Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 23 agosto 2016, n. 35361

In tema di diffamazione a seguito di pubblicazione di una intervista, va esclusa la responsabilità del giornalista quando un personaggio, che occupa una posizione di alto rilievo nell’ambito della vita politica, sociale, economica, scientifica, culturale, rilasci dichiarazioni, pure in sé diffamatorie, nei confronti di altro personaggio, la cui posizione sia altrettanto rilevante negli ambiti sopra indicati.
In tal caso è la dichiarazione rilasciata dal personaggio intervistato che crea di per sé la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate. Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata perché soddisfa quell’interesse della collettività all’informazione che deve ritenersi indirettamente protetto dall’art. 21 della Costituzione.
Ciò perché la notizia è costituita dal fatto in sé delle dichiarazioni del personaggio altamente qualificato, risultando l’interesse del pubblico ad apprenderla del tutto indipendente dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza dei linguaggio adottato; pretendere che il giornalista intervistatore controlli la verità storica del contenuto dell’intervista potrebbe comportare una grave limitazione alla libertà di stampa; pretendere che il pubblicista si astenga dal pubblicare l’intervista perché contenente espressioni offensive ai danni di altro personaggio noto, significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare l’opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l’altro attribuirsi ai giornalista il compito di purgare il contenuto dell’intervista dalle espressioni offensive, sia perché gli verrebbe attribuito un potere di censura che non gli compete, sia perché la notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da un personaggio noto all’indirizzo di altro personaggio noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato

Suprema Corte di Cassazione

sezione V penale

sentenza 23 agosto 2016, n. 35361

Fatto e diritto

Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Lecce, in data 18.3.2008, aveva condannato P.M. e M.A. , imputati del reato di cui agli artt. 81, 110, 57, 595, co. 1 e 3, c.p., commesso in danno di Pa.Bi. , alle pene ritenute di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, rideterminava in senso più favorevole alla sola M. il trattamento sanzionatorio, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione entrambi gli imputati, a mezzo dei loro rispettivi difensori di fiducia, con distinti atti di impugnazione.
2.1. In particolare, il P. , nel ricorso a firma dell’avv. Tommaso Donvito, del Foro di Lecce, deduce: 1) vizio di motivazione, in quanto, come si evince dalla lettura dei verbali del consiglio comunale di Gallipoli del 19.8.2005, corrisponde al vero la notizia fornita telefonicamente dall’imputato alla giornalista M. , che il consigliere Pa.Bi. in quella occasione votò a favore della “Maya s.r.l.”, affinché l’area della erigenda caserma rimanesse inserita nell’ambito dei territori “costruiti”, non soggetti alla disciplina vincolistica del P.U.T.T.; 2) vizio di motivazione, in quanto la corte territoriale non ha considerato che nella stessa querela presentata dalla persona offesa si afferma che il P. aveva inviato una dichiarazione dello stesso contenuto di quella incriminata, alla Gazzetta del Mezzogiorno, per cui, non essendovi in tale ultima dichiarazione nessun riferimento al conflitto di interessi denunciato nell’intervista riportata alcuni giorni dopo sul “(OMISSIS) “, a firma della M. , trova conferma la tesi difensiva secondo cui l’imputato si è limitato a riferire alla giornalista solo la circostanza del voto espresso dal Pa. , dovendosi attribuire all’iniziativa dell’imputata il rifermento al suddetto conflitto di interessi; 3) vizio di motivazione in quanto la corte territoriale ha indebitamente posto a base del suo convincimento anche l’assunto secondo cui, se effettivamente il P. non avesse rilasciato alla giornalista le dichiarazioni ritenute diffamatorie, egli avrebbe reagito in qualche modo, dopo averne appreso la pubblicazione, laddove la scelta di non attivarsi nei confronti del quotidiano, è dipesa esclusivamente da ragioni di ordine personale; 4) la necessità di rinviare gli atti al giudice di merito, affinché valuti l’esistenza delle condizioni necessarie per l’applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis, c.p..
2.2. La M. , nel ricorso a firma degli avv. Giuseppe e Pasquale Corleto, del Foro di Lecce, lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione al mancato riconoscimento dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, configurabile nel caso in esame perché la giornalista raccolse una vera e propria intervista dal P. , come ammesso dalla stessa corte territoriale, avente ad oggetto eventi (l’erigenda caserma dei Carabinieri) di pubblico interesse per la collettività ed, in particolare, per la comunità di Gallipoli, anche in relazione alla notorietà locale, politica e professionale, del coimputato e della persona offesa, che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, acquista un’importanza tale da risultare prevalente sui requisiti della verità e della continenza della notizia.
3. Diversi sono gli epiloghi decisori dei ricorsi proposti.
4. Inammissibile appare il ricorso del P. , la cui intervista alla M. , pubblicata il 10.2.2007 sulla testa a diffusione locale “(OMISSIS) “, era stata ritenuta dai giudici di merito offensiva della reputazione dell’avv. Pa.Bi. , in quanto in essa si affermava, contrariamente al vero, che quest’ultimo “mentre da un lato era capogruppo dell’XXXXX, contemporaneamente era anche il legale della Maya srl ovvero della società titolare della licenza edilizia (relativa alla costruzione della caserma) e votava a favore della sanatoria in Consiglio”, così “facendo credere ai lettori che l’avvocato avesse “mischiato” il suo ruolo di legale con quello pubblico di consigliere comunale al fine di favorire la società” innanzi indicata (cfr. capo d’imputazione).
Con esso, infatti, il ricorrente espone censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. V, 22.1.2013, n. 23005, rv. 255502; Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, rv. 235507; Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510; Cass., sez. III, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508).
Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimità, anche dopo la novella dell’art. 606, c.p.p., ad opera della l. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256, rv. 234148).
Sicché il sindacato della Cassazione resta quello di sola legittimità, esulando dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente, come nel caso in esame, una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processuali (cfr. Cass., sez. II, 23.5.2007, n. 23419, rv. 236893). La corte territoriale, del resto, con motivazione approfondita ed immune da vizi, ha puntualmente disatteso le doglianze difensive (sostanzialmente riproposte acriticamente con i motivi di ricorso), evidenziando: 1) come il colloquio tra il P. e la M. non sia qualificabile in termini di semplice conversazione informale, apparendo, piuttosto, una vera e propria intervista, posto che quest’ultima, nella veste di giornalista, pose all’imputato una serie di domande, ricevendone risposta; 2) come tutti i voti espressi in consiglio comunale dal Pa. in ordine alla vicenda di cui di discute non fossero orientati a favore della società “Maya”, ivi compreso quello dell’agosto del 2005, che, spiega la corte territoriale, va letto alla luce della posizione assunta dall’intera opposizione comunale, contraria “sia agli emendamenti che all’intera delibera di adeguamento al Putt mediante la definizione dei territori costruiti”; 3) come non sia sostenibile la tesi difensiva di non avere riferito alla giornalista di un conflitto di interessi in cui versava il Pa. , sulla base di una serie di argomentazioni di ordine logico (non avere l’imputato reagito in alcun modo, anche per ottenere una smentita, dopo avere avuto contezza della pubblicazione dell’intervista; l’irrilevanza dell’assenza di ogni riferimento all’affermazione falsa e lesiva della reputazione della parte lesa nell’articolo successivamente riportato su altra testata giornalistica) e della circostanza che nella bozza di una lettere di scuse indirizzata al Pa. , consegnata dal P. al suo legale, acquisita agli atti, lo stesso imputato aveva ammesso di avere riferito alla M. “cose non completamente corrette”.
Quanto alla doglianza relativa alla causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis, c.p., si osserva che la suddetta eccezione, proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione, appare assolutamente generica, posto che, come chiarito dal Supremo Collegio nella sua espressione più autorevole (cfr. ancora Cass., sez. U., 25.2.2016, n. 13681, rv. 266593), la valutazione sulla particolare tenuità del fatto richiede l’analisi e la considerazione della condotta, delle conseguenze del reato e del grado della colpevolezza, profili sui quali il ricorrente non si è soffermato specificamente, limitandosi a sottolineare l’assenza delle condizioni che, ai sensi dell’art. 131 bis, co. 2 e 3, c.p., impediscono di applicare la menzionata causa di non punibilità, e l’incensuratezza dell’imputato.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso del P. , consegue, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., la condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
5. Va, invece, accolto il ricorso della M. , essendo sorretto da motivi fondati.
Ritiene, infatti, il Collegio di aderire ad un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, che ha ben definito i profili di responsabilità per il reato di diffamazione del giornalista autore di un intervista su temi di rilevante interesse pubblico, non ignoto, peraltro, alla stessa corte territoriale, che, tuttavia, non ne ha adeguatamente valutato tutte le implicazioni e la loro ricaduta sul caso in esame.
Come è stato osservato, infatti, in tema di diffamazione a seguito di pubblicazione di una intervista, va esclusa la responsabilità del giornalista quando un personaggio, che occupa una posizione di alto rilievo nell’ambito della vita politica, sociale, economica, scientifica, culturale, rilasci dichiarazioni, pure in sé diffamatorie, nei confronti di altro personaggio, la cui posizione sia altrettanto rilevante negli ambiti sopra indicati.
In tal caso è la dichiarazione rilasciata dal personaggio intervistato che crea di per sé la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate. Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata perché soddisfa quell’interesse della collettività all’informazione che deve ritenersi indirettamente protetto dall’art. 21 della Costituzione.
Ciò perché la notizia è costituita dal fatto in sé delle dichiarazioni del personaggio altamente qualificato, risultando l’interesse del pubblico ad apprenderla del tutto indipendente dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza dei linguaggio adottato; pretendere che il giornalista intervistatore controlli la verità storica del contenuto dell’intervista potrebbe comportare una grave limitazione alla libertà di stampa; pretendere che il pubblicista si astenga dal pubblicare l’intervista perché contenente espressioni offensive ai danni di altro personaggio noto, significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare l’opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l’altro attribuirsi ai giornalista il compito di purgare il contenuto dell’intervista dalle espressioni offensive, sia perché gli verrebbe attribuito un potere di censura che non gli compete, sia perché la notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da un personaggio noto all’indirizzo di altro personaggio noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato (cfr. Cass., sez. V, 11.4.2013, n. 28502, nonché Cass., sez. U., 30.5.2001, rv. 219651).
Orbene ritiene il Collegio che, dovendosi avere riferimento al preminente interesse della collettività all’informazione, quel che rileva è il contesto ambientale in cui viene diffusa la notizia, cui va parametrato sia il suddetto interesse, sia il rilievo assunto dall’intervistato e dal soggetto offeso dall’intervista, nel senso che la “notorietà” non assume rilievo di per sé, ma in relazione alla rilevanza che la notizia assume per la comunità in cui è destinata a diffondersi.
Appare, pertanto, del tutto irrazionale limitare al solo ambito delle collettività più estese, identificate nelle comunità nazionale e internazionale, la tutela del preminente interesse all’informazione e, per converso, escludervi le comunità territoriali di minore estensione (Comuni, Città metropolitane, Regioni), che pure godono di rilievo costituzionale, costituendo, insieme con lo Stato, altrettante articolazioni della Repubblica (cfr. art. 114, Cost.).
Del resto, come opportunamente rilevato dalla ricorrente, le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza richiamata dalla corte territoriale, hanno evidenziato che l’interesse sociale alla divulgazione di dichiarazioni di personaggi noti, può essere configurato “non solo in ambito nazionale o internazionale, ma anche in ambiti più ristretti, fino a quello locale o settoriale” (cfr. Cass., sez. U., 30.5.2001, n. 37140, rv. 219651).
Ciò posto, non può non rilevarsi, innanzitutto, come la stessa corte territoriale abbia evidenziato che “la questione relativa alla costruzione della caserma dei carabinieri a Gallipoli era particolarmente controversa tra le parti politiche ed aveva avuto una forte ripercussione presso l’opinione pubblica locale”.
Rispetto all’evidente interesse della collettività del comune di Gallipoli a conoscere e ad approfondire il tema in questione, stante la riconosciuta rilevanza da esso assunta nel dibattito cittadino, emerge e si apprezza anche la notorietà dell’intervistato e della persona offesa.
Il P. , infatti, come sottolineato dallo stesso giudice di secondo grado, non solo era uno degli esponenti delle parti politiche coinvolte nel dibattito, ma era intervenuto con ben cinquanta articoli di stampa sul tema, assicurandosi, dunque, un’evidente visibilità al riguardo in ambito cittadino; il Pa. , dal suo canto, era capogruppo dell’XXXXX in consiglio comunale (qualità che, in quanto tale, gli garantiva ampia visibilità nel medesimo ambito) ed, inoltre, erano note le posizioni pubbliche da lui espresse in consiglio comunale sulla vicenda di cui discute, avendo, tra l’altro, come evidenziato dalla corte territoriale, votato contro gli interessi della “Maya”, per ottenere che l’area dell’erigenda caserma rimanesse esclusa dai territori “costruiti”.
Sulla base delle svolte considerazioni, dunque, la condotta della M. deve ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 51, c.p., sub specie dell’esercizio del diritto di cronaca, prevalendo nel caso in esame l’interesse della collettività del comune di Gallipoli alla conoscenza della notizia, sulla verità e continenza della notizia stessa, essendo, peraltro, incontestato ed incontestabile, che la giornalista, da un lato abbia agito esclusivamente nell’interesse dei lettori, assumendo la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, e non allo scopo di danneggiare il diffamato, dall’altro abbia preventivamente accertato che le dichiarazioni del P. erano meritevoli di essere pubblicate, perché provenienti da un soggetto noto per il suo impegno politico ed affidabile, essendo intervenuto più volte sul tema oggetto del dibattito pubblico (cfr. Cass., sez. U., 30.5.2001, n. 37140, rv. 219651).
La sentenza impugnata, con riferimento alla posizione della M. , va, pertanto annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, con conseguente revoca delle statuizioni civili disposte a suo carico in favore della costituita parte civile.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso del P. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.A. perché il fatto non costituisce reato, revocando le relative disposizioni civili.

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