con riferimento all’ambito tributano e a quello disciplinare, e sono atte a scongiurare quelle di tipo penale discendenti da specifiche norme di legge regolanti la materia: nel caso di specie, da quella indicata nel capo di imputazione, resa cogente dal principio della obbligatorieta’ della azione penale. Quella del Giudice a quo e’ dunque un’affermazione meramente apodittica, che non e’ suffragata da alcun principio normativo, ne’ espresso in sentenza ne’ ricavabile dall’ordinamento, alla luce dei criteri e dei principi sopra evocati.
Si impone l’annullamento della sentenza del Tribunale, con rinvio alla Corte d’appello, ai sensi dell’articolo 569 c.p.p., comma 4, affinche’ giudichi sul fatto in esame attenendosi ai principi enunciati.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per il relativo giudizio.

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