Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 5 gennaio 2017, n. 522

Ai fini della configurabilità del reato di diffamazione, deve presumersi la sussistenza del requisito della comunicazione con più persone qualora l’espressione offensiva sia inserita in un documento (nella specie un vaglia postale) per sua natura destinato ad essere normalmente visionato appunto da più persone. (Fattispecie relativa alla condotta dell’imputato che, nella causa di un vaglia postale, aveva utilizzato l’espressione “mantenuta” nel rivolgersi all’ex coniuge. Il contenuto del vaglia postale, infatti, non resta riservato tra il mittente ed il destinatario, ma, per necessità operative del servizio postale (registrazione, trasmissione e comunicazione al destinatario), entra a far parte del patrimonio conoscitivo di più persone addette all’ufficio incaricato).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

SENTENZA 5 gennaio 2017, n. 522

Ritenuta in fatto e diritto

1.Con sentenza in data 9.7.2015 il Tribunale di Potenza confermava la sentenza dei locale Giudice di Pace, con la quale S. V. era stato ritenuto responsabile dei reato di diffamazione nei confronti della ex moglie, R. T., definendola ‘mantenuta’ nella causale dei vaglia postali, relativi alle somme alla stessa versate dall’imputato a titolo di mantenimento, anche per la figlia minore, e condannato alla pena di € 1.000.00 di multa, oltre al risarcimento del danno non patrimoniale per € 5.000,00.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, affidato ‘a due motivi, con i quali lamenta:

-con il primo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 595 c.p. ed il vizio di motivazione, posto che i giudici di merito hanno presunto la conoscenza dell’offesa contenuta nel telegramma in base a ‘norme di comune esperienza’, laddove non si evince da alcun atto processuale che effettivamente qualcuno abbia letto la frase diffamatoria, se non i testi R. E. e D.B.M., i quali hanno appreso della frase della parte offesa; invero, in virtù delle attuali norme in materia di corrispondenza vige una rigida tutela della privacy, sicchè non è affatto vero che l’operatore dell’Ufficio Postale possa leggere le comunicazioni del mittente; il sistema di spedizione attuale dei telegrammi comporta una riservatezza assoluta sui dati ivi contenuti, tanto è vero che il messaggio perviene al destinatario in busta chiusa; il reato in questione poi necessita pur sempre del dolo generico e vale a dire della coscienza e volontà del fatto materiale, ma l’elemento intenzionale non può configurarsi con la mera spedizione di un plico sigillato, la cui apertura e successiva diffusione il S. non poteva immaginare, essendo convinto che il testo dei telegramma non potesse essere letto da alcun operatore postale; il teste C. R., sentito all’udienza dei 27/02/2014 dinanzi al Giudice di Pace di Potenza, ha dichiarato ‘di aver effettuato solo la trasmissione degli atti’, a riprova che non è possibile leggere il testo relativo alle comunicazioni del mittente, mentre gli altri due testi ascoltati in primo grado R. E. e D.B.M. hanno riferito di aver appreso del contenuto diffamatorio dalla parte offesa;

-con il secondo motivo, l’inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2043 c.c. e 1226 c.c. atteso che il Giudice dell’appello ha riconosciuto congruo il risarcimento del danno non patrimoniale come liquidato dal Giudice di Pace (€ 5.000,00) ‘avuto riguardo al grado di offensività della condotta e al nocumento psicologico patito dalla persona offesa’, laddove, la comunicazione dell’offesa

all’addetto e alla parte non pare, invece, determinare un grado di offensività elevato nella condotta dei S..

I1 ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.

3.1. II primo motivo di ricorso con il quale il ricorrente censura la sussistenza dell’elemento della ‘comunicazione con più persone’, caratterizzante il delitto di cui all’art. 595 c.p., si presenta completamente destituito di fondamento, atteso che il giudice d’appello – nel ritenere che il termine ‘mantenuta’, utilizzato dall’imputato nella causa del vaglia postale, nel rivolgersi all’ex coniuge, risulta offensivo della reputazione della donna, riferendosi alla nozione comunemente accettata in ambito sociale di percettrice di reddito, in assenza di qualsivoglia prestazione lavorativa, da soggetti terzi- ha evidenziato correttamente come il contenuto del vaglia postale non resta riservato tra il mittente ed il destinatario, ma, per necessità operative del servizio postale (registrazione, trasmissione e comunicazione al destinatario), entra a far parte del patrimonio conoscitivo di più persone addette all’ufficio incaricato. In tale contesto, dunque, risulta soddisfatto il requisito di cui all’art. 595 c.p. che richiede, ai fini della configurabilità del reato di diffamazione, che l’autore della frase lesiva dell’altrui reputazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona ma con modalità tali che detta notizia venga sicuramente a conoscenza di altri (Sez. 5, n. 34178 del 10/02/2015), come nella fattispecie in esame. Invero in tema di diffamazione, deve presumersi la sussistenza del requisito della comunicazione con più persone qualora l’espressione offensiva sia inserita in un documento (nella specie un vaglia postale) per sua natura destinato ad essere normalmente visionato appunto da più persone (Sez. 5, n. 3963 del 06/07/2015).

2.Manifestamente infondato si presenta anche il secondo motivo di ricorso, atteso che il giudice d’appello, con ragionamento immune da vizi, ha ritenuto congruo il danno liquidato alla persona offesa, in relazione al nocumento psicologico dalla stessa patito. Tale valutazione, implicando una discrezionalità di merito, avrebbe potuto essere censurata nella misura in cui si fosse tradotta in una valutazione del tutto esorbitante al di fuori di ogni logica e del senso comune, elemento questo che senz’altro non si ravvisa nella fattispecie in esame.

Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende. Motivazione semplificata

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